Esegesi e meditazione alle letture di domenica 25 Aprile 2021 – don Jesús GARCÍA Manuel

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Prima lettura: Atti 4,8-12

In quei giorni, Pietro, colmato di Spirito Santo, disse loro: «Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo, e cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato, sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato.  Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati».

Il testo è il terzo discorso cristologico «di» Pietro negli Atti (cf. 2,14-36; 3,12-26). Egli sta parlando proprio negli atri del Tempio (portico di Salomone) dopo aver ridato, «nel nome di Gesù il Nazareno» la salute a uno storpio. Nonostante la sua fine ignominiosa sulla croce, Gesù è risuscitato dai morti.

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Pietro e Giovanni si arrogavano un diritto, quello di parlare dentro il recinto sacro, che non avevano, facendo pure affermazioni false, almeno dubbie, sulla risurrezione di un condannato a morte. Per questo le autorità intervengono: «i sacerdoti, il capitano del tempio, i sadducei» (4,1). Questi ultimi fanno parte del partito dominante, ma intervengono soprattutto perché offesi nelle loro convinzioni dottrinali. Essi non ammettevano la risurrezione dei morti (cf. At 23,8; Mt 22,23). I due apostoli sono messi in prigione e il processo è rimandato al giorno dopo, debbono rispondere del loro potere taumaturgico. In genere i prodigi si operavano in nome di Dio, ma ci si poteva avvalere anche di forze avverse a lui. Gesù era stato accusato di compiere i miracoli in virtù di Beelzebub; potevano essere impostori anche i suoi discepoli.

La risposta di Pietro, forse meglio la prima apologetica cristiana, è apodittica; il loro potere viene da Gesù. Il «nome» è un ebraismo che sta per la persona. «Quell’uomo» (2,22) pertanto che essi avevano crocifisso è in grado di operare ancora; vuol dire che è tuttora vivo; è uscito dal regno dei morti; è passato nel mondo della vita, ossia di Dio. È infatti alla «sua destra» ed è «stato costituito Signore e Cristo», aveva affermato poco prima davanti al popolo (2,24,33,36).

Pietro e Giovanni sono, a detta delle stesse autorità, dei semplici «illetterati», non possono conoscere segrete arti magiche, perciò la guarigione del paralitico non può non essere attribuita che a una potenza superiore che parte sempre da Dio. Questa era quindi una riprova delle rivendicazioni di Gesù. La sua sconfitta era stata solo apparente. Egli opera ancora nella storia anche se solo tramite i suoi discepoli.

Il coraggio dei due illetterati che polemizzano con le stesse autorità giudaiche è al di sopra di ogni supposizione. Occorre che gli interlocutori cambino il loro giudizio su Gesù di Nazaret: invece che un malfattore debbono considerarlo il loro salvatore. Egli solo è la pietra angolare su cui grava la nuova comunità dei credenti. Se non si accetta questo rife-rimento e questa subordinazione non si arriva a Dio.

Seconda lettura: 1 Giovanni 3,1-2

Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.  Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.

L’autore della I lettera di Giovanni richiama un aspetto essenziale dell’identità cristiana, la filiazione da Dio. Egli non è un teologo e ancor meno un filosofo bensì una guida spirituale che deduce la «filiazione divina» del cristiano dalla comunione di vita e dall’identità di comportamento che riesce ad avere con il Signore.

La «conoscenza» di Dio, è detto al cap. 2,1, quindi il rapporto intimo con lui (senso biblico di conoscere), non dipende dalla comprensione della sua realtà ultima, ma dall’adeguazione dei propri comportamenti con i suoi. È l’agire come Dio agisce — cioè con quella stessa rettitudine, santità, perfezione — che rivela la somiglianza, la «connaturalità» con lui. «Da questo sappiamo di conoscerlo (di amarlo), se osserviamo i suoi comandamenti» (2,3). E aggiunge: «Da ciò conosciamo di essere in lui» (2,5). Concludendo ribadisce: «Chi dice di dimorare in lui (in Dio) deve comportarsi come lui (Gesù Cristo) si è comportato» (2,5-6).

