Prima lettura: Siracide 35,15-17.20-22
Il libro del «Siracide» (detto così dal nome del suo autore Gesù Ben Sirach) fa parte non del canone ebraico, ma della bibbia greca. Fu scritto in ebraico (se ne sono trovati frammenti in una grotta di Qumran), ma è arrivato a noi nella traduzione greca, che risale agli inizi del II secolo avanti Cristo. Non siamo lontanissimi dall’epoca del N.T., ed il pensiero sapienziale di Israele si esprime in un’opera di grande maturità.
Il cap. 35 rappresenta una profonda meditazione sapienziale sul senso del culto, ma anche una sua relativizzazione. Da una parte si esalta la bontà delle offerte e dei sacrifici (vv. 1-10), dall’altra parte si ribadisce che Dio non si lascia corrompere da vittime ingiuste e preferisce le preghiere povere ma sincere degli umili (vv. 11-24). È da questa seconda sezione del cap. 35 che sono attinti i versetti di cui si compone la nostra lettura.
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Annotazioni esegetiche
— «Il Signore è giudice…» (v. 12). Alla pretesa, o illusione, di valersi delle offerte cultuali per «corrompere» Dio (si legga il v. 11), questo v. 12 costituisce una risposta chiara: il Signore è al di sopra dei doni che gli offriamo come giudice imparziale. Vana è l’illusione dell’uomo religioso di poter tirare Dio dalla propria parte semplicemente offrendo gli omaggi.
— «Ascolta la preghiera dell’oppresso» (vv. 13-14). L’oppresso, la vedova e l’orfano sono — nell’ambito sociale — coloro che non hanno alcun peso, perché privi di sostegni e di possibilità economiche: è gente che non conta, alla quale nessuno dà importanza. A differenza delle autorità romane, è proprio a costoro che Dio rivolge la propria attenzione quando esprimono la loro infelicità («lamento»).
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— «La sua preghiera arriva fino alle nubi » (v. 17). L’efficacia della preghiera (penetrare le nubi significa giungere al cielo, ossia presso Dio, ottenendo ciò che chiede) è proprio nella debolezza di chi la fa, o meglio nella consapevolezza di tale debolezza («umiltà»). Qui si crea un importante legame col Vangelo di oggi.
—«Abbia reso soddisfazione ai giusti» (v. 22). I «giusti» si identificano qui chiaramente con coloro che si riconoscono deboli e confidano unicamente nella protezione di Dio. Proprio perché fiduciosa, tale preghiera «non desiste» e finisce con l’ottenere da Dio il ristabilimento di un’equità che i criteri umani hanno ignorato o sovvertito cioè: i deboli e gli umili trovano davanti a Dio quel favore che gli uomini negano loro.
Seconda lettura: 2Timoteo 4,6-8.16-18
La situazione in cui viene scritta questa seconda lettera a Timoteo è quella della prigionia romana. Paolo scrive alla vigilia della sua morte, per cui questa lettera al caro discepolo assume il tono del testamento spirituale. Nella parte finale di questo testamento (4,6-18) si aprono le prospettive future accompagnate dalle ultime istruzioni dell’Apostolo a Timoteo. La nostra lettura fa parte di questa sezione. Anche se (come tendono ad affermare molti critici) questa lettera è da attribuire non a Paolo, ma ad un suo discepolo o epigono, ritroviamo comunque le idee-madri e la testimonianza sostanziale dell’Apostolo, segno che la sua paternità spirituale ha profondamente segnato la tradizione paolina successiva.
Appunti esegetici. – Proponiamo di concentrare la nostra attenzione sulle immagini che vengono usate per descrivere la realtà presente vissuta dall’Apostolo e applicabile alla realtà di ogni credente.
a) La vita dell’Apostolo, che giunge verso la conclusione, è paragonata:
— con immagini atletiche, a una corsa tesa ad un traguardo («ho terminato» v. 7), ma anche in attesa di un premio («corona», v. 8), non da fruire personalmente ma da condividere con quanti hanno preso parte alla corsa (v. 8);
— con immagini strategiche: la vita del credente è battaglia buona e nobile, bella (kalos), per cui vale la pena combattere (v. 6);
— con metafora sacrificale: la vita giunge alla morte non come a epilogo oscuro ma come vittima il cui sangue si spande in libagione, è momento prezioso, al cospetto di Dio ed in favore degli uomini (propiziazione) (v. 6);
— con immagine marinara, la morte è come «sciogliere le vele», salpare per un lungo viaggio; non è fine, ma inizio.
b) Il rapporto dell’Apostolo con il Signore si configura come rapporto tra imputato e avvocato difensore. Il ruolo di questo difensore assume però dimensioni più vaste di quelle di un difensore giuridico. Sottolineiamo tre dimensioni teologiche: la prima, di liberazione dal nemico («dalla bocca del leone», 17: cf. Dan 6,17); la seconda, di potenza evangelizzatrice, per cui la forza di Dio si traduce in proclamazione e annunzio del Vangelo a tutti i pagani; la terza è di liberazione e salvezza escatologica: «nel suo regno» (v. 18).
