Prima lettura: Proverbi 9,1-6
La sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne. Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola. Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: «Chi è inesperto venga qui!». A chi è privo di senno ella dice: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza».
Il brano fa parte delle tre sezioni che costituiscono il capitolo nove del libro dei Proverbi. La prima sezione (cc. 1-6), in cui viene presentata la Sapienza, è in contrapposizione con la terza (vv. 13-18) in cui viene presentata la Stoltezza. La contrapposizione fra i due personaggi femminili ha lo scopo di suscitare nei lettori la stima e l’amore per la Sapienza, in modo da desiderarne gli insegnamenti.
Due vie, due scelte si presentano all’uomo, la via della Sapienza e quella della Stoltezza ugualmente invitanti. Tuttavia esiste tra di esse una profonda differenza: l’una conduce alla vita, l’altra dirige verso gli inferi. Tocca all’uomo orientare verso l’una o verso l’altra la propria vita e assumersene responsabilmente le inevitabili conseguenze.
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Nel brano in questione è la Sapienza (in ebraico al plurale per esprimere la sua eccellenza e senza articolo per preparare meglio la rappresentazione allegorica della pericope) ad essere presentata. Agisce come una ricca signora o una regina che edifica la sua casa sorretta da sette colonne sullo stile del tipico palazzo signorile raffinato (cf. 1 Re 7,1-8). Una casa che la Sapienza apre ai suoi ospiti, con tutte le delizie che solo essa sa predisporre. Uccide, infatti, gli animali e prepara il vino imbandendo la tavola per un lauto banchetto.
Quando tutto è pronto, come la parabola evangelica degli invitati alle nozze (Mt 22,4), manda le sue domestiche (al maschile nell’originale ebraico) nei punti più alti della cittadina a fare gli inviti. È una signora importante: le ancelle vanno a chiamare gli invitati mentre la Sapienza resta in casa ad aspettare gli ospiti per poterli ricevere prontamente e con ogni onore.
L’invito a correre verso questo banchetto di saggezza è rivolto ai semplici e ai poveri in spirito, a tutti coloro che, per motivi vari, non possiedono la Sapienza, senza averla tuttavia mai volutamente rifiutata.
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Il pane e il vino, che Sapienza offre, hanno un significato simbolico, non sono altro che il suo insegnamento che va assimilato pienamente e che prefigura il cibo definitivo che Dio donerà all’umanità. Nutrirsi al banchetto preparato dalla Sapienza significherà abbandonare la fallace stoltezza, vivere in pienezza, camminare alla luce della legge di Dio e dei Profeti.
Seconda lettura: Efesini 5,15-20
Fratelli, fate molta attenzione al vostro modo di vivere, comportandovi non da stolti ma da saggi, facendo buon uso del tempo, perché i giorni sono cattivi. Non siate perciò sconsiderati, ma sappiate comprendere qual è la volontà del Signore. E non ubriacatevi di vino, che fa perdere il controllo di sé; siate invece ricolmi dello Spirito, intrattenendovi fra voi con salmi, inni, canti ispirati, cantando e inneggiando al Signore con il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo.
Il brano contiene un’esortazione a camminare nella sapienza, approfittando di tutte le occasioni per fare il bene.
Si coglie nelle parole di Paolo una certa urgenza nello spingere i fedeli di Efeso alla conversione, urgenza che nasce dalla convinzione della brevità del tempo presente e della certezza di essere nei “giorni cattivi“. Nei “giorni cattivi“, ammonisce Paolo, l’attività del maligno si intensifica, ma il Signore non farà mancare per i suoi figli più accorti occasioni propizie di salvezza.
Per vivere non da sconsiderati, ma da uomini saggi, è necessario mettersi in ascolto, attenti a comprendere la volontà di Dio. Una volontà che, normalmente, non si manifesta nel frastuono di banchetti, chiassosi e inebrianti, che distolgono il cristiano e lo attaccano al mondo presente. Al contrario, Dio fa udire la sua voce nei cuori inebriati dallo Spirito, nella comunità unita dalla preghiera, inneggiante di lode al Signore, aperta al ringraziamento e alla lode perché riconoscere dei doni ricevuti da Dio per mezzo di Cristo nello Spirito Santo.
Paolo sembra alludere a certi disordini che si verificano anche nelle assemblee cristiane, nel banchetto dell’Eucaristia, in nome della fede e dell’ispirazione spirituale, ma che in realtà distoglievano i fedeli dal camminare secondo gli insegnamenti di Cristo e da una vera vita nello Spirito.