In fondo vivere cristianamente è ripercorrere fino alla perfezione il cammino di Gesù il quale in tutto ha cercato di attuare il volere del Padre. Ma il cristiano deve rimanere in comunione con Dio e in unione con Cristo non solo intenzionalmente ma realmente, facendo propria la testimonianza di Cristo che è l’esplicitazione ultima della volontà di Dio. «Se voi conoscete che egli è giusto anche chi opera la giustizia è da lui (Dio) generato» (2,29).

È l’agire che rivela l’intima natura dell’uomo, in questo caso del cristiano. Se ci si comporta come Dio che sa compiere solo il bene a tutti anche a quelli che non lo meritano, si da non solo a vedere ma realmente si dimostra che si hanno i suoi stessi sentimenti, la sua stessa bontà e santità. «Figlio di Dio» è un appellativo onorifico ma anche oneroso, poiché comporta una scelta operativa che deve mantenersi sulla stessa linea di quella di Dio. La filiazione è un dono di Dio ma è anche risposta dell’uomo che ha saputo accogliere le mozioni dello Spirito e si è lasciato guidare da esse nella sua vita.

Il cristiano che sa fare il bene a chi ne ha bisogno, sino ad amare pure chi lo odia, è vero figlio di Dio perché compie ciò che Dio stesso realizza nel corso del tempo e della storia.

Vangelo: Giovanni 10,11-18 

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Esegesi

La pericope (Gv 10,11-18) illustra il comportamento di Gesù verso gli uomini. Esso si contrappone a quello delle guide giudaiche, ma l’evangelista pensa anche a quelle di certe comunità cristiane. Il confronto che compare altre volte nel libro (cf. 2,13ss; 8,31 ss) inizia al termine del capitolo IX.

Gesù sta parlando con un gruppo di farisei definiti ciechi non per nascita, ma volontari, perché, pur vedendo le opere che il Cristo compie, rifiutano di comprenderne la portata, come dimostra la reazione davanti al miracolo dell’uomo a cui è stata ridonata la vista (9,14). Non solo non vogliono vedere ma pretendono di imporre come verità la loro menzogna. Ritorna il detto: gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce (3,19).

I dirigenti d’Israele sono guide cieche, ma più ancora sono «briganti e ladri» (10,1). Essi si sono introdotti nell’«atrio», (aulè), il recinto sacro, il tempio, non attraverso la porta, legittimamente quindi, ma fraudolentemente, peggio,  rubando e uccidendo le persone giuste e innocenti che vi si frapponevano. I ladri sono chiamati tali perché saltano i muri; il vero pastore passa attraverso la porta: è noto al portiere e alle pecore, può chiamarle e condurle al pascolo.

Affinché  non ci siano equivoci, l’evangelista scopre l’identità del pastore: «Io sono», proclama solennemente Gesù; ma non uno qualunque, bensì «il pastore per eccellenza» (ho kalòs). L’espressione dice di più di «buon pastore». Egli solo realizza l’oracolo di Ez 34,23 («Susciterò per loro un pastore che li pascerà, David mio servo; egli li condurrà al pascolo; sarà il loro pastore»). Il re-pastore che Israele attende è, nonostante le apparenze e la sua provenienza da un oscuro villaggio della Galilea (Gv 1,42), Gesù il nazareno.

Nella storia d’Israele si sono susseguiti molti pastori, forse anche buoni, ma nessuno merita tale appellativo quanto Gesù, perché nessuno ha svolto compiti pari ai suoi e soprattutto con la dedizione eguale alla sua. La specificità del vero pastore è vivere e operare per il bene del gregge, non per la propria esaltazione o per interesse. In realtà il vero pastore è a servizio delle pecore e non permette che queste siano a servizio della sua persona (cf. Ez 34,10). Il suo contrario è il mandriano che lavora per la mercede, senza affezione e nemmeno tanta attenzione alla sicurezza delle pecore, che pure ha in custodia.

