Esegesi e meditazione alle letture di domenica 24 Luglio 2022 – don Jesús GARCÍA Manuel

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Prima lettura: Genesi 18,20-32

In quei giorni, disse il Signore: «Il grido di Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!». Quegli uomini partirono di là e andarono verso Sòdoma, mentre Abramo stava ancora alla presenza del Signore. Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?». Rispose il Signore: «Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo». Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere: forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?». Rispose: «Non la distruggerò, se ve ne troverò quarantacinque». Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno quaranta». Rispose: «Non lo farò, per riguardo a quei quaranta». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta». Rispose: «Non lo farò, se ve ne troverò trenta». Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola: forse là se ne troveranno dieci». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci».

Abramo fu chiamato «amico di Dio» (cf. Gc 2,23). In questa veste egli agisce nella lettura che stiamo presentando. Nei vv. 16-19 del nostro capitolo si trova un monologo divino in cui il Signore si domanda se gli sia lecito tenere nascosto ad Abramo ciò che egli sta per fare nei confronti di Sodoma e Gomorra. Dio sceglie così Abramo come il confidente con il quale condividere le decisioni più gravi e al quale confidare le grandi ansie del suo cuore. Noteremo infatti che non si tratta semplicemente di comunicare ad Abramo la sentenza definitiva contro le due città, ma di dichiarare aperto un processo a loro carico.

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Al v. 20 abbiamo in italiano la parola «grido» essa nel testo originale suona come un termine tecnico del linguaggio giuridico. A Dio è arrivata una denuncia gravissima. Egli è l’ultimo appello per dare una risposta al caso, ma per farlo è necessario che apra un’inchiesta, un’indagine che è disposto a svolgere personalmente, anche se di fatto nel capitolo 19 saranno i due angeli a visitare Sodoma, come anticipa il v. 22 omesso dalla versione liturgica della lettura. Nel v. 21 si ha l’impressione di cogliere sulle labbra di Dio incredulità e indignazione. Sembra che da una parte Dio stenti a credere alla denuncia che gli è pervenuta, e dall’altra sia irritato a causa della gravità di quanto gli è stato denunciato. Il capitolo 19 presenterà un esempio concreto della malvagità di Sodoma (19,1-11). Il fatto non è da leggere esclusivamente nella linea del peccato di omosessualità, ancor più importante è la mancanza di ospitalità. Sodoma è l’antitesi di Abramo; mentre questi riceve Dio e lo accoglie generosamente, Sodoma riserva ai suoi inviati tutt’altro che accoglienza.

Nei vv. 23-35 abbiamo la trattativa di Abramo con Dio, un colloquio nel quale sembra riecheggiare lo stile tipicamente orientale della contrattazione. Accanto a questa intercessione del patriarca potremmo collocare quella di Mosè (Es 32,11-13; Dt 9,26,29), e quella dei profeti (Am 7,4-6). Siamo al primo anello di una catena che attraverserà la storia d’Israele. Si potrebbero ricordare qui le parole di Geremia: «Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa discutere con te; ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia (Ger 12, 1a)».

I sentimenti di Abramo nell’incominciare il dialogo con Dio sono esattamente quelli delle prime parole di Geremia, Abramo ha un senso profondo del rispetto dovuto a Dio; prende coraggio man mano che trova Dio disposto all’ascolto. Dal punto di vista teologico questo è già un dato molto importante: Dio è disposto al dialogo, ad ascoltare amichevolmente gli interventi degli uomini. Non si tratta di un Dio impenetrabile e arbitrario, ma disponibile e dialogante.