La sapienza, sembra dire Paolo ai fedeli di Efeso, non è una dote umana che si acquista con le proprie forze o con l’esercizio di una volontà rigorosamente mortificata, ma un dono che solo Dio può dare a chi si apre ad accoglierlo con disponibilità di mente e di cuore. Un dono che nasce sempre dall’ascolto della Parola, dall’unione fraterna costruita dall’unica lode a Dio e da una vita vivificata dallo Spirito Santo.
✝ Vangelo: Giovanni 6,51-58
In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
Esegesi
Il brano fa parte del discorso che Gesù fa a Cafarnao sul pane di vita ed ha un chiaro significato eucaristico. Gesù che si era presentato al v. 35 come il “il pane di vita“, ora (v. 51) si autoproclama “pane vivo, disceso dal cielo“, con un più chiaro ed esplicito riferimento dell’evangelista all’Eucaristia.
Mangiare “il pane vivo” dona l’accesso alla vita eterna, acceso che secondo il v. 40 era spalancato dalla fede, ma che ora è garantito dal mangiare questo pane. Il pane vivo è la carne di Gesù data per la vita del mondo.
In Giovanni 1,14 si era parlato dell’entrata della Parola nel mondo in termini di “diventare carne”. È questa stessa carne che ora sarà data agli uomini come il pane vivo. Il versetto 51 ci presenta due realtà tra di esse parallele: da un lato guarda infatti all’Incarnazione, evento in cui il Verbo ha assunto una connotazione storica facendosi carne, dall’altro contemporaneamente richiama la morte di Gesù, evento in cui Egli darà la sua carne per la vita del mondo.
Giovanni, a differenza dei Sinottici che nei racconti dell’ultima cena parlano di “corpo”, usa il termine “carne”, e poiché non esiste una parola ebraica o aramaica per corpo, Giovanni si presenta come lo scrittore più vicino al linguaggio eucaristico di Gesù. Tuttavia il termine ha una certa crudezza realistica e si oppone sia ad ogni eccesso di spiritualizzazione della umanità di Gesù, sia da ogni eccessiva spiritualizzazione della realtà della carne e del sangue eucaristici e non fa concessioni alla sensibilità ebraica che trovava ripugnante mangiare la carne e bere il sangue.
Gli effetti salvifici, che hanno avuto inizio con l’incarnazione del Verbo e si sono compiuti con la sua morte redentrice, si prolungano ora con la partecipazione sacramentale all’Eucarestia. Nutrirsi della carne di Gesù e bere il suo sangue dona l’intimità con il Verbo incarnato (6,56), il possesso della vita eterna (6,53), la risurrezione nell’ultimo giorno (6,54),
l’immortalità (6,58).
Chi riceve con fede il corpo e il sangue di Cristo nell’eucaristia, rimane in Gesù e questi dimora in lui (6,56). L’intimità tra il Signore e il discepolo con l’eucaristia diventa tanto profonda, che questi vive per il Cristo come il Verbo incarnato vive per il Padre (6,57). Come Gesù ha ricevuto la vita da Dio e in lui ha il fine della sua vita, così chi partecipa all’Eucaristia ha in Cristo lo scopo della sua esistenza.
Per Giovanni il possesso della salvezza messianica piena e perfetta dipende anche dal ricevere l’Eucaristia: attraverso questo sacramento si entra in contatto vitale e personale con il Verbo incarnato, dal quale si riceve la vita eterna.
Anche l’immortalità è concessa a chi si alimenta con il pane vivo che è Gesù. Il quarto evangelista, presentando Gesù come il pane della vita che dona l’immortalità, rievoca l’immagine dell’albero della vita nel paradiso terrestre (Gen 2,9, 3,3.22) adoperando espressioni molto simili. Giovanni presenta il Verbo incarnato come la persona divina che realizza il desiderio più profondo dell’uomo dall’inizio della sua storia donando la vita e l’immortalità purché l’uomo creda in lui e si nutra della sua carne e del suo sangue nel banchetto sacramentale che anticipa quello nel regno di Dio.
Il brano si conclude (v. 58) con la notazione della morte dei padri che morirono pur mangiando la manna, invece il pane che viene dal cielo dà la vita escatologica che non conosce morte.