Mediante queste ricche immagini, la vita, l’apostolato e la stessa morte di Paolo vengono trasfigurate alla luce di Dio, assumendo un valore molto più grande e teologico di quello che appare ad un semplice osservatore umano delle cose.
Vangelo: Luca 18,9-14
Esegesi
All’inizio del cap. 18 del Vangelo di Luca leggiamo due parabole riguardanti la preghiera. Ciascuna delle due parabole mette in luce le caratteristiche particolari della preghiera cristiana: la continuità incessante (parabola del giudice iniquo e della vedova, vv. 1-8; Vangelo letto la domenica scorsa) e l’umiltà (il fariseo e il pubblicano, vv. 9-14, Vangelo odierno). Il dittico delle due parabole va preso nel suo insieme: la preghiera incessante dev’essere caratterizzata da grande umiltà; la preghiera umile va continuata con perseveranza e insistenza.
Annotazioni esegetico-teologiche
Come ogni parabola, anche in questa abbiamo due storie o situazioni: l’una fittizia (due uomini salirono al tempio…), l’altra reale (alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri). La parabola raggiunge il suo scopo quando la situazione fittizia si «trasferisce» (para-ballo, in greco significa appunto «trasferire») a quella reale, sicché il superbo che disprezza gli altri si riconosce nel fariseo che si esalta e viene umiliato.
— «L’intima presunzione di essere giusti» (v. 9), «giusto» è l’uomo che si mette in sintonia con la «giustizia» di Dio, ossia con la sua santità e volontà di salvezza. La «giustizia» dei farisei, pur basandosi essenzialmente su opere buone (elemosina, preghiera e digiuno, cf. Mt 6,2-18) era inficiata da due deviazioni di base: prima, la pretesa di essere giusti in base ai propri meriti, seconda, l’esibizionismo che mentre li portava a «ritenersi» giusti davanti agli uomini (Lc 16,15), suscitava in loro disprezzo per gli altri.
Uno era fariseo e l’altro pubblicano (vv. 10-13). I due tipi di oranti sono scelti intenzionalmente, per preparare l’effetto della parabola. In comune essi hanno l’intenzione (pregare) e lo spazio (il tempio). La differenza è nell’atteggiamento e nel contenuto della preghiera:
a) l’atteggiamento di ognuno esprime il rispettivo modo di porsi di fronte a Dio presente nel tempio:
— il fariseo sta in piedi (così come si prega nel tempio) e inizia con un solenne atto di ringraziamento. In un certo senso egli rappresenta l’ideale della pietà giudaica;
— il pubblicano non osa avvicinarsi all’altro e levare lo sguardo al cielo, perché è consapevole della propria miseria e del proprio peccato.
Secondo la concezione comune dei giudei, per un pubblicano non c’era salvezza: sia perché si arricchiva col denaro che esigeva per le tasse, sia perché collaboratore delle forze romane, e quindi dei pagani, ponendosi contro il popolo. Il battersi il petto esprime non solo la coscienza che egli ha della propria situazione religiosamente disperata, ma anche e soprattutto il desiderio di cambiare la vita, e dunque di penitenza.
b) Il contenuto della preghiera di ognuno corrisponde esattamente al senso dell’atteggiamento esterno:
— il fariseo ringrazia Dio sostanzialmente per il fatto di essere un campione di pietà. Oggettivamente le opere in cui si impegna sono lodevoli ed eccellenti: nessuno era obbligato a digiunare se non nel giorno della grande espiazione, mentre egli generosamente lo fa due volte alla settimana, e chiaramente lo fa per espiare non i suoi, ma i peccati degli altri; inoltre, mentre era tenuto, a rigore, a pagare le decime solo dei principali frutti della terra (Dt 12,17ss), egli supera abbondantemente questo limite, pagando le decime di tutta la sua proprietà. Non si tratta di una caricatura, come spesso si dice: realmente il fariseo incarna l’ideale di colui che adempie le opere più fulgide della pietà giudaica. Ma a tale consapevolezza si accompagna il disprezzo degli altri (v. 11) e quindi manifesta la sua sufficienza davanti a Dio e l’orgoglio di fronte agli altri uomini, in particolare rispetto al pubblicano;
— il pubblicano non ha nessun merito da esibire; ha solo la chiara consapevolezza del suo peccato, e la esprime con le parole del Sal 51,1: Abbi misericordia di me o Dio. Siamo agli antipodi della chiara coscienza che ha il fariseo della sua percezione spirituale.