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Geremia poi dice che vorrebbe rivolgere a Dio una domanda circa la giustizia. Chiaramente il contesto in cui parla il profeta è completamente diverso dal nostro, ma l’interrogativo è il medesimo. Tutto il senso della trattativa trova qui il suo riassunto. Cosa decide il destino di una collettività: il peccato di molti o la giustizia di pochi? Questa è la domanda fondamentale. Essa prende ancora più rilievo se viene collocata sullo sfondo della società in cui venne formulata, una società in cui la responsabilità individuale non era ancora in primo piano. Il testo appartiene alla tradizione jahwista. A quel tempo il senso di appartenenza alla famiglia, alla tribù, alla città, in una parola sola alla comunità, era talmente forte da ritenere che tutti fossero solidali nel bene e nel male. Non deve essere dimenticato questo contesto per comprendere meglio il problema teologico fondamentale della lettura: con quale criterio Dio giudica? La risposta finale è che Dio nel suo giudizio è più disposto a tenere in conto il bene di pochi che il male di molti. Non bisogna perciò preoccuparsi molto di come concretamente le cose siano andate a finire per Sodoma, se cioè là non si trovassero in essa neppure 10 giusti. Sodoma non diventa un caso in se stessa, ma l’occasione per esporre l’asserto teologico fondamentale in questo brano: il bene compiuto da pochi può essere più forte del male compiuto da molti e determinare il giudizio divino in senso positivo. Questa linea teologica troverà sviluppi mirabili nel pensiero biblico. Basti pensare a Is 52,13-53,12, in cui il servo sofferente di Dio diventa lui stesso da solo strumento di salvezza per l’intero popolo. Si pensi poi al capitolo 5 della lettera ai Romani in cui Gesù viene presentato come il nuovo Adamo dal quale unicamente viene la salvezza dell’intera umanità.

Seconda lettura: Colossesi 2,12-14

Fratelli, con Cristo sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti. Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce.

Il v 12 riprende un dato tradizionale della catechesi battesimale della comunità primitiva. Rm 6,4-6 sviluppa bene questo discorso del battesimo come partecipazione personale al mistero pasquale. Tra i due testi vi è però una importante differenza. Per la lettera ai Romani solo la partecipazione alla morte di Gesù è una realtà presente, mentre la partecipazione alla risurrezione è lasciata al compimento escatologico. Nel nostro brano abbiamo invece un progresso in questo senso: mediante la fede si partecipa fin da ora alla risurrezione di Gesù come nuova condizione personale di vita. La fede è da riporre nella potenza di Dio. Anche questa espressione ci riconduce alla lettera ai Romani: 1,4. La risurrezione di Gesù è la manifestazione più chiara della potenza di Dio. L’adesione di fede a questa verità fa si che la risurrezione non sia più un avvenimento che riguarda solo Gesù personalmente, ma coinvolge in modo efficace e presente anche i credenti. Grazie alla fede, la risurrezione di Gesù non rimane un fatto isolato destinato solo alla sua persona, ma diventa un avvenimento comunitario vitale e trasformante.

Tocca al v. 13 spiegare in che modo tutto questo avvenga. Esso ricorda la condizione dei colossesi prima che credessero. Su di loro pesava una doppia penalizzazione: a causa dei peccati erano morti e per la loro incirconcisione erano esclusi da qualsiasi prospettiva di salvezza; non potevano beneficiare neppure dell’alleanza antica. Da questa condizione mortale essi sono stati liberati mediante il mistero pasquale. Il versetto ripropone la medesima espressione di quello precedente: «con lui» che non solo crea unità, ma ribadisce la centralità e l’efficacia dell’opera di Cristo della quale peraltro Paolo aveva già parlato in 1,14.20. Tutti i peccati sono stati perdonati grazie alla morte di Gesù come già insegnava la catechesi primitiva della Chiesa: 1Cor 15,3.

Il v. 14 si rifà ad una immagine presa dal mondo commerciale per descrivere le condizioni degli uomini davanti a Dio. Il «documento scritto» di cui si parla qui è un chirografo, cioè un atto ufficiale, legale, che reca la firma autografa di chi contrae il debito. Fino a quando non si sono assolti gli oneri finanziari contratti si è perseguibili, non c’è scampo. La condizione dell’uomo come debitore nei confronti di Dio appartiene all’insegnamento di Gesù stesso: Mt 6,12; 18,23-35. L’ultimo testo mostra molto bene l’impossibilità dell’uomo di assolvere il debito con Dio. Non c’è via d’uscita dal punto di vista umano per togliersi di dosso questa ipoteca imposta dal peccato. Il chirografo era corredato di condizioni, nel testo originale rese con il termine dogma, che esprime precisione, sicurezza. Ma anche queste regole precise erano a sfavore dell’uomo. Si potrebbe vedere nel plurale di quel termine le prescrizioni della legge giudaica. Tutto è stato tolto di mezzo dalla croce. Ciò che prima inchiodava noi alla nostra insolvenza Dio lo ha inchiodato alla croce dandoci salvezza e speranza. La risurrezione segna così questo grande passaggio: davanti a Dio gli uomini non sono più debitori sotto processo e in attesa di condanna, ma liberi e fruitori di un rapporto filiale.

Vangelo: Luca 11,1-13 

Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”». Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».

