Prima lettura: Siracide 24,1-4.8-12, neo-vulg.24,1-4.12-16
La sapienza fa il proprio elogio, in Dio trova il proprio vanto, in mezzo al suo popolo proclama la sua gloria. Nell’assemblea dell’Altissimo apre la bocca, dinanzi alle sue schiere proclama la sua gloria, in mezzo al suo popolo viene esaltata, nella santa assemblea viene ammirata, nella moltitudine degli eletti trova la sua lode e tra i benedetti è benedetta, mentre dice: «Allora il creatore dell’universo mi diede un ordine, colui che mi ha creato mi fece piantare la tenda e mi disse: “Fissa la tenda in Giacobbe e prendi eredità in Israele, affonda le tue radici tra i miei eletti” . Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi ha creato, per tutta l’eternità non verrò meno. Nella tenda santa davanti a lui ho officiato e così mi sono stabilita in Sion. Nella città che egli ama mi ha fatto abitare e in Gerusalemme è il mio potere. Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso, nella porzione del Signore è la mia eredità, nell’assemblea dei santi ho preso dimora». - Pubblicità - |
Il capitolo 24 del Siracide è un poema con protagonista la sapienza, che presenta se stessa, come in Proverbi 8.
Nel brano che leggiamo oggi la presentazione è su due piani: la terra e il cielo. La sapienza loda se stessa e si glorifica (kauchaomai) in mezzo al suo popolo e nell’assemblea dell’Altissimo. I verbi greci sono al futuro uno di questi: kauchesetai è uguale sia in mezzo al popolo che nell’assemblea dell’Altissimo. L’autopresentazione su due piani è tipica di una certa letteratura del medio giudaismo, che personalizza la Sapienza e la Legge, che il Siracide identifica come un’unica realtà, e ne pone la preesistenza presso Dio, prima della creazione del mondo.
La Sapienza può lodare se stessa, perché è uscita «dalla bocca dell’Altissimo». L’origine della sapienza è da Dio e il suo insegnamento viene da Lui.
È da Dio che la Sapienza riceve il mandato in mezzo ad Israele. Essa partecipa della potenza divina, è una mediatrice privilegiata, che partecipa direttamente di alcune qualità dell’Altissimo. Le immagini per dire il suo essere vicina a Dio e nello stesso tempo in Israele riprendono quelle dell’Esodo: «ho ricoperto come nube la terra… il mio trono era una colonna di nubi» (Sir 24,3-4; cf Es 13 21-22; 14,19-20; 33,9-11; 40,38).
La Sapienza cerca un luogo fra tutti i popoli, come dimora; il creatore le comanda: «fissa la tenda in Giacobbe e prendi eredità in Israele».
L’immagine della tenda rimanda di nuovo ad Esodo, come la nube (cf. Es 25,8-9; 26,1-37). Nella tenda la sapienza diventa «sacerdote di Dio», e in questa veste si stabilisce in «Gerusalemme» (Sir 24,11 cf 1Re 8,10-13; Is 6,1-4, la città amata (cf. Sal 50,2). Israele, popolo glorioso, eredità del Signore (Sir 24,12 cf. Deut 32,9; Zac 2,16) diventa dimora privilegiata della «sapienza» divina. La Sofia (sapienza in greco) acquista i tratti della shekinà ebraica, vale a dire l’immanenza di Dio nel suo popolo, di cui condivide le sorti.
Seconda lettura: Efesini 1,3-6.15-18
Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato. |
«Benedetto sia il Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione…» (Ef l,3). Innalzare un inno di benedizione a Dio per i doni che ci ha concesso è tipico della tradizione ebraica seguita anche da Luca che mette in bocca a Maria il «Magnificat» e a Zaccaria un inno dall’inizio molto simile a questo: «Benedetto il Signore Dio di Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo» (Lc 1,68).
Il verbo greco eulogeo, che traduciamo con benedire, significa nella letteratura extrabiblica: dire bene di qualcuno, sinonimo di ringraziare glorificare, cantare gli elogi. Nel LXX e nel NT è usato nel senso del verbo ebraico, barak che ricorre sia per Dio che benedice, sia per l’uomo che canta le lodi di Dio.
Il Padre del nostro Signore Gesù Cristo è il Dio di Israele, che si può benedire, perché egli stesso ha preso l’iniziativa di benedire. L’inno paolino è costruito su questa circolarità: da Dio agli uomini in Cristo e dagli uomini in Cristo a Dio.
