Prima lettura: Malachia 3,19-20
Il libretto di Malachia pare si concluda con l’annunzio del giorno del Signore, quale risposta al lamento di alcuni israeliti (3,19-21). Questi si rammaricano di fronte al problema del male in questo mondo: «che vantaggio ne abbiamo dall’aver osservato i comandamenti, se i superbi, pur provocando Dio, restano impuniti?» (3,14s). Il Signore mostra loro «il suo Libro delle memorie», secondo cui coloro che temono Dio saranno «sua proprietà nel giorno che Lui prepara», giorno di luce per i giusti, di fuoco e di cenere per gli empi (3,19-21). L’opera di Ml impostata sopra una serie di 6 dialoghi tra Dio e varie categorie di fedeli
sembra termini qui con quest’ultima dichiarazione del Signore. I versi che seguono (3,22-24) sul ritorno del profeta Elia probabilmente sono dovuti a un redattore finale con l’intento di chiudere più serenamente i vaticini del messaggero di JHWH (3,1).
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Note esegetiche. – «Ecco: sta per venire il giorno rovente come un forno» (v. 19). Si tratta del giorno escatologico: l’era già preannunziata da antecedenti profeti (Am 5,18-20; Gl 2,1-3; Sof 1,7-18…), in cui si attendeva un intervento decisivo e grandioso del Dio d’Israele, descritto con termini immaginari delle teofanie e dei grandi sconvolgimenti della natura e della storia. L’immagine del fuoco ardente di una fornace (Is 31,9), che brucerà la paglia e ridurrà in cenere radici e rami da l’idea esatta dell’ineluttabile giudizio divino; esso abbatterà gli orgogliosi (zedîm, nel senso di arroganti: 3,15), coloro cioè che osano provocare l’Altissimo (v. 15) e gli operatori di iniquità, in opposizione ai giusti che hanno osservato i comandi del Signore (3,14); di essi non resterà nulla, come viene efficacemente confermato dalla doppia metafora: bruciatura della paglia e incenerimento di rami e radici (cf. Gb 18,16s), vale a dire scomparsa di eredi, di genitori e di loro aderenti.
— «Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia» (v. 20). Lett. «voi, che avete timore del mio nome», cioè che venerate il supremo Signore (il nome, nel concetto ebraico, sta in vece della persona), e quindi ne adempite di voleri (cf. Dt 3,14; 10,12…). L’immagine del sole alato, radioso, era molto diffusa nella simbolica orientale: la si trova nelle stele egiziane, nei sigilli e monumenti di Siria: rappresentava il fulgore della Divinità (come il dio Râ per l’Egitto), difensore del diritto e apportatore di benessere. Il profeta la utilizza per descrivere l’intervento del Dio giusto e Salvatore a favore dei suoi eletti, in sintonia con precedenti espressioni bibliche. Il sorgere del sole era indice del nuovo giorno, e di una vita rinnovata, come in Is 30,26: la luce del sole apparirà, quando Dio verrà a risanare il suo popolo. La giustizia solare non sarà solo il ristabilimento dell’ordine e dell’equità, ma la sedaqah isaiana, cioè l’attuazione dell’alleanza divina, la restaurazione della pace, la salvezza piena (Is 41,2; 46,13; Sal 22,32). Ma più espressamente viene detto che il sole sarà apportatore di guarigione. La frase della trad. CEI «con raggi benedici», a parola può essere resa con «recante guarigione nelle sue ali»: la radice rafa’ ebraica ha il senso fondamentale di «risanare da un’infermità». Il sole divino in quel giorno avrebbe conferito ai cultori dell’Onnipotente la liberazione da tutte le loro piaghe (cf. Ger 33,6; Is 57,18s): non solamente quindi pace e salvezza nella mente e nel cuore, ma una restaurazione integrale in tutto l’essere umano, anche corporale; con tenue accenno, forse, alla riabilitazione dal sepolcro secondo il Salmo 16,10.
