Prima lettura: Levitico 19,1-2.17-18
Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla a tutta la comunità degli Israeliti dicendo loro: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo. Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore”». |
«Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo» (v. 2). Con questo invito rivolto da Dio al suo popolo inizia la lettura.
Nel linguaggio corrente, per santo si intende chi ha condotto una vita esemplare, è andato in paradiso e, se invocato con fede, può concedere grazie e miracoli. Il vero significato di questo termine è però più ampio: indica ciò che è separato e consacrato a Dio. Erano santi i templi perché distinti, «ritagliati» dal mondo profano e riservati alla divinità. Varcare la soglia di un santuario era entrare nel mondo di Dio, per questo era necessario sottoporsi a numerosi e complicati riti purificatori.
Santi erano gli oggetti sacri che non potevano essere adibiti ad altri usi, sante erano le persone che vivevano in modo originale, che assumevano comportamenti fuori del comune. Il più santo era Dio, assolutamente diverso da tutto ciò che esiste. Cosa pretendeva dunque il Signore quando ha ingiunto al suo popolo di essere «santo»? Voleva forse che vivesse separato dagli altri popoli?
Israele ha inteso in questo modo il comando di Dio e ha pensato che fosse suo dovere evitare ogni contatto con coloro che avrebbero potuto portarlo all’idolatria. Per mantenere questa «santità», ha moltiplicato a dismisura i divieti: proibizione di entrare nelle case degli stranieri, di mangiare con loro o anche soltanto di stringere la mano a un pagano.
Essendo questa la mentalità comune, si rimane sorpresi quando si constata che, nel libro del Levitico, c’è un testo – ed è quello che ci viene proposto oggi — in cui la «santità» è intesa in modo completamente diverso: niente separazioni materiali dagli altri uomini, niente osservanze di prescrizioni rituali.
Per essere santi basta condurre una vita diversa, una vita che si concretizza nelle seguenti disposizioni: onorare il padre e la madre, osservare i sabati, non odiare il fratello, ri-nunciare al rancore e alla vendetta e amare «il tuo prossimo come te stesso» (vv. 3.17-18).
Quest’ultima clausola, assieme alla famosa raccomandazione del libro dei Proverbi: «Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare; se ha sete, dagli acqua da bere» (Prv 25,21), è il punto più alto cui è giunta la morale dell’Antico Testamento. Tuttavia, in essa è ancora presente un limite: l’amore richiesto non è universale; l’interpretazione rabbinica, infatti, lo restringeva ai membri del popolo d’Israele.
Seconda lettura: 1 Corinzi 3,16-23
Fratelli, non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi. Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente, perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto infatti: «Egli fa cadere i sapienti per mezzo della loro astuzia». E ancora: «Il Signore sa che i progetti dei sapienti sono vani». Quindi nessuno ponga il suo vanto negli uomini, perché tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio. |
La comunità è come un santuario ritagliato dal mondo profano; chi la mantiene unita e salda è lo Spirito, le divisioni che disgregano e minacciano di far crollare tutta la costruzione introducono un principio opposto e devastante. Chi si rende responsabile di un simile disastro sarà trattato dal Signore con estrema severità: «Dio – assicura Paolo – distrug-gerà lui» (v. 17). È l’immagine tradizionale del giudizio finale che serviva, nel linguaggio rabbinico, non a descrivere ciò che accadrà alla fine, ma a mettere in risalto l’estrema gravita di un’azione.
Nella seconda parte della lettura (vv. 18-23) viene ripreso il motivo della contrapposizione fra la «sapienza di Dio» e quella «degli uomini». Le discordie derivano dal fatto che i mèmbri della comunità seguono la «sapienza di questo mondo», opposta a quella di Dio.
Nella sua lettera, Paolo ha già detto che «il vangelo è una pazzia agli occhi degli uomini» (1,18.21.23), oggi afferma che la saggezza degli uomini è una follia per Dio (v. 19).