— «Io vi dico…» (v. 14). Il giudizio di Gesù interviene con pesante autorità («io vi dico») a capovolgere lo schema delineatosi con le due preghiere. Iniziando dal secondo, anziché dal primo, Gesù ha già introdotto il ribaltamento: costui ritorna a casa «giustificato», ovvero: Dio ha esaudito la sua preghiera e quindi ha perdonato il suo peccato; mentre l’altro (il fariseo) malgrado i grandi suoi meriti non lo è, cioè rimane col peso del suo peccato davanti a Dio. In questo modo Gesù infierisce un duro colpo alla presunzione di quel fariseo, e quindi alla concezione «ufficiale» che gli esponenti del giudaismo avevano della religiosità. La vera religiosità non è legata al peso delle opere, non stabilisce confronti con gli altri, ma si pone unicamente davanti al giudizio di Dio, dal quale implora misericordia. D’altra parte, Gesù mette in chiaro il perché del suo atteggiamento benevolo e accogliente rispetto a due grandi gruppi di peccatori pubblici: gli esattori delle tasse e le prostitute.
Meditazione
Preghiera e autenticità: questo il rapporto posto in luce dal brano dell’Antico Testamento e dal Vangelo. Il Signore gradisce la preghiera del bisognoso e dell’oppresso (I lettura) e accoglie la preghiera del pubblicano che si proclama peccatore davanti a lui (vangelo).
Vi e una fiducia in se stessi, un credersi giusti, che rende non accetta la preghiera del fariseo al tempio (Lc 18,14), così come vi è la possibilità di un culto che è solo una farsa, una burla, perché commisto a ingiustizia e empietà (cfr. Sir 34,18-19; 35,11). Nella preghiera si riflette e si svela l’autenticità o la falsità di ciò che si vive.
La preghiera dei due uomini al tempio, così vicini e così lontani al tempo stesso, ci pone la questione di cosa significhi pregare insieme, fianco a fianco, l’uno accanto all’altro in uno stesso luogo, in una liturgia. È possibile pregare accanto ed essere separati dal confronto, dal paragone e dal disprezzo («non sono come gli altri uomini,….. e neppure come questo pubblicano»: Lc 18,11). L’autenticità della preghiera, dell’offerta fatta al Signore nel culto, passa attraverso la qualità buona delle relazioni con i fratelli che pregano con me e che formano con me il corpo di Cristo.
Nella preghiera emerge anche quale sia la nostra immagine di Dio e la nostra immagine di noi stessi. Il fariseo prega «rivolto a se stesso» (pròs heautòn: Lc 18,11 ) e la sua preghiera sembra dominata dal suo ego. Egli formalmente compie un ringraziamento, ma in verità ringrazia non per ciò che Dio ha fatto per lui, bensì per ciò che lui fa per Dio. Il senso del ringraziamento viene così completamente sconvolto: il suo «io» si sostituisce a «Dio». La sua preghiera è in realtà un elenco delle sue prestazioni pie e un compiacimento del suo non essere «come gli altri uomini» (Lc 18,11 ). L’immagine alta di sé offusca quella di Dio e gli impedisce di vedere come un fratello colui che prega accanto a lui. La sua è la preghiera di chi si sente a posto con Dio: Dio non può che confermarlo in ciò che è e fa. È un Dio che non gli chiede alcun cambiamento e conversione perché tutto ciò che egli fa, va bene. Il fatto che lo sguardo di Dio non gradisca la sua preghiera (Lc 18,14: «questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato») smentisce la sua presunzione, ma afferma anche che noi possiamo pregare con ipocrisia e continuare a pregare senza pervenire ad autenticità e verità.
La differenza di atteggiamento dei due uomini è visibile anche dalla postura del corpo da loro assunta: il fariseo esprime la sua sicurezza, il suo essere un habitué del luogo sacro, stando in piedi, a fronte alta, mentre il pubblicano esprime la sua contrizione stando a distanza, quasi intimorito, a testa bassa, e battendosi il petto. Sempre noi preghiamo con il corpo e le posture del corpo rivelano la qualità della relazione con il Signore e il senso (o meno) del nostro stare alla sua presenza.
La preghiera richiede umiltà. E umiltà è adesione alla realtà, alla povertà e piccolezza della condizione umana, all’humus di cui siamo fatti. Umiltà non è falsa modestia, non equivale a un io minimo, ma è autenticità, verità personale. Essa è coraggiosa conoscenza di sé di fronte al Dio che ha manifestato se stesso nell’umiltà e nell’abbassamento del Figlio. Dove c’è umiltà, c’è apertura alla grazia e c’è carità; dove c’è orgoglio, c’è senso di superiorità e disprezzo degli altri.
Nella preghiera noi facciamo riferimento a immagini di Dio, ma il cammino della preghiera altro non è che un processo di continua purificazione delle immagini di Dio a partire dal Cristo crocifisso, vera immagine rivelata di Dio che contesta tutte le immagini mano fatte del divino.
L’atteggiamento del fariseo è emblematico di un tipo religioso che sostituisce la relazione con il Signore con prestazioni quantificabili: egli digiuna due volte alla settimana e paga la decima di tutto quanto acquista. Alla relazione con il Signore sotto il segno dello Spirito e della gratuità dell’amore, si sostituisce una forma di ricerca di santificazione mediante il controllo (la contabilità delle azioni meritorie) e che richiede il distacco dagli altri.
Commento a cura di don Jesús Manuel García