Il portavoce del Dio vivente ha offerto così ai suoi uditori, e in loro anche a noi, la più confortante rassicurazione per quanto riguarda il ricorrente problema dell’arroganza dei malvagi in questo nostro mondo: una parola indefettibile, «dice il Signore degli eserciti» (v. 19), confermata dal Salvatore divino: «cielo e terra passeranno, le mie parole mai» (Lc 21,33); nel «Libro delle memorie» è già indelebilmente segnato il giorno di fuoco e il sorgere del sole sfolgorante, il giudizio cioè del Signore supremo, che farà tacere per sempre la provocazione e la prepotenza, mentre il fulgore del suo volto ricoprirà di gloria imperitura chi lo ha servito fedelmente.
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Seconda lettura: 2Tessalonicesi 3,7-12
Al termine della 2a lettera ai tessalonicesi S. Paolo sta dando le raccomandazioni finali, ribadendo quel che aveva già detto nella prima (1Ts 4,7-12: vivere nella santità e nella carità fraterna, procurandosi con l’onesto lavoro il proprio sostentamento). Forse gli era arrivata qualche specifica notizia su quest’ultimo argomento: vi erano in comunità individui che si comportavano disordinatamente contro le direttive già date (v. 6), andavano in giro, diffondendo pettegolezzi e pretendendo di assidersi alla mensa degli altri. L’apostolo ha l’occasione di esporre più distintamente il suo pensiero in proposito.
Note esegetiche. – «sapete in che modo dovete prenderci a modello» (v. 7).
Propone anzitutto il suo esempio, quale apostolo inviato da Cristo. Egli avrebbe avuto certamente il diritto a ricevere dai fratelli la sua ricompensa, come ha disposto lo stesso Maestro divino: «chi annunzia il Vangelo, viva del Vangelo» (1Cor 9,14; Mt 10,9; Lc 10,7). Tuttavia non se ne è avvalso (cf. però Fil 4,15), vi ha rinunziato liberamente (1Cor 9,15) e non è stato mai in ozio tra i fratelli che evangelizzava, ma si è dato da fare esercitando il suo mestiere manuale durante il giorno e, se occorreva, anche di notte (probabilmente si trattava dell’arte di tessitore di tende). Per i greci il lavoro fisico era un disonore: l’uomo libero lo riservava agli schiavi. I rabbini invece lo apprezzavano molto. L’apostolo di Cristo, pur non essendo obbligato, lo esercita con una speciale motivazione: non poteva essere disprezzato dai credenti di origine greca, perché egli assumeva quelle fatiche per sua libera scelta; e allo stesso tempo era di esempio e di incitamento a tutti coloro ai quali inculcava di vivere decorosamente con il proprio lavoro.
— «A questi tali… ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità» (v. 12).
Non si contenta di dimostrare il suo comportamento, ma aggiunge un preciso comando; impegna la sua autorità di rappresentante di Cristo, «nel nome del Signore Gesù». Egli non obbliga nessuno a esercitare l’apostolato del tutto gratuitamente; ma adesso si tratta di veri abusi: di gente che invece di evangelizzare, va suscitando malintesi e contrasti e pretende di farsi mantenere dalle stesse comunità che sta disgregando! Paolo si sente in dovere di intervenire energicamente: costoro la finiscano di andare in giro a danno degli altri e imparino a trovar di che vivere dalla propria fatica (vv. 11 s); e diversamente, siano tenuti lontani dei comuni rapporti, pur guardandoli sempre come fratelli (vv. 14s).
In conclusione, il pensiero dell’apostolo è chiaro. L’operaio evangelico è «degno della sua mercede» (Lc 10,7). Egli tuttavia, se vuole, può rinunziarvi nei limiti consentiti dalle sue attività apostoliche, per rendersi indipendente col proprio lavoro dalla comunità che evangelizza. A nessuno però che ha accettato di impegnarsi nel ministero del culto e della parola, è lecito vivere in ozio, senza attendere ai compiti assunti, o peggio seminando discordie e liti, e pretendere di essere sostentato dai fratelli nella fede; si trovi, in tal caso, un’onesta occupazione e si comporti con dignità e in pace con tutti! Una saggia esortazione che è valida e opportuna anche per i nostri tempi!