L’Apostolo non intende svalutare o disprezzare gli sforzi e le capacità della ragione umana; egli mette in guardia dai deliri di onnipotenza e dalle pretese insensate di chi è convinto che tutto possa essere ridotto al razionale e che si possa fare a meno della luce di Dio.
Questo pensiero introduce nelle interpretazioni nuove e provocatorie che, nel vangelo di oggi, Gesù darà ad alcuni testi dell’Antico Testamento, interpretazioni che propongono scelte morali la cui validità è garantita da Dio, non dalla «sapienza di questo mondo».
Vangelo: Matteo 5,38-48
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle. Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste». |
Esegesi
Abbiamo ascoltato la scorsa domenica l’interpretazione di Gesù circa quattro testi della Toràh d’Israele. Oggi viene presentata quella relativa ad altri due.
La prima riguarda il modo nuovo di ottenere giustizia. Tutti siamo d’accordo che il male va contenuto e contrastato. Ma come?
Nelle società arcaiche dove non c’era un potere statale capace di mantenere l’ordine, si ricorreva facilmente alla vendetta, alla rappresaglia senza limiti. Il responsabile di una malefatta, una volta scoperto, veniva sottoposto a castighi esemplari, a punizioni pubbliche, tanto severe e crudeli, da dissuadere chiunque altro dal commettere simili errori. La ritorsione serviva come deterrente, ma era un modo barbaro di fare giustizia.
Lamec, il discendente di Caino, si tutelava incutendo terrore: «Ho ucciso un uomo per un graffio e un ragazzo per un livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settanta sette volte» (Gn 4,23-24). È per porre un argine a simili eccessi che la Toràh aveva stabilito: «Occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,23-25). Questa è forse la legge più travisata della storia del diritto.
È citata ad esempio quando, ricevuto uno sgarbo, si ripaga con la stessa moneta. «Occhio per occhio e dente per dente» equivale, in questi casi, al rifiuto di avere compassione, di accordare clemenza al colpevole. In realtà la disposizione aveva tutt’altro significato: vietava i cosiddetti castighi esemplari e le rappresaglie. Ognuno doveva pagare per la colpa commessa, non per tutto il male presente nel mondo.
Intesa correttamente rimane valida anche oggi e, se praticata, garantisce l’equità nelle sentenze. Gesù non la considera decaduta, propone di andare oltre questa giustizia rigorosa e invita ad affrontare il problema in altro modo (vv. 38-42).
I rabbini del suo tempo insegnavano: «Sii ucciso, ma non uccidere», ma aggiungevano subito: se però qualcuno ti aggredisce e vuole toglierti la vita, tu non riflettere, non dire a te stesso: forse mi renderò colpevole del suo sangue; uccidilo prima che sia lui a ucciderti! Questa interpretazione dei rabbini non suscitava obiezioni. Era conforme alla logica umana e poteva trovare giustificazioni anche nella Toràh.
Ora ecco la sorpresa, Gesù non l’accetta e dice ai suoi discepoli: «Ma io vi dico di non opporvi al malvagio»; piuttosto che fare violenza al fratello, dovete essere disposti a subire l’ingiustizia (Mt 5,39). Siamo di fronte a parole inequivocabili; comunque, a scanso di equivoci, aggiunge quattro esempi, presi dalla vita quotidiana del suo popolo.
Il primo riguarda la violenza fisica: «se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra…» (v. 41).
Quando si riceve uno schiaffo, se l’aggressore non è un mancino, si viene colpiti sulla sinistra. Gesù parla della destra perché la violenza subita è maggiore: si tratta del manrovescio, un’offesa gravissima, punita in Israele con un’ammenda pari a più di un mese di stipendio. Al discepolo, Gesù non raccomanda di essere più buono, più mite nelle pretese di risarcimento, esige un comportamento radicalmente nuovo: «tu pórgigli anche l’altra».