L’iniziativa divina è sottolineata con forza; la scelta di farci diventare «figli» nel «figlio» e la conseguente possibilità di «essere puri e immacolati al cospetto di Dio» è atto di pura grazia divina. Come Cristo è in Dio preesistente alla creazione, così noi siamo scelti da lui «prima della creazione del mondo». Tutto quello che siamo, tutto quanto compiamo dipende dal beneplacito (eudokía) della volontà divina.
Il termine greco eudokía è lontano da qualsiasi idea di arbitrarietà; esso veicola l’idea del piacere e del desiderio buoni. Dio è per così dire «affettivamente» coinvolto nella scelta degli uomini e delle donne, che nel Figlio Gesù diventano figli e figlie adottive. Il Dio biblico non è un Dio distaccato, ma un Dio, se così si può dire, che si compiace, gioisce, è geloso, si adira, si pente… Egli è infinitamente superiore alle creature, ma si china su di loro con lo sguardo amoroso e compiacente di un padre e una madre. Consci di questa vicinanza e resi figli in Cristo eleviamo il nostro inno di benedizione «a lode dello splendore della sua grazia» (Ef 1,6).
L’inno prosegue fino al v. 14, ma la liturgia ne sospende la lettura alla prima strofa e la riprende al v. 15 fino al 18, nei quali Paolo esprime le motivazioni che lo inducono ad elevare continui ringraziamenti e suppliche al Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria. Egli ringrazia per la fede e l’amore verso «tutti i santi» (i cristiani) dei destinatari della sua lettera. Egli invoca per loro lo spirito di sapienza e di rivelazione, che li renda capaci di una sempre maggiore conoscenza di Dio.
Vangelo: Giovanni 1,1-18
In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me». Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato. |
Esegesi
«In principio» richiama l’inizio di tutte le Scritture (bereshit, greco ev archè Gen 1,1, Gv 1,1) e fa da inclusione ai primi due versetti del prologo di Giovanni, che formano così una strofa. L’accostamento alle Scritture continua con l’insistenza di Giovanni sui termini luce e tenebre (Gv 1,4-5 – Gen 12-5). Il «principio» di cui parla Giovanni allude sicuramente all’inizio delle Scritture, ma allude a una dimensione ancora più profonda di quella a cui si riferisce la Genesi, perché si pone prima dell’inizio del creare di Dio. «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio». Il titolo «il Verbo» (o logos) per indicare la persona di Gesù è usato in forma assoluta solo nel prologo e con delle specificazioni solo nella letteratura giovannea (Il Verbo della vita in 1Gv 1,1 e il Verbo di Dio in Ap 19,13).
Gli esegeti non sono d’accordo sull’origine di questo titolo. Il contenuto teologico del Logos giovanneo è molto vicino alla riflessione giudaica sulla Sapienza, che è presentata come mediatrice della creazione e della salvezza (Pv 8,22; Sap 9,1; Sir 24,1-7). La terminologia sapienziale era già in uso nella chiesa primitiva (cf. Mt 11,19; 1Co 1,30), ma Giovanni evita il termine «Sapienza» e sceglie «Logos».
L’esclusione di sapienza è dettata, dicono alcuni studiosi di Giovanni, prima di tutto dal fatto che si tratta di un termine femminile che sarebbe suonato male in ambiente ellenistico, dove invece era corrente il termine Logos, diffuso anche in ambiente giudeo-ellenistico attraverso l’opera di Filone Alessandrino, che presenta il Logos come mediatore della creazione e della salvezza, una specie di causa esemplare del mondo (cf. G. Segalla, Giovanni, Nuovissima Versione della Bibbia Paoline, p. 141).
La riscoperta del termine Sofia come titolo cristologico è recente e frutto della riflessione femminista e può, se non usato in maniera acritica ed esclusiva, aiutare a scoprire gli attributi per così dire «femminili» di Dio, presentati dalle Scritture.
Il «Verbo era presso Dio»: il greco esprime la vicinanza a Dio del Verbo con una preposizione pros che non indica la posizione statica di vicinanza, ma l’orientamento verso. Il «Verbo era Dio» è il punto di arrivo delle tre affermazioni sul Verbo, che portano a contemplare il mistero intradivino.
