Giosuè 24,1-2.15-17.18
In quei giorni, Giosuè radunò tutte le tribù d’Israele a Sichem e convocò gli anziani d’Israele, i capi, i giudici e gli scribi, ed essi si presentarono davanti a Dio.
Giosuè disse a tutto il popolo: «Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrèi, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore». Il popolo rispose: «Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché è il Signore, nostro Dio, che ha fatto salire noi e i padri nostri dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; egli ha compiuto quei grandi segni dinanzi ai nostri occhi e ci ha custodito per tutto il cammino che abbiamo percorso e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati. Perciò anche noi serviremo il Signore, perché egli è il nostro Dio».
- Gs 24 costituisce la conclusione del libro di Giosuè e dell’insieme che va da Genesi a Giosuè (Esatenio). Si delinea così un grande schema: promessa della terra e realizzazione della promessa (Giosuè). Questa conclusione solenne è anche il rinnovamento dell’Alleanza del Sinai (Es 19-24) alleanza consolidata di nuovo in Gs 24.
La prospettiva del capitolo 24 è duplice: da una parte si volge al passato (da Abramo a Giosuè), dall’altra al futuro (da Giosuè sino alla perdita della Terra e prigionia in Babilonia (587-538 a.C.). L’autore non presenta questa prospettiva della storia del popolo nella sua terra in termini espliciti, ma si può dire che è questo l’orizzonte generale del cap. 24.
Vi si scorge una teologia della salvezza del popolo di Dio e del suo opposto. Questo popolo è libero di scegliere tra il credere o no (vv. 15-21); esso sceglie liberamente la fede in Dio. Ne deriva l’obbligo ad essere fedele a Dio: è questa l’alleanza da parte degli uomini. Dalla fedeltà a Dio dipende il «destino» di Israele a partire da questo momento.
- Pubblicità -
1. ANNOTAZIONI ESEGETICHE
— Tutte le tribù d’Israele (vv. 1-2). Tutto il popolo è radunato nei suoi rappresentanti. Giosuè gli ricorda la sua vocazione iniziale: Dio gli si è rivelato e lo ha eletto, guidandolo attraverso la storia. — Anche noi serviremo il Signore (vv. 15-17,18b). In questi versetti c’è la rinnovata confessione di fede in Dio da parte del popolo. Questo popolo riconosce nuovamente la sua vocazione. E così esso ha scelto di nuovo il suo Dio. L’Alleanza implica reciproca fedeltà: fedeltà di Dio al suo popolo, fedeltà del popolo al suo Dio.
Efesini 5,21-32
Fratelli, nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri: le mogli lo siano ai loro mariti, come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, così come Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo. E come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli lo siano ai loro mariti in tutto. E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo: chi ama la propria moglie, ama se stesso. Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!
- Pubblicità -
Questa pericope fa parte della sezione parenetica a conclusione della epistola dell’Apostolo agli Efesini, e contiene un modello per le famiglie della Chiesa primitiva. Nel tratto della nostra lettura sono presentate le relazioni tra i coniugi alla luce della fede.
1. ANNOTAZIONI ESEGETICHE
— Siate sottomessi gli uni agli altri (v. 21), l’obbedienza reciproca è il grande principio: non dominare gli uni sugli altri, ma sottomettersi gli uni agli altri; e a ciò che bisogna tendere. In questo principio si riflette quello evangelico proclamato da Gesù: «chi vuol essere il più
grande tra voi, sia vostro servo».
— le mogli, il marito, … come la chiesa (vv. 22-24). Alla luce del principio proclamato nel v. 21, risulta evidente che la sottomissione delle mogli ai mariti non è espressione di una società patriarcale o addirittura di una società maschilista, bensì di un ordine di vita spiri-tuale, nel quale nessuno tende a comandare sull’altro.
— amate le vostre mogli (vv. 25-28). Questi versetti, rivolti ai mariti, vogliono mettere in rilievo i rapporti tra il Cristo e la chiesa. È chiaro che solo in virtù della fede possiamo considerare i rapporti tra i coniugi come immagine delle relazioni tra il Cristo e la Chiesa. L’accento è posto sull’aspetto spirituale, invisibile, oggetto di fede, del matrimonio e dell’amore coniugale.
— amare, nutrire la propria carne (vv. 29-32). Un altro paragone ci fa meglio capire quanto è stato detto, il rapporto dell’uomo con la propria carne si fonda sulla cura amorevole che ognuno ha per il proprio corpo. È una sollecitudine naturale, necessaria, piena di amore; così dev’essere la cura del marito per la propria moglie;
— grande mistero (v. 32). Nel matrimonio si riflette il rapporto del Cristo con la Chiesa. Solo in questa relazione i coniugi possono riconoscere e comprendere i loro rapporti nella loro completa verità e nel loro vero senso.