  

Esegesi

A Luca è molto caro presentare Gesù come modello di preghiera: 3,21; 5,16; 6,12; 9,18.29; 22,41.44; 23,34.46. Anche qui in 11,1 possiamo pensare che sia importante per l’evangelista mantenersi nella stessa linea. La richiesta di uno dei discepoli raggiunge infatti Gesù non appena Egli ha terminato di pregare. Si può legittimamente pensare che l’interesse sia non tanto quello di imparare una formula tipica dell’ambiente come la possedevano le diverse cerchie di discepoli riuniti intorno ad un maestro, come lo stesso accenno al Battista potrebbe far pensare, ma piuttosto di penetrare nel mistero stesso della preghiera di Gesù. Il «Padre nostro» rivela quale tipo di relazione Gesù ha con Dio e nell’ultima parte del brano, i vv 9-13 mostrano quale frutto ci si deve attendere dalla preghiera. Tutto ciò pone in un clima di assoluta novità, in una nuova via di relazione con Dio come solo nella preghiera di Gesù viene vissuta.

Dopo aver presentato Gesù come modello di preghiera nei vv. 2-4 si trova il «Padre nostro». Il titolo dato a Dio è quello dell’ambiente familiare per chiamare affettuosamente il capo famiglia, sia da parte dei bambini che da parte degli adulti. Nella lingua in cui Gesù ha insegnato la preghiera era dunque Abbà. Il rapporto con Dio viene quindi caratterizzato dalla confidenza e dalla tenerezza. Dio in quanto padre ha autorità e amore nello stesso tempo; in questo modo viene riconosciuto da chi prega come Gesù. La sfumatura della tenerezza è però senz’altro la novità che Gesù insegna nel rapporto con Dio. Quanto fosse antico nelle comunità cristiane questa prassi di approccio al Padre lo testimonia Mc 14,36 e ancor di più Gal 4,6 e Rm 8,15.

La prima richiesta riguarda la santificazione del nome divino. Per comprenderla si dovrebbe ricordare Ez 36,20-28. In quel testo Dio promette di manifestare la santità del suo nome ricostruendo l’unità del suo popolo disperso nell’esilio e ridonando agli israeliti il possesso della loro terra. In una parola Dio manifesterà la santità del suo nome realizzando la salvezza del suo popolo. Questa prospettiva fa cogliere molto bene il clima escatologico nel quale le prime due domande collocano l’orante. Con la prima domanda si chiede a Dio di realizzare definitivamente la salvezza degli uomini, con la seconda che sia portata a compimento l’opera di Gesù che ha proprio come scopo il risanamento definitivo dell’umanità. In 4,43 Gesù presenta come fine della sua missione appunto l’annuncio del regno. La stessa cosa devono fare gli inviati di Gesù: 9,2; 10,10. La seconda richiesta pertanto domanda che giunga a compimento l’opera che Gesù ha iniziato e che la Chiesa porta avanti con la sua missione.

La terza richiesta riguarda il pane, l’alimento necessario alla vita.

Nel testo originale la qualifica di questo pane non è chiaramente comprensibile; il participio epiousion infatti è di difficile interpretazione. Normalmente viene interpretato come la razione di cibo necessaria alla giornata: «quotidiano». In questo modo non avremmo uno scadimento nella richiesta, come se dopo aver domandato realtà spirituali si precipitasse nella materialità. Rimarremmo ancora in un tipo di rapporto con Dio fondato sulla fiducia e sull’abbandono riconoscendolo come colui dal quale unicamente dipende il proprio esistere. Bisognerebbe anticipare quanto dirà Gesù in 12,22-31. Nonostante che il Padre sappia di cosa si ha bisogno Gesù invita però a chiedere. Il «Padre nostro» è veramente la preghiera del discepolo di Gesù di colui che ha fatto suo lo stile di povertà radicale che Gesù praticava (9,58) abbandonando tutto per lui (18,18-23.28-30). In questa richiesta si nasconde allora il desiderio di essere discepoli di Gesù secondo lo stile da lui voluto e praticato.