«Buoni sì, ma non stupidi!», si suol dire. Certo, le parole di Gesù non devono essere prese alla lettera (questo sarebbe davvero sciocco). Anch’egli, quando ha ricevuto lo schiaffo, non ha presentato l’altra guancia, ma ha protestato (Gv 18,23). Ciò che esige dai discepoli è la disposizione interiore ad accettare l’ingiustizia, a sopportare l’umiliazione, piutto-sto che reagire facendo del male al fratello.
L’unico modo per interrompere il ciclo diabolico offesa-violenza è il perdono. Se alla violenza si reagisce con un’altra violenza, non solo non viene eliminata la prima ingiustizia, ma se ne aggiunge un’altra. Questo circolo può essere spezzato solo con un gesto originale, assolutamente nuovo: il perdono. Tutto il resto è vecchio, è qualcosa di già visto, di ripetuto senza sosta fin dagli inizi dell’umanità.
Il secondo esempio si riferisce all’ingiustizia economica (v. 40).
In Israele, uomini e donne indossavano due capi di vestiario: una tunica a maniche lunghe o a mezze maniche, portata sul corpo nudo, e un’ampia cappa (il mantello). Nel mantello ci si avvolgeva quando faceva freddo e lo si toglieva quando si svolgeva un lavoro servile. Ai poveri serviva anche da coperta per la notte, per questo la Toràh stabiliva che non poteva essere pignorato (Es 22,25-26).
Gesù propone un caso limite di ingiustizia: un discepolo viene portato in tribunale perché lo si vuole privare della tunica. Chiaramente tutti gli altri beni gli sono già stati tolti. Che deve fare? Null’altro che manifestare il suo totale e incondizionato rifiuto di entrare in liti e contese. Per questo cede anche il mantello, l’ultimo indumento che gli rimane, quello che non poteva essere requisito come pegno, ed è disposto a rimanere nudo, come il suo Maestro sulla croce.
Il terzo esempio è l’abuso del potere (v. 41).
Capitava spesso che i soldati romani o qualche signorotto locale angariassero dei poveri contadini e li costringessero a fare da guide o a portare carichi. Un esempio lo abbiamo nel racconto della passione: Simone di Cirene è obbligato a portare la croce di Gesù (Mt 27,31).
Gli zeloti, cioè i rivoluzionari di quel tempo, suggerivano la ribellione e il ricorso alla violenza per opporsi a simili soperchierie. Epitteto esortava alla prudenza: «Se un soldato ti requisisce l’asino, non resistergli e non lamentarti, altrimenti verrai percosso e alla fine glielo dovrai consegnare lo stesso».
Gesù non fa alcuna considerazione di questo tipo, non si richiama alla prudenza; ai discepoli dice semplicemente: «se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due». Non detta una norma di saggezza, non suggerisce una strategia atta a convenire l’aggressore, non assicura nemmeno che un simile comportamento arrendevole otterrà risultati positivi in tempi brevi. Chiede al discepolo che, senza fare calcoli, mantenga il cuore libero dai risentimenti e si astenga da qualunque reazione che non sia dettata dall’amore.
Il quarto caso è quello della persona importuna che viene a chiedere un prestito (ma può anche essere un alloggio, un appartamento in affitto, un posto di lavoro, un prezzo di favore…) magari, come spesso accade, senza un minimo di discrezione.
Gesù dice al discepolo: «Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle» (v. 42). Non fingere di non capire, non cercare scuse, non inventare difficoltà inesistenti, non cercare di scaricare su altri il problema. Se puoi fare qualcosa, fallo e basta.
Nell’ultimo (il sesto) esempio Gesù si richiama a un duplice comandamento: «Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico» (vv. 43-48). Nell’Antico Testamento il primo lo si trova (Lv 19,18), ma il secondo no. Probabilmente Gesù non si riferisce a un testo specifico della Toràh, ma alla mentalità che si era creata in Israele a partire da alcuni testi biblici.