✝ Vangelo: Giovanni 6,60-69
In quel tempo, molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre». Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».
Esegesi
Il segno della moltiplicazione dei pani e il discorso sul pane di vita ci hanno accompagnati per queste domeniche del tempo ordinario (a partire dalla 17a). Col Vangelo di oggi siamo all’epilogo: di fronte al linguaggio realistico e duro da accettarsi, avviene una divisione degli Spiriti propri in mezzo ai suoi discepoli: da una parte molti si rifiutano di credere, mormorano contro Gesù e si tirano indietro, non seguendolo più; dall’altra rimangono i Dodici che lo seguono e che per bocca di Simon Pietro esprimono la loro fede in Gesù, Santo di Dio.
1. ANNOTAZIONI ESEGETICHE E TEOLOGICHE
Nella conclusione o epilogo del discorso di Gesù, si presentano due poli, che si caratterizzano come ripulsa o adesione alla parola e alla persona di Gesù. Presentiamo per ordine queste realtà in tre punti:
- La ripulsa viene presentata in alcune tappe progressive:
— essa nasce tra molti dei suoi discepoli come constatazione che il linguaggio di Gesù è duro, difficile (v. 60). Questo vuol dire che per un tratto si può seguire Gesù e vivere con lui, a livello di simpatia, ma in fondo intuendo molte riserve;
— la constatazione si traduce in mormorazione (v. 61). La mormorazione non solo nasce da mancanza di fiducia, ma è propriamente sfida e provocazione nei confronti di Dio: vedi le mormorazioni di Israele durante il cammino del deserto (Es 14,11; 16,2ss);
— Scandalo (v. 61). «Scandalo» indica una pietra che provoca caduta o inciampo, impedendo a chi cammina di raggiungere la propria meta. In campo religioso «scandalizzarsi» è allontanarsi dal cammino della salvezza. Nelle parole dure e impegnative di Gesù, e nel loro rifiuto, quei discepoli trovano l’occasione negativa che li distoglie dalla salvezza stessa;
— «carne» (v. 63): è il pensare e agire secondo i criteri della logica umana, l’attenersi ai dettami e agli schemi del pensiero umano, inficiato dal peccato e dai suoi stessi limiti. Gesù sottolinea che «la carne non giova a nulla», cioè da sola non è capace di condurre l’uomo a vivere in Dio, si rivela sterile e inutile;
— «non credere» (v. 64). Credere vuol dire impegnarsi per tutta la vita e con tutte le forze, non perché si ha fiducia in sé, ma si è sicuri di Gesù;
— «tornarono indietro e non andavano più con lui» (v. 65). Concretamente non credere implica anche una decisione negativa, un voltafaccia, una rottura della comunione con Gesù. Non andare più con lui vuol dire non seguire la sua via, non amarlo, non imitarlo più;
— tradimento (vv. 64-70). Anche se inteso solo di Giuda, è questo l’approdo ultimo della ripulsa. Non credere a Gesù e tradirlo sono tappe di un medesimo cammino. E questo non avviene tra coloro che gli sono dichiaratamente ostili, ma tra gli stessi discepoli e tra i Dodici rimasti «fedeli» (v. 70).
b) l’adesione a Gesù ha anch’essa diversi aspetti che vanno rilevati:
— frutto di grazia, dono concesso dal Padre: «nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio» (v. 65). La fede non si esaurisce in un movimento volontaristico, un’opzione dovuta solo all’uomo. Alla sua origine c’è l’iniziativa di Dio Padre, che la «attua» (6,43);
— frutto di libertà: «Volete andarvene anche voi?» (v. 67). Liberi gli altri di andarsene via, liberi i Dodici di restare con Gesù. Il dono della fede non limita la libertà dell’uomo, ma la suppone e ne è un’espansione;
— confessione comunitaria. «Signore, da chi andremo?» (v. 68). Anche se è Pietro solo a parlare, egli usa il plurale, esprimendo la fede dei Dodici che restano insieme a Gesù. Dopo l’allontanamento dei «molti», il gruppo dei discepoli non si polverizza, ma forma una comunità piccola ma salda e unanime. La confessione ha due parti:
1. la prima esprime la fede nelle parole di Gesù (il titolo “Signore” implica già la fede nella sua divinità, perché Kýrios equivale a Dio), parole di vita eterna, sia perché danno questa vita divina (eterna) sia perché vengono da Dio che è vita eterna;
2. la seconda esprime la fede nella persona di Gesù, accolto e sperimentato («conosciuto») come il Santo di Dio, ossia come Messia, inviato ed eletto di Dio. La confessione di Pietro a Cesarea di Filippi, in Mt 16,16 («tu sei il Cristo — Messia —, il Figlio di Dio vivente») spiega e completa quella di oggi.