Meditazione
Nel capitolo sesto, tanto nel gesto che Gesù compie quanto nelle parole che lo interpretano, confluiscono tutte le tradizioni che costituiscono il Primo Testamento, che secondo la tradizione ebraica si compone della Tôràh di Mosè, dei Profeti e degli Scritti. In ciascuna di queste tradizioni è ben presente il tema del pane, come simbolo eloquente della rivelazione di Dio e del suo prendersi cura della vita degli uomini. La manna nel deserto che Dio dona per mezzo di Mosè, il banchetto escatologico promesso dai profeti, l’invito della Sapienza a cercare il vero alimento che consente di vivere: sono solo alcuni esempi che testimoniano come tutte le Scritture risuonino in questo capitolo sesto del IV Vangelo.
La liturgia stessa, in queste domeniche, ci ha fatto ascoltare alcuni di questi testi nella prima lettura: le figure profetiche di Eliseo ed Elia rispettivamente nella XVII e nella XIX domenica; il racconto della manna secondo Esodo 16 (uno dei libri della Tôràh) nella XVIII domenica; il testo sapienziale di Proverbi 9 (uno degli Scritti) in questa XX domenica. Davvero in Gesù si compiono tutte le promesse di Dio al suo popolo, variamente attestate: è lui il nuovo Mosè che dona il pane vero che discende dal cielo e che fa vivere, a differenza della manna di cui si cibarono i padri, che pure sono morti (cfr. v. 58); è lui che imbandisce nel deserto il banchetto escatologico promesso dai profeti, al quale possono sfamarsi tutti, non solo i presenti, poiché il pane viene raccolto e custodito anche per chi non c’è; è lui la Sapienza di Dio attraverso cui il Padre ci istruisce per condurci alla vita eterna. Eppure, il compiersi di queste promesse rimane esposto al fraintendimento e al rifiuto.
Nel capitolo sesto assistiamo infatti a un progressivo indurimento del cuore, che chiude sempre più radicalmente nell’ostinazione e nell’incapacità di accogliere il dono di Gesù, o meglio quel dono che Gesù stesso è. Il brano evangelico proclamato nella scorsa domenica ci ha mostrato i Giudei mormorare di fronte alla pretesa di Gesù di essere il pane disceso dal cielo, mentre loro ne potevano facilmente esperire la realtà umana, il suo venire da Giuseppe, da un padre e da una madre di cui tutti conoscevano il nome, il volto, la storia.
Oggi la mormorazione si aggrava e diviene un «discutere aspramente fra di loro» (in greco machomai evoca il combattimento, la lotta), di fronte alla pretesa ancora più forte di Gesù – così doveva suonare ai loro orecchi – di dare la propria carne da mangiare per la vita del mondo. Allo scandalo dell’incarnazione succede uno scandalo maggiore, la promessa di una vita donata dalla ‘carne’, che nella mentalità biblica allude all’uomo colto nella sua dimensione di povertà, fragilità, impotenza. Come può la ‘carne’, che è appunto la persona umana nel suo bisogno radicale di essere salvata, divenire sorgente di vita e di salvezza?
E come è possibile mangiare di questa carne? Per comprendere appieno la portata dello scandalo suscitato dalle parole di Gesù non è necessario intendere il verbo ‘mangiare’ nel suo significato più immediato ed elementare, come se Gesù proponesse una sorta di antropofagia o di cannibalismo. I suoi interlocutori erano bene in grado di capire la portata metaforica tanto del verbo ‘mangiare’ quanto del sostantivo ‘carne’. Un mangiare da intendersi come un entrare in comunione vitale e vivificante con una carne mortale. Ma anche in questa prospettiva lo scandalo non viene meno, anzi, se possibile, si amplifica.
Com’è possibile infatti pensare di attingere quella vita piena e durevole, di cui tutti abbiamo fame e sete, a una ‘carne’ che condivide la nostra stessa povertà, il nostro limite, la nostra caducità mortale? E tutto sommato più facile riconoscere affidabile l’invito della Sapienza, come risuona nella prima lettura: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato» (Pr 9,5). Un pane ‘altro’ rispetto a quello al quale siamo abituati ogni giorno, un vino preparato dalla Sapienza stessa di Dio, che condivide la sua gloria e la sua trascendenza.