Vangelo: Luca 21,5-19
Esegesi
Il nostro brano fa parte del discorso escatologico con cui Luca conclude il suo Vangelo prima del racconto della Passione, (21,5-36). Ha molte somiglianze con l’analogo discorso di Marco (Mc 13,1-34); ma se ne allontana in tratti significativi. Ne possiamo dedurre una visione più chiara degli eventi cui ci si riferisce, e delle raccomandazioni date dal divin Maestro in quelle circostanze. L’occasione dell’intero discorso (divisibile in due parti: a- vv. 5-19; b- vv. 20-36) è offerta dalla richiesta di alcuni sull’epoca precisa della distruzione del Santuario ebraico: «quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno» (v. 7).
Note esegetiche. – La risposta di Gesù, in Lc, 1a parte, viene presentata con immagini apocalittiche e insieme con indicazioni molto concrete. L’evento preannunziato sarà così terribile che lo stesso Gesù nel richiamarlo in Lc 19,41-44 non poté frenare il pianto; e per descriverlo adeguatamente ha fatto ricorso agli scenari sconvolgenti con cui i profeti predicevano i grandi disastri collettivi del loro tempo: «vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo» (Lc 21,11); cf. Is 24,18 «le cateratte dell’alto si aprono, si scuotono le fondamenta della terra»; Ez 32,7s: «quando cadrai, oscurerò il sole e gli astri…»; per la caduta dell’Egitto e di Babilonia.
Mentre però Mc (con Mt) pone al primo posto come segni precursori l’apparire dei falsi messia, le guerre, le pestilenze, le catastrofi naturali, e poi in secondo luogo le persecuzioni dei discepoli del Cristo, (Mc 13,9; Mt 24,9), Luca capovolge la situazione: «Ma prima di tutto questo (fenomeni terrificanti) metteranno le mani su di voi » (Lc 21,13): si verificheranno cioè le violenze e le calunnie contro i predicatori del Vangelo, « traditi perfino dai genitori…. sarete odiati da tutti a causa del mio nome» (vv. 16s). Ma subito Gesù si premura di rassicurare i suoi amici: nulla varrà a turbare la loro pace, «nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto» (v. 18); nessuno potrà fare loro alcun male, contro il volere del Padre; si fidino totalmente di Lui, e conseguiranno sicuramente la vera salvezza nel suo Regno: «Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita» (v. 19). L’asprezza delle persecuzioni dei discepoli e il desiderio di premunirli contro ogni paura e scoraggiamento sembra predominare nell’attenzione del divino Maestro sul punto di lasciare quaggiù il suo piccolo gregge.
Nella 2a parte, poi, del discorso (vv. 20-36) il Maestro dà un’indicazione molto concreta del segno rivelatore richiesto: l’assedio della città santa, nominata qui 2 volte (vv. 20-24), da parte di eserciti nemici. In Mc e Mt si parla solo di «presenza dell’abominazione sul luogo sacro, dove non deve» (Mc 13,14; Mt 24,15), senza che mai si nomini Gerusalemme.
Simultaneamente Gesù ha aggiunto nuovi avvertimenti per i suoi amici: fuggano sui monti, si allontanino dai dintorni della città, poiché Gerusalemme sarà calpestata dai pagani e il suo popolo sarà disperso tra le genti… vedranno allora il Figlio dell’uomo venire sulle nubi… e avvicinarsi il regno di Dio, il suo giudizio e la liberazione dei suoi fedeli e testimoni… (vv. 21-24.31.36).