La quarta domanda presenta una realtà alla quale solo Dio può dare soluzione: il peccato. A questa condizione che distrugge le relazioni dell’uomo con Dio e con gli altri il Padre risponde con il perdono. Viene fatta questa richiesta a Dio perché solo lui può concedere quel dono e solo lui può far sì che dall’uomo perdonato nasca la capacità di perdonare. Da ultimo si domanda a Dio l’aiuto necessario per superare positivamente la tentazione, o meglio in un senso più generale la «prova». Bisogna guardarsi bene infatti dall’attribuire a Dio il ruolo di Satana. Non è infatti certamente Dio ad incitare al male. La prova invece è una condizione che l’uomo praticamente non può evitare dal momento che non è stata risparmiata neppure a Gesù (4,1-11; Eb 2,18). In quella situazione l’aiuto di Dio è necessario perche l’uomo non soccomba, ma resti fedele.

I vv 5-8 raccontano una piccola parabola che invita alla più grande fiducia nella preghiera. Il clima del vicino oriente scoraggia i viaggi durante le ore calde; l’arrivo dell’amico a mezzanotte non è pertanto un fatto eccezionale, spesso bisogna approfittare delle ore notturne per gli spostamenti. Il pane poi era produzione casalinga, ogni famiglia lo produceva nel proprio forno. Inoltre la tipica casa palestinese prevedeva come locale destinato agli uomini una sola stanza poliuso: di giorno serviva da abitazione, di notte da dormitorio per tutta la famiglia. I congiunti deponevano stuoie a terra e dormivano tutti l’uno accanto all’altro. Il pane veniva conservato nel locale attiguo, dove si trovavano anche il forno e i silos per le scorte dei cereali. Andare a prendere il pane significava pertanto correre il rischio serio di calpestare i bambini che dormivano sul pavimento accanto ai genitori. La parabola all’inizio insiste sul legame di amicizia che esiste tra i protagonisti messi in scena da Gesù. Questo e il sentimento che spinge a chiedere, anzi a disturbare in un’ora scomoda. L’amicizia spingerà ad esaudire la richiesta e se dovesse venire meno questa, sarà l’insistenza a garantire il risultato. A dire il vero la parola originale che viene tradotta con «insistenza» indica piuttosto la mancanza di pudore, potremmo dire il non avere paura di presentarsi ad un orario inopportuno. Gesù vuole così dare fondamento all’audacia nella preghiera. Su che cosa si basa la sicurezza di essere esauditi? Innanzitutto sul fatto che Dio è un amico e di conseguenza nella preghiera si può osare molto senza paura.

I vv 9-10 contengono tre verbi che illustrano la preghiera: chiedere, cercare, bussare. Sono immagini classiche per indicarla. La terna costruita ponendo agli estremi due passivi teologici (vi sarà dato, vi sarà aperto) evidenzia ulteriormente le buone disposizioni di Dio verso chi si rivolge a Lui. I primi due verbi poi si ricollegano direttamente alla parabola appena raccontata ribadendone il messaggio.

I vv 11-13 possono essere considerati un’altra piccola parabola che potremmo intitolare «del figlio affamato». Anche in questo caso, come nella parabola dell’amico importuno, Gesù fa appello all’esperienza degli ascoltatori. Si deve sottolineare bene che il soggetto scelto è di nuovo il padre, nonostante che concretamente e normalmente sia la madre ad occuparsi dell’alimentazione dei figli. Si vuole proseguire pertanto, come dice chiaramente il v 13, nella presentazione del Padre e della risposta che Egli dà alle richieste degli uomini. La novità di Luca rispetto a Matteo (7,7-11) è però che il Padre non concede «cose buone», ma lo Spirito Santo. L’importanza dello Spirito Santo in Luca è nota: 1,15.35.41.67,2,26.27; 3,22; 4,1.14.18. Da queste ricorrenze si capisce bene come per Luca lo Spirito Santo è il dono escatologico, il dono che realizza i tempi della salvezza. C’è indubbiamente un salto di qualità incredibile, ma senza contraddizione. Il salto di qualità consiste nel fatto che mentre fin qui l’oggetto della preghiera erano realtà materiali, ciò di cui l’uomo necessita per il suo sostentamento, la risposta di Dio si colloca su un piano ben superiore. Egli è disposto a concedere molto di più, a dare una partecipazione piena alla sua vita, a segnare per quanti lo domandano il compimento della salvezza nel quale nulla mancherà all’uomo né il necessario per il quotidiano, né l’intimità con Dio. Mentre la preghiera umana si appiattisce spesso su realtà materiali Gesù invita a questo grande cambiamento di prospettiva: passare dal vedere Dio come colui che provvede semplicemente all’esistenza terrena a colui che assicura pienezza di vita attraverso il dono del suo Spirito. La considerazione è particolarmente preziosa in questo anno dedicato allo Spirito Santo e potrebbe diventare il vero fulcro dell’omelia.

