Esegesi e meditazione alle letture di domenica 25 Dicembre 2022 – don Jesús GARCÍA Manuel

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Prima lettura: Isaia 52,7-10

Quante volte può capitare che una notizia buona renda “bella”, gradevole e beneaugurante anche la persona che l’ha recata! A questo certamente avrà pensato il profeta anonimo che noi chiamiamo Deuteroisaia, riferendosi, con un’immagine invero un po’ ardita, ai piedi “belli” di un messaggero, che ha raggiunto il luogo che deve ricevere il messaggio che egli reca. È un messaggio lieto, che augura il bene supremo della salvezza, che consiste nel fatto che Dio ormai inaugura il suo regno.

Non sono più i regni umani, di solito oppressivi, fondati sulla violenza, la menzogna e l’ingiustizia, a consolidarsi; nemmeno si tratta di un “Vangelo” che annunzia buone notizie che riguardano un re terreno, che per esigenze di propaganda deve far sapere che tutto va bene e che c’è pace e sicurezza. È invece il regno di Dio a essere annunciato: è quel regno che Israele aveva cercato invano, come pure talvolta aveva rifiutato, quando chiese a Samuele un re come quelli degli altri popoli. Israele ha capito la lezione e sa che, in maniera misteriosa ma reale è Dio stesso a regnare su di lui. Anzi, se talvolta Dio si nasconde, lo fa perché il suo popolo dimentica che un re terreno significa schiavitù, mentre il re divino è l’origine e l’apice della libertà.

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Insieme all’araldo, compaiono altri personaggi tipici del tempo, le sentinelle, che avvertono l’avvicinarsi della presenza di Colui che elargisce i doni annunziati reagendo con gioia espressa da alte grida. L’annuncio dell’araldo e la gioia incontenibile delle sentinelle prepara l’accorato appello del profeta, che chiede addirittura alle rovine di Gerusalemme di unirsi alla contentezza dominante: «Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme» (52,9).

Quelle stesse rovine che erano testimonianza della catastrofe nazionale delle generazioni che non avevano voluto obbedire a Dio, agli occhi del profeta rappresentano un elemento che consola, perché ormai non si sperava più nella libertà e nel ritorno nella terra dei padri per adorare il Signore. Il ritorno di Dio verso il suo popolo produce il vero cambiamento, perché finalmente sorge con la sua presenza una prospettiva di consolazione e di riscatto, che dona fiducia nel futuro: infatti, Dio dimostra di essere dalla parte d’Israele liberandolo dai suoi nemici.

Seconda lettura: Ebrei 1,1-6

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Alla storia della salvezza, che si è dipanata attraverso i Padri che hanno ascoltato dalla viva voce dei profeti la parola che Dio aveva da dire al proprio popolo, fa riferimento l’autore della Lettera agli Ebrei. Questa stessa storia della salvezza, però, ha raggiunto l’acme con la venuta del Figlio di Dio, il quale possiede un’autorità diversa da quella degli antichi profeti: egli, infatti, è stato costituito dal Padre «erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo».

Il Figlio, dunque, non è un semplice portavoce di Dio, ma è la misura della creazione, realizzata in vista di lui, come afferma pure il prologo giovanneo: «Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui». C’è anche il titolo di erede, con il quale si esprime l’intenso rapporto con il Padre: in quanto erede, Gesù riveste il ruolo di comprimario con il Padre, il quale lo ha fatto addirittura sedere alla sua destra nell’alto dei cieli.

Tale prerogativa del Figlio si è realizzata a partire dal mistero pasquale: «Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli». L’esaltazione, dunque, avviene dopo il difficile passaggio pasquale.

All’inizio abbiamo accennato al fatto del Natale come Pascha inchoata. In realtà, è tutto il Nuovo Testamento a convergere in quella direzione, che conferisce senso a ogni cosa. Quindi, anche lo stesso Natale acquista senso dalla centralità del mistero pasquale, perché ciò che viene solo adombrato nella nascita di Gesù, momento sublime dell’incarnazione, si palesa nella sua morte e risurrezione.