c) la Parola e la persona di Cristo si trova al centro della ripulsa o dell’adesione di fede. Non è solo una richiesta di fiducia, non è adesione affettiva ad un Maestro a dividere gli spiriti, ma sono aspetti peculiarmente cristologici e soteriologici. In particolare:
— vedere il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima (v. 62). Il discorso sul pane di vita è relativo all’Eucaristia, che rende presente e vivo il mistero della morte di Gesù, elevato sulla Croce per far ritorno presso il Padre: è questo il punto centrale della predicazione e della fede cristiana. Chiudere il cuore al mistero eucaristico implica il rifiuto del mistero pasquale; — «le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita» (v. 63). Sono Spirito e soltanto lo Spirito Santo può farci capire le parole di Gesù sul pane di vita, sono vita, nel senso che ci rivelano un cibo che è fonte di vita eterna o vita divina.
Meditazione
«Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?» (v. 60). «Signore, da chi andremo? tu hai parole di vita eterna» (v. b8). Il lungo discorso nella sinagoga di Cafarnao si conclude con questa reazione contrapposta di molti discepoli che abbandonano Gesù, e di Pietro che a nome dei Dodici decide di rimanere. Le parole di Gesù hanno avuto un uditorio molto ampio, ma ora la reazione che interessa all’evangelista è quella dei discepoli, che si dividono in due gruppi: i più abbandonano Gesù, solo i Dodici rimangono. L’intero capitolo ha un procedimento concentrico a cerchi sempre più stretti: all’inizio Gesù si rivolge alla folla; all’interno di questa folla emergono in un secondo momento i Giudei, che mormorano; quindi l’attenzione si concentra sui discepoli e infine, all’interno del gruppo dei disce-poli sui Dodici, e in particolare su due di loro: Simon Pietro prima e poi Giuda, figlio di Simone Iscariota. La narrazione ha il movimento di una grande zoomata che da un iniziale grandangolo molto ampio, su tutta la folla, stringe sempre più l’inquadratura fino a giungere a un primo piano sui volti di Pietro e di Giuda. Siamo così costretti a personalizzare il nostro rapporto con il Signore Gesù. Se all’inizio possiamo confonderci nell’anonimato della folla, alla fine siamo costretti a venire allo scoperto e a prendere una decisione, come accade nella prima lettura per le tribù di Israele che a Sichem devono decidere chi intendono seguire, se il Signore o altri dèi.
Siamo così sollecitati a confrontarci con queste due reazioni opposte: quella dei molti discepoli che mormorano «questa parola (in greco logos) è dura, chi può ascoltarla?». Oppure quella di Pietro che esclama «Tu hai parole di vita eterna». È una parola dura o una parola di vita? Entrambi i gruppi hanno ascoltato lo stesso discorso, eppure diametralmente opposta risulta la loro reazione. La parola è la stessa, ma diverso è l’atteggiamento con il quale viene accolta. Con quali orecchi del cuore bisogna ascoltare la parola di Gesù per comprenderla? È una buona domanda che il testo pone, alla quale siamo sollecitati a rispondere.
Nella mormorazione di chi rimane incapace di ascoltare la parola di Gesù emergono due difficoltà: la prima, più oggettiva, riguarda il modo di parlare di Gesù, il suo contenuto; la seconda, più soggettiva, concerne i discepoli e la loro incapacità, addirittura impossibilità ad accogliere e capire. Si tratta di due ostacoli inseparabili. Il linguaggio di Gesù è definito duro, skleros in greco, termine solitamente usato nei Vangeli per qualificare il cuore degli uomini. Duro è un cuore che non sa ascoltare. La parola di Gesù è dura in quanto rivela la durezza di cuore dei suoi ascoltatori.
L’intero discorso è duro; non solo questo o quell’aspetto. Pregnante è la terminologia che l’evangelista adotta, facendo dire ai discepoli più precisamente: è duro questo logos. Logos significa parola, evento, discorso, ma nel contesto di Giovanni il termine non può non far pensare al mistero stesso del Logos di Dio con cui si apre il Prologo. Il logos duro è Gesù stesso, in quanto parola di Dio fatta carne. Lo scandalo è costituito non da altro che dal mistero dell’incarnazione, come i brani letti nelle precedenti domeniche hanno messo in rilievo.