Quelli che prima erano «guide cieche», «briganti e ladri», sono ora designati come «mercenari». Essi che uccidevano e distruggevano ora lasciano sbranare le pecore dai «lupi» che sono in fondo i loro alleati poiché compiono le loro stesse operazioni, disperdere le pecore invece che proteggerle.

Il ragionamento giovanneo avanza, com’è risaputo, per «circoli concentrici». L’evangelista ha detto il suo pensiero fin dall’inizio del capitolo, ne ha enunciato il tema al v. 11 ; ma vi torna sopra ripetutamente aggiungendovi ulteriori precisazioni. Gesù è il pastore vero, ideale, perché assolve il suo mandato non tanto per dovere, quanto con dedizione e amore. Egli infatti ama le pecore che gli sono state affidate. Il verbo «conoscere» nel linguaggio biblico non è semplice percezione mentale, ma relazione affettiva e fattiva. È sinonimo di volontà di bene; è amare. «Nessuno conosce il padre se non il figlio», afferma Gesù nel comma giovanneo di Mt 11,27; nessuno cioè lo ama quanto lui ed è da lui riamato. Allo stesso modo Gesù dedica le sue energie, e alla fine la sua stessa vita, per le persone alle quali è stato inviato. Il rapporto che lo lega a Dio è lo stesso che lo porta agli uomini, per questo si tratta di un riferimento autentico, sincero, vero. «Quel giorno conoscerete, cioè sperimenterete, che io sono nel padre mio; voi in me ed io in voi», affermerà più avanti egli stesso (Gv 14,20). Con Dio non si può fingere quindi non ci può essere inganno nell’amore di Gesù per l’uomo. Esso è senza limiti, senza restrizioni, totale, poiché non si arresta neanche davanti al pericolo della vita. Gesù infatti ha sostenuto la causa dei suoi «fratelli» (cf. Gv 20,17) contro il potere delle guide cieche, affrontando ladri e banditi con il rischio di rimanere vittima delle loro aggressioni.

Non solo. Il pericolo né l’ha fatto recedere dai suoi compiti, né ha ristretto l’ambito delle sue operazioni. Egli più che fermarsi alle pecore perdute della casa d’Israele (Mt 10,6), rivolge i suoi messaggi e le sue attenzioni a tutti coloro che incontra nel suo cammino, dentro e fuori i confini della Palestina. La sua luce si irradia su «ogni uomo» (Gv 1,6), non solo sugli israeliti. La comunità cristiana è senza frontiere, universale. I privilegi d’Israele sono caduti una volta per sempre. Il velo del tempio, direbbe Matteo, è stato strappato da capo a fondo e non può essere più ricucito (27,51).

I seguaci di Gesù, i nuovi credenti, provengono dalle fila del giudaismo, dall’interno del recinto sacro (atrio), ma anche dalle nazioni, poiché pure ad esse appartiene la salvezza. L’unità di tutti i credenti non sarà più fondata sulla dipendenza a istituti o istituzioni sacre, ma dalla comunione che gli uomini avranno tra di loro e con Cristo. La «voce» di Gesù

che tutti egualmente ascolteranno si identifica innanzitutto con le sue proposte, ma anche con il calore con cui le comunica, l’amore con cui le accompagna. Coloro che l’ascoltano ne rimarranno per questo conquistati e coinvolti, diventando suoi discepoli.   

L’ultima ripresa del discorso, il «circolo» conclusivo, allarga ancora una volta il tema iniziale. Gesù è stato investito dallo Spirito di Dio per una missione tra gli uomini (Gv 1,32), in concreto ha avvertito in sé i riflessi che l’amore di Dio ha per le sue creature predilette e gli ha dato piena accoglienza, non tanto per la sua realizzazione o glorificazione, quanto per il loro bene. Il dare se stesso è perdere la propria vita, ma non è perdersi, poiché la vita data per amore diventa un guadagno (cf. Fil 1,21; 3,7), un ricupero centuplicato di quanto si è dato (Mt 19,29).