Vangelo: Giovanni 1,1-18 

Esegesi

Non è mai semplice commentare il prologo giovanneo. In esso, infatti condensa mirabilmente il progetto divino che viene incontro alle aspettative degli uomini, i quali hanno sempre cercato Dio, hanno sempre desiderato vederne il volto, ma ciò non è stato mai possibile, se non “metaforicamente” a Israele, che aveva il Tempio di Gerusalemme, il luogo in cui, ci dicono diversi Salmi, si andava a cercare il volto del Signore.

A tale attesa offre una risposta il v. 18 del prologo: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato». Questo Figlio unigenito, che si sobbarca un compito fondamentale in obbedienza al Padre, è quello stesso Verbo con la cui menzione si apre il Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo». L’inizio e la fine di questo suggestivissimo testo, quindi, si richiamano a vicenda per illuminare ciò che, con altra terminologia, viene definito “mistero”, ossia la volontà di Dio Padre di rivelare se stesso agli uomini attraverso il Figlio, il Verbo, nome che esprime la ricchezza della comunicazione di una realtà ineffabile. A voler essere precisi, il verbo greco che nel v. 18 si traduce di solito con “rivelare” significa letteralmente “essere condotto”: è il Figlio Gesù, il rivelatore, colui che gode della massima intimità con Dio Padre, a portarci verso quest’ultimo, affinché trovi pace la nostra ricerca del volto di Dio.

L’evangelista, quindi, non ci nasconde che con Gesù è intervenuta una novità del tutto eccezionale. Bisogna ammettere che, con ispirata abilità, egli ci riferisce nel prologo le tre cose fondamentali, di cui continuerà a parlare nel suo Vangelo: a) il primo sguardo va dal “principio” fino al momento in cui il Battista rende testimonianza a Cristo (vv. 1-8); b) il secondo fa concentrare la nostra attenzione sulla bellezza, purtroppo non accolta dall’umanità, del mistero dell’Incarnazione (vv. 9-14); c) infine, troviamo il passaggio dalla guida di Giovanni Battista, che è provvisoria, a quella definitiva del Figlio (vv. 15-18).

Il movimento del prologo sembra essere quello di una linea che scende verso il basso, perché dalle altezze divine e dall’eternità di quel mondo il Verbo giunge alla bassezza della nostra realtà e nella storia complessa e difficile dell’umanità. Questo movimento che porta ad affermare la rivelazione è come interrotto da quella che non può essere considerata un’intrusione, bensì una preparazione: ci riferiamo all’azione di quell’eccezionale araldo che è Giovanni il Battista, qualificato come “testimone”: «Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce» (Gv 1,6-8). Il Battista, dunque, rende noto che la “venuta” di Dio è ormai realizzata, al punto da fargli gridare: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me» (Gv 1,15). È Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che “era” anche prima di nascere tra gli uomini. Egli è colui che poi viene definito Verbo e, ancora, vita e luce; egli è colui che, pur essendo Dio come suo Padre, s’incarna e diventa essere umano per meglio servire l’umanità. La gioia di cui parla il Deuteroisaia nel brano della prima lettura è sostituita qui dallo splendore della luce e dall’abbondanza della vita. Eppure, realisticamente, si annuncia: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta […].Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1,4-5.10-11).

Il mistero del Natale ci invita a prendere coscienza di tutta questa grandezza che nemmeno i profeti avevano potuto immaginare. La presenza in mezzo a noi dell’erede di Dio Padre, Gesù Cristo, «Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente » (Eb 1,3), è un evento così sconvolgente quanto desiderato da rendere difficile il parlarne e da far sentire inadeguato chi vuole accoglierlo.

Commento a cura di don Jesús Manuel García