Nelle sacre Scritture si parla, a volte, di guerre sante (Dt 7,2; 20,16), compaiono sentimenti di vendetta (Sal 137,7-9), si manifesta il proprio attaccamento al Signore, ma in un linguaggio molto arcaico: «Non odio, forse, i tuoi nemici, Signore? Li detesto con odio implacabile» (Sal 139,12-22).
Espressione di questo odio è l’invito che i monaci esseni di Qumran rivolgevano ai loro adepti: «Amate tutti i figli della luce, ma odiate tutti i figli delle tenebre, ciascuno secondo la sua colpa, nella vendetta di Dio».
Ci sono però nella Bibbia – è bene ricordarlo – altri testi in cui si ammonisce di non ricambiare il male (Prv 24,29) e si raccomanda l’amore al nemico: «Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui ad aiutarlo» (Es 23,5). Appellandosi ad essi, alcuni rabbini sostenevano che il comandamento: «Ama il prossimo come te stesso» (Lv 19,18) doveva essere esteso anche al nemico, ma l’opinione comune lo restringeva agli appartenenti al popolo giudaico.
In questo contesto religioso, il duplice comandamento di Gesù suona paradossale: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori».
È l’apice dell’etica cristiana, è la richiesta dell’amore gratuito e incondizionato che non si aspetta alcun contraccambio e che, come quello di Dio, raggiunge anche chi fa del male.
Alcuni saggi dell’antichità hanno fatto proposte morali elevate: «Comportati in modo da trasformare i tuoi nemici in amici» (Diogene). «Proprio dell’uomo è amare anche coloro che lo percuotono» (Marco Aurelio); ma l’imperativo Ama i tuoi nemici è un’invenzione di Gesù.
Il secondo comando – pregate – suggerisce il mezzo per riuscire a praticare l’amore per «chi ci perseguita», per chi ci rende la vita impossibile: la preghiera. Essa eleva verso il cie-lo, unisce al Signore, purifica la mente e il cuore dai pensieri e dai sentimenti dettati dalla logica di questo mondo e fa vedere il malvagio con gli occhi di Dio, che non ha nemici.
Gesù invita a mostrarsi suoi figli, chiede ai discepoli di lasciar trasparire nei loro comportamenti l’indole del Padre celeste «egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». La distinzione fra malvagi e buoni e la lotta contro gli uomini, portata avanti in nome di Dio, sono bestemmie!
Due esempi (vv. 46-47) mettono a confronto il comportamento usuale degli uomini con la novità di vita di chi ha assimilato i pensieri, i sentimenti e le opere del Padre che sta nei cieli. La caratteristica dei «figli di Dio» è l’amore offerto a chi non lo merita e il saluto rivolto a chi si comporta da nemico. La formula di saluto era: Shalom, augurio di pace e di ogni bene. Con tutto il cuore, il discepolo desidera, anche per chi lo odia, il bene e, dimentico dei torti, si impegna perché questo avvenga.
La conclusione addita la meta irraggiungibile: «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (v. 48).
La perfezione del giudeo consisteva nell’esatta osservanza dei precetti della Toràh. Per il cristiano è l’amore senza limiti come quello del Padre. Perfetto è chi non manca di nulla, chi è integro, chi non ha il cuore diviso fra Dio e gli idoli. La disponibilità a donare tutto, a non conservare nulla per sé, a mettersi totalmente a servizio dell’uomo — compreso il nemico – colloca sulle orme di Cristo e conduce alla perfezione del Padre che si dona tutto e che non esclude nessuno dal suo amore.