Il Verbo era rivolto verso Dio, il suo sguardo e la sua vita erano tutte intradivine, ma Giovanni, affermando che «il mondo è stato fatto per mezzo di lui» (Gv 1,3; cf. Gn 1,1; Col 1,15-16; Eb 1,2-3), spezza la «circolarità» intradivina per orientare lo sguardo di Dio, anzi la sua parola, verso l’altro da sé. Il Verbo di Dio diviene così la parola creatrice (Gn 1,1.3.6.9.14.20.24.26; Sal 33,6-9), cioè parola capace di uscire dalla fecondità di Dio per dare vita al mondo.
Il primo capitolo di Giovanni ricorre all’immagine della luce e delle tenebre (collegata dalla Genesi all’origine del mondo) anche per «attualizzare» drammaticamente nel tempo le «opere del principio». Luce e tenebre divengono infatti il luogo dell’accoglimento o, all’opposto, il luogo del rifiuto (Gv 1,5.10)». (Piero Stefanini, Sia santificato il tuo nome. Commento ai Vangeli della domenica. Anno A, p. 44).
Il Verbo deve fare i conti con il rifiuto, perché è una «luce» particolare, che non abbaglia, ma lascia alle «tenebre» la possibilità di non scomparire; fuor di metafora il Verbo si rivela come vita e rivela il Padre (Gv 1,18), ma in modo da lasciare la libertà di accoglierlo o di rifiutarlo.
La risposta deve essere libera, perché il risultato dell’accoglienza è diventare «figli di Dio» (Gv 1,12-13; cf 1Gv 5,13; Ga 3,26). Per questo il Verbo «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).
Dentro al quadro di accoglimento e rifiuto fatto in termini generali, l’evangelista richiama la figura di Giovanni il Battista, come modello di accoglienza della luce, che si è rivelata ed è venuta nel mondo. Egli ha accolto il mandato di Dio ed è diventato testimone della luce (Gv 1,6- 8.15; cf. Mt 3,1; Mc 1,4.7; Lc 1,13-17.57-80).
Meditazione
Torniamo in questa domenica a fissare lo sguardo sul mistero dell’incarnazione aiutati dal Prologo di Giovanni, che la liturgia, dopo averlo proclamato nella Messa del giorno di Natale, ci fa ascoltare anche oggi, questa volta alla luce della Sapienza di Dio, come viene descritta dal Siracide (prima lettura). Di fatto, il capitolo 24 del Siracide, insieme al capitolo 8 del libro dei Proverbi, costituiscono il principale punto di riferimento antico-testamentario per l’inno con cui si apre il Quarto Vangelo.
L’origine della Sapienza è in Dio; creata fin dal principio, rimane in eterno. Dopo aver riempito di sé l’intera creazione, dall’alto dei cieli fino agli abissi della terra, ha fissato la sua tenda in Israele, ha posto le sue radici nella storia di questo popolo. Presente nel cosmo e nella storia, rivela il mistero di Dio, mostrandone tanto la trascendenza quanto la prossimità alle vicende degli uomini. Colei che ha la sua dimora lassù, e il suo trono su una colonna di nubi, è la stessa Sapienza che abita in Gerusalemme, e pone la sua tenda tra le tende degli uomini. Dio è il Trascendente e il Prossimo, l’Altro e il Somigliante, lo Straniero e il Vicino. La sua Parola discende dall’alto dei cieli e nello stesso tempo sale dall’esperienza storica dei figli dell’uomo.
Secondo la tradizione giudaica, la rivelazione fondamentale di Dio, la Torah contenuta nei cinque libri di Mosè (il nostro Pentateuco, dalla Genesi al Deuteronomio), trova il suo commento e la sua interpretazione nei Profeti e negli Scritti sapienziali. La Profezia è spesso paragonata alla manna del deserto, un pane che discende dal cielo; la Sapienza all’acqua che sgorga dalla roccia, dalla terra. C’è una parola di Dio che viene dall’alto e che possiamo ascoltare perché c’è un profeta che ce l’annuncia in suo nome, così come c’è una parola di Dio che sale e matura dal di dentro dell’esperienza umana, e che possiamo riconoscere a condizione di saper rileggere con sapienza e discernimento la nostra vita e la nostra storia.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo prega per gli Efesini, chiedendo che «il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui» (v. 18). Possiamo forse intendere così queste parole: abbiamo bisogno dello spirito di rivelazione, che ci consenta di ascoltare e comprendere ciò che Dio ci rivela dall’alto, e che spesso rimane indeducibile dall’esperienza che viviamo. È allora indispensabile un annuncio profetico, una parola che ci colpisce e ci sorprende, che ci dona uno sguardo diverso su noi, sugli altri, sulla realtà nel suo insieme e su tutto ciò che accade. La rivelazione di Dio è sempre un’illuminazione, che consente a una luce diversa di abitare nei nostri occhi e nel nostro sguardo. Nello stesso tempo, abbiamo bisogno di uno spirito di sapienza, che ci permetta di discernere quei segni di Dio nascosti nelle pieghe ordinarie della nostra vita. Per vivere e per credere necessitiamo sia della manna che scende dal cielo, sia dell’acqua che sgorga dalla roccia.