Meditazione

Il tema della preghiera domina la liturgia della Parola in questa domenica e la domanda che risuona sulle labbra dei discepoli – «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1) – può costituire anche per noi l’interrogativo, o più ampiamente l’atteggiamento interiore con cui celebrare questa eucaristia. Alla richiesta dei discepoli Gesù risponde con una piccola catechesi, suddivisibile in tre parti. Dapprima consegna il Padre Nostro (vv. 2-4); quindi racconta una breve parabola (vv. 5-8); infine offre un insegnamento sull’efficacia della preghiera (vv. 9-13). Se la prima e la terza parte trovano dei paralleli nella tradizione sinottica, la parabola centrale è invece propria di Luca e rivela pertanto la prospettiva peculiare con cui il terzo vangelo comprende il mistero della preghiera. Potremmo anche dire che, se nel Padre Nostro Gesù mostra quale debba essere il nostro modo di stare davanti a Dio, attraverso la parabola rivela piuttosto quale sia il modo stesso con cui Dio si relaziona con i suoi figli. Le parabole infatti (e questa del capitolo undicesimo non fa eccezione) sono anzitutto una rivelazione del modo di essere e di agire del Padre, che ci interpella personalmente e ci chiede di trasformare il nostro stesso modo di essere e di agire. Per Gesù, la contemplazione del volto del Padre consente sempre – e nello stesso tempo esige – una trasfigurazione dell’agire umano. Per imparare a pregare occorre dunque anzitutto guardare a come Dio si relaziona con noi.

La parabola presenta la relazione tra tre amici. Il primo giunge nel cuore della notte a casa di un suo amico ed è per noi facile immaginare il suo bisogno: è provato dal viaggio, probabilmente non ha ancora cenato, necessita di ristorarsi e riposarsi. In questa situazione, cosa fare? Ciò che viene subito in mente al protagonista della parabola è ricorrere all’aiuto di un terzo amico. Non cerca di risolvere da sé, in modo autonomo e autosufficiente, la difficoltà: riconosce la propria impossibilità e accetta di rivolgersi a qualcun altro. Poco importa se è notte fonda: è un amico, mi aiuterà. Così ragiona il protagonista della parabola e così agisce. Il racconto, in questo modo, ci sollecita a metterci nei panni di questo uomo e a domandarci: avremmo agito come lui? È un primo interrogativo con cui la parabola ci interpella personalmente. A scavare più a fondo nel brano emerge però un secondo interrogativo, più importante del primo. La traduzione italiana di fatto elimina la domanda che nel testo greco è possibile intravedere. Infatti, nel testo originario Gesù introduce il suo racconto con un pronome interrogativo: chi di voi? La parabola inizia con una domanda; il problema è stabilire fin dove essa giunge. Probabilmente si conclude al v. 7 (in greco c’è un’unica frase) dove, anziché un punto e virgola, occorrerebbe mettere un bel punto interrogativo. Questo amico – domanda Gesù – gli dirà così: «Non m’importunare… non posso alzarmi per darti i pani?». La risposta la dà lo stesso Gesù, al v. 8: «vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono». La vera domanda posta dalla parabola riguarda dunque il comportamento del personaggio che viene importunato nel cuore della notte. Che cosa farà: si alzerà o no per esaudire la richiesta del suo amico? Il vero protagonista è lui e su di lui Gesù attira l’attenzione dei suoi ascoltatori. Più che ‘parabola dell’amico importuno’, dovremmo intitolare questo racconto ‘parabola dell’amico importunato’: è lui il protagonista principale di quanto avviene.

Nonostante tutte le difficoltà alle quali questo tale deve andare incontro, la risposta di Gesù non tollera dubbi: l’amico importunato esaudirà la richiesta di chi lo ha svegliato a notte fonda. E lo farà almeno per due motivi: a) per amicizia: colui che ha bisogno è un amico, e gli amici si aiutano volentieri; b) ma anche per la sua invadenza. Il vocabolo qui usato da Luca — anaideia —  significa letteralmente ‘senza faccia’, dunque senza timore, senza vergogna, in modo quasi sfacciato, impudente, disinvolto. La preghiera di questo tale non è soltanto insistente o invadente; è anche audace e confidente. Non ha timore o ritegno nello svegliare l’amico nel cuore della notte. Sa che è un amico; sa che con lui può avere confidenza e fiducia, può osare. È importante comprendere che si può pregare in questo modo soltanto chi sappiamo essere nostro amico. Con gli amici ci si comporta in modo diverso rispetto agli estranei.