Meditazione
Quando ne sentiamo parlare o, peggio ancora, la sappiamo nuovamente riapplicata, abbiamo un sussulto alle viscere e ci assale un moto di disgusto. Eppure, per quanto possa apparirci difficile da credere, la legge del taglione venne introdotta quale efficace strumento per evitare il debordare della violenza incontrollata e porre un argine alla ‘legge del più forte’. A una offesa si potrà (o si dovrà?) contrapporre analoga ferita: non di più! Se abbiamo però il coraggio di non censurare pensieri e sentimenti che irrompono dentro di noi quando qualcuno ci tocca sul vivo, magari mettendo a nudo qualche tratto vergognoso della nostra esistenza, forse la legge ‘dell’occhio per occhio’ non ci apparirebbe così arcaica e primitiva, scoprendo anzi di essere capaci di ben peggiori violenze: quante volte abbiamo maledetto, imprecato – se non abbiamo addirittura augurato una rapida dipartita da questa terra – a chi (ci) faceva del male ‘gratuitamente’, senza ragione alcuna? Se situazioni aberranti ridestano fortunatamente in noi la capacità di scandalizzarci e di intervenire, la nostra reazione non è forse sempre commisurata alla colpa commessa (contro di noi)…
Comunque sia, le parole di Gesù riportate nel brano evangelico di questa settimana aprono la strada a un cammino infinito, stimolando le migliori energie positive che possono sprigionarsi anche da ognuno di noi. L’apparente contraddizione tra Primo e Nuovo Testamento, tra «avete inteso che fu detto» (5,38.43) e «ma io vi dico» (5,39.44), è solo la riproposizione religiosa della legge del taglione sopra citata: quelle norme, introdotte addirittura nel testo biblico, per cercare di evitare un male peggiore e l’insorgere dell’arbitrarietà, sono ora accostate allo splendore massimalista del desiderio del Signore: «Voi dunque siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (5,48). La speranza di un mondo riconciliato e unito nell’amore non è favola per bambini ma vigoroso ed esigente programma esistenziale del discepolo di Gesù.
È estremamente facile entrare in rotta di collisione con altri ma quanto è difficile ricucire un tessuto relazionale! Concretamente, cosa si può fare nei confronti del malvagio? Un’arte laboriosa si richiede… Un primo passo, già estremamente impegnativo, è non replicare al male con il male (cfr. 5,39-41), bloccare in sé quella spontanea reazione di vendetta che ci illude falsamente di ristabilire una qualche forma di giustizia e legalità. Non chiudere i ponti, arrivare a prestare a chi domanda (cfr. 5,42) suppone la capacità di riuscire a vedere nella persona richiedente – ‘il cattivo’ – almeno una scintilla di quel bene che altri – e magari lui stesso – non riesce più a scorgere: sperare pertanto in un cambiamento della persona è dare credito, dare fiducia a quel desiderio di umanità e autenticità che abita le profondità di ognuno di noi.
Gesù arriva addirittura a chiedere il superamento della reciprocità: un amore autentico non calcola ma si offre generosamente, perché «pieno compimento della Legge è l’amore» (Rm 13,9). E ci sferza con decisione, quasi irridendo quei nostri sforzi che ci appaiono impari: «se amate quelli che vi amano, cosa fate di straordinario?» (5,46.47). Va precisato che così dicendo Gesù non banalizza affatto l’amicizia o mette a un livello inferiore l’amore che può esistere tra coniugi: si sta parlando del caso del ‘nemico’, di cui mai si chiede di diventare amico. Sono situazioni differenti!
Forse mai come in questa situazione ci appare debole la nostra carne: come si può amare chi ci è stato o ci è ancora nemico? Senza entrare nelle infinite e reali sfumature dei singoli casi personali, su cui peraltro ognuno di noi è chiamato a verificarsi, comprendiamo come solo grazie all’azione dello Spirito santo ci possa essere offerta la possibilità di incamminarci su questo erto ma liberante cammino di crescita. Quella preghiera che sale incessantemente al Padre dal Signore risorto e che ci viene domandata anche verso i nostri persecutori (5,44) è forse l’espressione più completa di quella perfezione d’amore che Gesù ha testimoniato durante tutta la sua esistenza.
Vigiliamo sui nostri sentimenti e facciamone attenta verifica: stupiti dall’amore di Gesù, che ci ha amati mentre eravamo ancora nemici (cfr. Rm 5,10), saremo in grado di purificare il nostro cuore e camminare nella via dell’amore.
Commento a cura di don Jesús Manuel García