In Gesù di Nazaret queste due linee, quella discendente della manna e quella ascendente dell’acqua, si incontrano e si unificano. Non per nulla spesso i testi del Nuovo Testamento ce lo presentano come l’ultimo e definitivo profeta, ma anche come la sapienza incarnata. Un solo esempio fra i tanti: all’inizio del vangelo di Matteo, nel suo primo grande discorso, «Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: beati…» (Mt 5,1-2). Gesù sale su ‘il monte’ (con l’articolo, non è un monte qualsiasi) come il nuovo Mosè, e si mette a parlare, ma più esattamente il testo greco narra che ‘aprì la sua bocca’, con un tipico modo di dire sapienziale. Nella grande proclamazione delle beatitudini, segno della prossimità del Regno, Gesù parla come il compimento insuperabile di tutta la Profezia e di tutta la Sapienza di Israele, e la sua parola non abolisce, ma porta a compimento la Torah di Mosè.
Su questi aspetti insiste anche il prologo giovanneo. Gesù è il Figlio Unigenito, colui che dal principio è rivolto verso il seno del Padre; solo lui lo conosce e può rivelarcelo. Non possiamo fare a meno della sua rivelazione per conoscere in verità il volto di Dio. Non ci è dato di giungervi per altre vie, che presumano di poter fare a meno di lui e della sua parola, della sua persona, della sua storia. È lui la vera manna, il pane vero che discende dal cielo per dare la vita al mondo (cfr. Gv 6).
Nello stesso tempo, come fa la Sapienza descritta dal Siracide, Gesù pone la sua tenda in mezzo a noi. Anche se traduciamo «venne ad abitare in mezzo a noi» (v. 14), il testo greco evoca espressamente questo suo attendarsi tra noi. Non solo tra noi, ma in noi, perché ora la tenda di Dio è la carne di un uomo. Ed è proprio nella debolezza, nella fragilità, nella mortalità di questa carne (sarx in greco), che noi possiamo contemplare tutta la gloria di Dio. Anche la carne dell’uomo, ciò che nell’uomo appartiene maggiormente alla terra, dalla terra viene e alla terra ritorna, diventa luogo epifanico di Dio. Non solo l’acqua sgorga dalla roccia, ma potremmo dire simbolicamente che la roccia stessa diviene acqua. E Gesù, se è manna che scende dal cielo, per Giovanni è anche roccia, pozzo che può donare alla nostra vita l’acqua vera che ci disseta in eterno (cfr. Gv 4). Innalzato sulla Croce e percosso dal colpo di lancia, così come Mosè aveva percosso la roccia, Gesù dona alla nostra sete l’acqua viva nel suo Spirito e nel suo sangue.
È lui la luce vera, quella che illumina ogni uomo (cfr. Gv 1,9). Non solo per orientare il nostro cammino, ma per consentirci di riconoscere anche nella nostra carne i segni discreti della presenza gloriosa di Dio in noi.
In principio era il Verbo, scrive Giovanni, era il Logos, la Parola. Al principio di tutto, nel disegno originario di Dio, c’è il desiderio di comunicarsi, di rivelarsi, di dialogare. E Dio sa ricorrere a molteplici linguaggi per entrare in relazione con noi: il linguaggio della storia e quello della natura, il linguaggio profetico della rivelazione e quello più universale della sapienza, il linguaggio della memoria e quello dell’attesa. Che ci sia davvero donato, come prega Paolo, uno spirito di rivelazione e uno spirito di sapienza, perché possiamo imparare ad ascoltare e a capire questi molteplici modi con cui Dio parla e si rivela, e impariamo a nostra volta a parlarli per divenire, come Giovanni, testimoni credibili della luce vera che viene nel mondo, illumina ogni uomo, senza esclusioni o restrizioni di sorta, e non è vinta, neppure quando pare che le tenebre siano incapaci di accoglierla.
Commento a cura di don Jesús Manuel García