L’amore è libera donazione. Per questo ciò che Gesù ha compiuto è frutto di una sua personale decisione; nessuno l’ha obbligato, tanto meno costretto; ha fatto solo quello che lo Spirito gli ha suggerito e quello che lui ha «liberamente» voluto. L’amore di Dio è stato liberamente accolto e liberamente sono state accettate le sue richieste. Per questo l’opera di

Gesù è stata una risposta di amore.

Meditazione

La comunità ecclesiale dedica questa quarta domenica di Pasqua, chiamata del Buon Pastore, alla preghiera e alla riflessione per le vocazioni sacerdotali e religiose. Al centro della liturgia della Parola c’è l’appassionato, discorso ove Gesù, in piena polemica con la classe dirigente d’Israele, si presenta come il «buon pastore», ossia come colui che raccoglie e guida le pecore sino ad offrire la sua stessa vita. E aggiunge: «chi non offre la vita per le pecore non è pastore bensì mercenario». In effetti, l’opposizione tra il pastore e il mercenario nasce proprio da questa motivazione: il pastore svolge la sua opera per amore, rinunciando al proprio interesse anche a costo della vita, mentre il mercenario lo fa per interesse personale e per denaro, ed è quindi logico che nel momento del pericolo abban-doni le pecore al loro destino. L’evangelista indica il pericolo con l’immagine del lupo che «rapisce e disperde» le pecore. È una sferzata durissima ai farisei, accusati di «pascere se stessi… e non il gregge» (Ez 34,2), mentre egli è venuto per «raccogliere in unità i figli dispersi» (Gv 11,52).

A guardare bene, l’opera del lupo è congeniale all’atteggiamento del mercenario. Ad ambedue, infatti, interessa solo il proprio tornaconto, la propria soddisfazione, il proprio guadagno e non quello delle pecore; si realizza così una alleanza di fatto tra l’interesse per sé e il disinteresse per gli altri. Ne viene fuori una sorta di diabolica congiura degli indifferenti e degli egoisti contro i più deboli e gli indifesi. Se pensiamo all’enorme numero di persone che hanno smarrito il senso della vita e vagano senza meta alcuna, se guardiamo i milioni di profughi che abbandonano le loro terre e i loro affetti in cerca di una vita migliore senza che nessuno se ne preoccupi, se osserviamo lo sbandamento dei giovani in cerca della felicità senza che ci sia chi gliela indichi, dobbiamo purtroppo constatare la triste e crudele alleanza tra i lupi e i mercenari, tra gli indifferenti e coloro che cercano solo di trar-re vantaggi personali da tali sbandamenti. Scrive il profeta Ezechiele: «le mie pecore si disperdono su tutto il territorio del paese e nessuno va in cerca di loro e se ne cura» (Ez 34,6).

Viene il Signore Gesù e con autorità grande afferma: «Io sono il buon pastore, o dò la vita per le mie pecore». Non solo lo ha detto. Lo ha anche mostrato con i fatti, particolarmente nei giorni della Settimana Santa, quando ha amato i suoi fino alla fine, fino all’effusio­ne del sangue. Finalmente è arrivato in mezzo agli uomini chi spezza la triste e amara alleanza tra il lupo e il mercenario, tra l’interesse per sé e il disinteresse per gli altri, e finalmente chi ha bisogno di conforto e di aiuto sa dove rivolgersi, sa dove bussare, sa dove muovere i suoi occhi e il suo cuore. Gesù stesso lo disse: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12, 32). Tutto il Vangelo, in fondo, non parla d’altro che di questo legame tra folle disperate, abbandonate, sfinite, senza pastore e Gesù che si commuove per loro. «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?» (Lc 15,4), dice il Signore. Si attribuisce a San Carlo Borromeo la frase: «per salvare un’anima, anche una sola, andrei sino all’inferno». Questo è l’animo del pastore: andare sino all’inferno, sino al punto più profondo, sino al limite più basso, per salvare una persona. Si può comprendere anche in questa prospettiva la «discesa agli inferi» di Gesù nel Sabato Santo. Neppure da morto, potremmo dire, Gesù si è fermato a pensare a se stesso; ma come buon pastore è andato a cercare chi era perduto, chi era ed è dimenticato, chi era ed è negli inferni di questo mondo che il male e gli uomini hanno creato.