A questo riguardo, dobbiamo fare attenzione a come Gesù conclude la parabola, al v. 8: «almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono». Il testo greco recita più esattamente: «gli darà tutto quello di cui ha bisogno». L’amico importuno chiedeva tre pani; riceve molto di più: torna a casa con tutto quello di cui ha bisogno. In questo ‘tutto’ va inclusa anche la bellezza della relazione che ha sperimentato: insieme al pane, ha ricevuto la certezza di avere un amico sicuro, in cui poter confidare senza esitazione e senza timore.

Troviamo così nella parabola una dinamica tipica della preghiera cristiana, sottesa anche al Padre Nostro: preghiamo chiedendo il pane per ogni giorno, e insieme al pane ogni altro bene necessario alla vita, ma perché attraverso i suoi doni Dio santifichi il suo nome, cioè ci faccia conoscere il suo volto; ci conceda il suo Regno, introducendoci nella relazione d’amore con la sua persona; compia la sua volontà, che è la salvezza di ogni suo figlio. L’esaudimento nella preghiera supera la nostra richiesta. Il protagonista della parabola insieme al pane riceve il volto dell’amico che si prende cura del suo bisogno; così noi, nella nostra preghiera, riceviamo il volto stesso di Dio che ci rivela il suo nome di Padre e ci dona il suo Regno e la sua salvezza.

Gesù ribadisce questo aspetto anche nella terza parte della sua catechesi, laddove parlando dell’efficacia della preghiera conclude: «quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!» (v. 13). Lo Spirito, come dono per eccellenza di Dio, ci testimonia che il Padre buono, anche quando si rende sollecito verso i nostri bisogni, non intende semplicemente donarci dei beni, ma attraverso di essi desidera comunicarci la sua paternità, il suo abbraccio di Padre, la sua comunione d’amore. Nello Spirito Dio ci dona se stesso, e nello stesso tempo ci dona la nostra più vera identità, quella di essere suoi figli, perché è solo nello Spirito – ci ricorda l’apostolo Paolo – che possiamo gridare «Abbà, Padre!» (cfr. Rom 8,15; Gal 4,6).

Non dobbiamo però dimenticare che, oltre i due personaggi principali, sullo sfondo della parabola rimane una terza figura: il tizio che arriva nel cuore della notte, da un lungo viaggio, stanco e affamato. Anche lui è un ‘amico’: così lo definisce la parabola. La relazione sottesa al racconto non è a due, ma a tre. Sciogliendo la metafora: l’amicizia con Dio implica sempre anche l’amicizia con gli altri uomini. Si può entrare in un rapporto confidente con Dio perché si sa sperimentare la bellezza di un rapporto confidente con gli altri uomini. Il tizio della parabola osa bussare alla porta dell’amico perché lui stesso non ha avuto remore nel lasciarsi importunare nel cuore della notte. Non teme di divenire importuno perché a sua volta si è lasciato importunare.

Luca, nel suo vangelo, usa la coppia verbale ‘chiedere-dare’ sia per il nostro rapporto con Dio, sia per quello con gli altri. «Chiedete e vi sarò dato», afferma nell’insegnamento sulla preghiera (v. 9). «Da’ a chiunque ti chiede», ricorda nel discorso della pianura (Lc 6,30). Possiamo chiedere a Dio di darci solo se a nostra volta siamo disposti a dare a chi ci chiede. La preghiera davanti a Dio implica sempre la nostra responsabilità davanti agli uomini. Diviene allora davvero ‘intercessione’, secondo il bel modello che ascoltiamo nella prima lettura con l’intercessione di Abramo. Intercedere significa ‘fare un passo in mezzo’, «fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione» (C.M. Martini). Mettersi in mezzo tra Dio e gli uomini significa anche mettersi in mezzo a entrambi gli atteggiamenti costitutivi della preghiera: ci si mette in mezzo per chiedere, ci si mette in mezzo per donare a nostra volta. Il pane da chiedere – insegna nel Padre nostro Gesù – non è mio, è nostro; ricevo il perdono perché possa perdonare a mia volta.

Commento a cura di don Jesús Manuel García