C’è poi una seconda difficoltà, più soggettiva, costituita dalla durezza di un cuore che non ascolta. Costoro infatti protestano: «questa parola è dura; chi può ascoltarla?» (v. 60). A questa difficoltà Gesù risponde più avanti: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre» (v. 65). Il verbo potere risuona in entrambi i versetti. Chi può ascoltare? nessuno può se non gli è concesso dal Padre. Il senso è allora: chi può… nessuno può… solo il Padre può. Il cuore duro rivela l’atteggiamento interiore di chi si chiude nella propria autosufficienza, confidando solo nelle proprie possibilità e certezze, anziché aprirsi all’azione di Dio, a quella che Gesù ha già definito l’opera di Dio per eccellenza, o in altri termini a quella possibilità che riposa in Dio e che solo lui può donare.
Pietro si lascia attrarre dal Padre; può perciò confessare la sua fede, della quale possiamo cogliere alcuni tratti caratteristici. Innanzitutto, Pietro sa cosa cercare, o meglio sa che il ‘che cosa’ è un ‘chi’. È la persona di Gesù, non altro. La parola di Gesù ha purificato il suo desiderio. Anch’egli, al pari della folla, si è saziato di pane e ha visto la grandezza del segno, ma adesso non cerca né il pane né il segno: cerca Gesù.
In secondo luogo, ha capito come cercarlo, con quale stile e atteggiamento interiore. Un piccolo pronome, decisivo, affiora infatti sulle sue labbra: «Signore, tu hai parole di vita eterna» (v. 68). Pietro è capace di dare del tu al Signore, entrando in un dialogo personale con lui. Questo ‘tu’ va sottolineato, perché risuona anche nel testo originario, laddove il greco di solito omette i pronomi personali. Solo Pietro lo usa. I Giudei non entrano mai in dialogo con Gesù. Al v. 41 si narra che «mormoravano contro di lui»; al v. 52 che «si misero a discutere aspramente fra loro»; il v. 60 lascia intendere che anche coloro che se ne vanno mormorano di Gesù, ma senza dialogare con lui.
Pietro invece si rivolge personalmente a Gesù con il tu della relazione personale. E in questa relazione che può capire chi è Gesù e accogliere la sua parola di vita. Mangiare il suo pane significa infatti dimorare in lui come egli dimora in noi (cfr. v. 56). Solo nell’incontro personale Gesù rivela se stesso.
Pietro domanda «da chi andremo?»: probabilmente egli stesso non ha ancora compreso tutta la profondità della parola di Gesù, di quel logos che è Gesù stesso, perché la verità delle sue parole e il mistero della sua identità potranno essere compresi soltanto dopo la Pasqua, nella luce della Croce. Ha capito però l’essenziale: ciò che importa è rimanere con Gesù, legato alla sua persona, dire di sì a lui, perché solamente lui e nessun altro può essere il Signore della nostra vita. In questo legame personale la sua parola, anche se ancora non del tutto compresa, anziché scandalo genera stupore. Quello stupore che affiora nella domanda stessa di Pietro – Signore, da chi andremo? – ; è lo stupore di chi non ha ancora compreso pienamente, eppure si lascia ugualmente affascinare dalla sorprendente bellezza del mistero di Dio, che ci attrae con la sua inaudita novità.
Gesù aveva affermato subito prima «le parole che vi ho detto sono spirito e sono vita» (v. 63). Ora Pietro risponde: «Tu hai parole di vita eterna». Ma il suo cammino di fede non si arresta qui; al v. 69 compie un passo in avanti e dice «tu sei». Questo è un passaggio decisivo, da vivere in ogni itinerario di fede: dal tu hai al tu sei. «Tu hai il pane; tu sei il pane. Tu hai parole di vita; tu sei la Parola, il Logos della vita». Per tre volte nel suo discorso Gesù aveva affermato con forza «Io sono», assumendo su di sé il nome stesso di Dio (vv. 35.48. 51). A Gesù che proclama «Io sono» Pietro risponde «Tu sei».
Questa è la fede personale di Pietro, che si lascia attrarre da Dio in questo spazio dell’incontro personale con Gesù; ma, occorre subito aggiungere, in questo spazio Pietro non entra da solo. Il suo tu, infatti, si allarga subito a un noi: «noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (v. 69). Pietro sa che nella sua fede risuona la fede di altri, e nello stesso tempo sa che la sua stessa fede, pur così personale, ha bisogno di nutrirsi della fede più ampia di una comunità. In questo ‘noi’ di una fede comune nasce la Chiesa, come accoglienza piena del dono che Gesù fa di se stesso, della sua carne e del suo sangue. Accogliendo il corpo di Cristo dato per noi, gli uomini diventano un noi, diventano Chiesa, diventano il corpo di Cristo donato per la vita del mondo.
Commento a cura di don Jesús Manuel García