Anche la manna donata nel deserto aveva suscitato la sorpresa degli israeliti, che non la conoscevano e si domandavano man hu, «che cos’è?» (cfr. Es 16,15). Proprio questo suo non essere immediatamente riconducibile all’esperienza umana, al già saputo, la rendeva segno affidabile della cura provvidente di Dio. Davvero era un pane disceso dal cielo. Ma il pane che Gesù promette come vero cibo è la sua carne, in tutto simile alla nostra, tanto che di lui conosciamo il padre e la madre come ciascuno di noi conosce i propri genitori. Una carne del cui limite tutti facciamo esperienza e che ora ci verrebbe promessa come garanzia di vita eterna! A questo livello si colloca lo scandalo più profondo dei Giudei, come pure il nostro.
Ben sappiamo, peraltro, che nel simbolo di una carne offerta per la vita del mondo va riconosciuto un linguaggio eucaristico. Che ora, per la prima volta nel dialogo, all’immagine del pane o della carne Gesù associ quella del sangue (v. 53), rafforza il significato sacramentale delle sue parole. Ancora una volta, tuttavia, questa consapevolezza non affievolisce lo scandalo, ma lo reduplica. L’eucaristia è infatti memoria della Pasqua di Gesù; memoria di quel suo attrarre alla vita piena perché egli accetta di essere innalzato sulla Croce; memoria della promessa di risurrezione perché è disposto a cadere nella terra, come un chicco di grano che muore per non rimanere solo. A donarci la vita eterna è questo ‘mangiare’, vale a dire entrare in comunione non solo con la carne fragile di Gesù, ma addirittura con questa sua carne crocifissa, offerta fino alla morte su quel patibolo infame e infamante.
Questo è il modo con cui Gesù ci comunica la vita. Questo è l’invito più preciso che rivolge alla nostra libertà, decidere di essere in comunione con lui non solo attraverso lo scandalo dell’incarnazione, ma attraverso un’incarnazione che giunge fino allo scandalo della Croce. Mangiare la sua carne e bere il suo sangue significa dunque lasciarsi attrarre nella comunione con l’Innalzato. Esige di credere che proprio in questo modo Dio ci comunica la vita. Ancora di più, ci sollecita a riconoscere la misteriosa qualità di questa vita di Dio che Gesù desidera donarci: una vita che è tale perché è totalmente attraversata dalla logica dell’offerta e del dono di sé. Solo una carne offerta, donata, comunica la vita eterna. Altrimenti, come dirà Gesù subito dopo, «la carne non giova a nulla» (v. 63). È lo Spirito che da la vita, è lo Spirito che vivifica la carne e la rende sacramento di salvezza, perché è lo Spirito a fare di Gesù una carne totalmente consegnata nelle mani del Padre, nell’obbedienza alla sua Parola, e totalmente consegnata nelle mani degli uomini, nell’offerta di se stesso perché tutti abbiano vita e nessuno vada perduto.
Un mangiare e un bere, inoltre, che evidenziano due aspetti peculiari di questa comunione che ci viene offerta e nella quale consiste precisamente la vita eterna. Mangiare il pane allude in primo luogo a qualcosa di cui abbiamo assolutamente bisogno per vivere; in secondo luogo evoca un’assimilazione interiore, che fa sì che il cibo che mangio diventi in qualche misura ciò che sono, carne della mia carne. Facendosi pane per la nostra vita Gesù obbedisce a questa dinamica antropologica e nello stesso tempo la conduce oltre se stessa, fin dentro il mistero della vita divina. La comunione si fa intima e interiore: noi rimaniamo in lui e lui in noi (v. 56). Diviene qualcosa di indispensabile: viviamo per lui. Un per che dice sia origine sia finalità, o compimento: riceviamo la vita da lui e la vita altro scopo non ha che compiersi in lui.
Tutto questo obbedisce peraltro alla logica di un come: «Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me» (v. 57). Rimanendo in comunione con Gesù, dimorando in lui come lui dimora in noi, entriamo in quello spazio di vita compiuta che è la relazione stessa, il dialogo di amore che c’è da sempre tra il Padre e il Figlio. Uno spazio che è dono inesauribile e reciproco: tutto il Padre dona al Figlio e il Figlio vive del dono del Padre e in vista di lui. Ma questa reciprocità non si chiude su se stessa, si apre, ci raggiunge, ci attira nel suo stesso movimento di amore infinito: così anche colui che mangia me vivrà per me!
Commento a cura di don Jesús Manuel García