Il Vangelo sembra dire che o si è pastori in questo modo o altri­menti non si può che essere mercenari. È vero, solo Gesù è «buon pastore»: o si somiglia a lui o si tradisce la sua stessa missione. Sappiamo bene di essere inadeguati, ed è il suo Spirito effuso nei nostri cuori che ci trasforma perché «abbiamo in noi gli stessi senti­menti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2, 5). L’odierna pagina evange­lica — come questa domenica suggerisce — si applica anzitutto a coloro che hanno responsabilità «pastorali» nella Chiesa, in particolare ai vescovi e ai sacerdoti. Ed è sommamente opportuno; è anzi doveroso pregare, e non solo oggi, perché i «pastori» somiglino sempre più a Gesù, vero ed unico «buon pastore». Ed è anche urgente intensificare la nostra preghiera perché il Signore doni alla sua Chiesa giovani che ascoltino l’invito ad essere «pastori» secondo il suo cuore, secondo la sua stessa passione d’amore.

Ogni comunità cristiana è chiamata a guardare l’abbondanza della «messe» e la scarsità degli «operai». Fa parte della sua preoccupazione più intensa. C’è tuttavia una responsabilità «pastorale» che appartiene a tutti i credenti. Ogni discepolo, infatti, è nello stesso tempo membro del gregge del Signore ma, a suo modo, anche «pastore», ossia respon­sabile dei fratelli, delle sorelle e del prossimo. In tante altre pagine della Scrittura emerge questa responsabilità «pastorale» di ogni creden­te. Alle origini dell’umanità Dio chiese conto a Caino di suo fratello, e non fu certo esemplare la risposta: «Son forse io custode di mio fratel­lo?». Sì, Caino era il custode (in questo senso si può dire che era il «pastore») di Abele. Così ogni credente deve esserlo per il suo prossi­mo. Salga a Dio la preghiera perché nella comunità cristiana ci sia chi ascolti la chiamata del Signore a servire la Chiesa nel ministero ordina­to. È da questo terreno pieno di «pastoralità» che possono nascere «pastori» per l’oggi. Una comunità appassionata genera pastori. Il buon pastore, infatti, non è un eroe; è uno che ama; e l’amore porta là dove neppure sogneremmo di arrivare.

L’amore sostiene il «buon pastore» e lo sottrae dalla logica del mer­cato e dalle trame fredde dell’interesse individuale. Questo amore ci fa uscire dalle nostre chiusure, dalle nostre abitudini pigre, dai nostri recinti, e ci inserisce nelle preoccupazioni stesse del Signore: «Ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore». L’amore di Dio intenerisce il cuore: ci fa commuovere su coloro che vagano nella nostra città in cerca di un approdo, su quelli che non sanno ove trovare conforto, sui milioni e milioni di disperati che coprono la faccia della terra, su quell’uomo o quella donna vicina o lontana che aspetta consolazione e non la trova. Scrive Matteo: «Gesù vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore che non hanno pastore». E aggiunge subito l’evangelista: «Allora disse ai suoi discepoli: pregate dunque il signore della messe perché mandi operai nella sua messe» (Mt 9,36-37). Tutta la comunità cristiana è unita al Signore Gesù che si commuove ancora sulle folle di questo mondo. E con lui prega perché non manchino gli operai per la vigna del Signore. Ma nello stesso tempo, ogni credente, davanti a Dio e davanti «ai campi che già biondeggiano per la mietitura» (Gv 4,35) deve dire con il profeta: «Ecco, Signore, manda me!» (Is 6,8).

Commento a cura di don Jesús Manuel García