Si delinea così in Lc 21, nei riguardi degli eventi preannunziati da Gesù nel suo ultimo discorso, una prospettiva più chiara, che negli altri due sinottici (Mt 24; Mc 13). Primo fatto premonitore sarà l’accanita persecuzione contro gli evangelizzatori del Cristo risorto (vv. 12-17; cir. At 4-12); seguiranno grandi calamità e rivolgimenti tra i popoli, designati già con termini escatologici (vv. 9-11 «con grandi segni dal cielo»); e infine l’assedio di Gerusalemme a opera delle legioni romane, che segnerà l’inizio della più tragica catastrofe del popolo ebreo, l’incenerimento del Tempio e la dispersione tra le genti: come si è esattamente verificato nel 70 d.C. Fu come lo sfacelo del cosmo e il ricadere nel buio primordiale: «vi saranno segni nella luna e nelle stelle… le potenze dei cieli saranno sconvolte» (vv. 25s).
Molto probabilmente il Signore Gesù ha inteso parlare direttamente solo della completa rovina del Santuario e, in più, della diaspora del popolo ebreo per il mondo; e ovviamente l’ha fatto con lo stile ben noto dei vaticini biblici; in modo da consegnare ai suoi discepoli le più opportune direttive per le difficili prove che li attendevano. Ne abbiamo un parallelo anche nel discorso di addio nel Vangelo di Giovanni: «hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi… tutto questo vi faranno a causa del mio nome (Gv 15,20s); vi scacceranno dalle sinagoghe… chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio… vi ho detto queste cose perché, quando verrà la loro ora, ricordiate che ve ne ho parlato» (Gv 16,2.4). E in Lc 21 vien detto: «vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza… (vv. 12s); quando vedrete accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina… (v. 28); vegliate e pregate, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere» (vv. 28.36).
Era una pressante esortazione agli uditori a non farsi travolgere dalle vicissitudini e dalle opposizioni del mondo, a perseverare nella fede in Lui, nella coraggiosa proclamazione del suo Vangelo d’amore tra le genti, e nella ferma speranza di raggiungerLo nella gloria imperitura della sua risurrezione.
Poiché però nel piano del Rabbì di Nazaret il Vangelo del regno doveva essere predicato a tutti i popoli della terra fino alla consumazione dei secoli (Mc 16,5; Mt 28,19s), quel che egli diceva a quei primi suoi seguaci intendeva certamente raccomandarlo a coloro che avrebbero creduto in Lui per la loro testimonianza (Gv 17,20), nelle situazioni di disagio e di persecuzione che si sarebbero riprodotte nelle successive generazioni.
Meditazione
Il messaggio escatologico di questa domenica comprende l’annuncio della venuta del giorno del Signore che sarà di giudizio per gli uni e di salvezza e guarigione per altri (I lettura) e un’esortazione alla perseveranza e alla vigilanza rivolta da Gesù ai suoi discepoli e, attraverso di loro, ai futuri credenti, affinché non si lascino prendere dalla paura e dall’angoscia della fine di fronte a eventi catastrofici e a persecuzioni (vangelo). Lungi dall’essere segno di una pretesa imminente fine del mondo, questi eventi vanno accolti come occasione di martyría (Lc 21,13), di testimonianza. Nel testo evangelico odierno non si tratta della fine del mondo, ma di ciò che avviene «prima» (Lc 21,9.12), nella storia, che appare così il tempo della faticosa perseveranza.
Luca sottolinea la diversità di sguardo che Gesù da una parte e «alcuni» dall’altra portano sul tempio. Se questi sconosciuti e innominati ammirano la dimensione estetica delle «belle pietre» (Lc 21,5) del tempio e i doni votivi che lo adornano, Gesù ne vede con sguardo disincantato e lucido la fine prossima. Come il tempio (e il suo sistema di offerte e di santificazione), anche tutte le costruzioni e realizzazioni più sante e spirituali dell’uomo sono caduche, finite. Non sono esse a dover trattenere lo sguardo e l’attenzione, ma il Signore che viene e di cui esse vogliono essere solo un segno.
Nei tempi della storia il cristiano deve allenarsi al discernimento.
Anzitutto il discernimento come opposizione all’inganno. Occorre infatti riconoscere i «molti» che si presenteranno come detentori della verità e portatori della rivelazione, che usurperanno il titolo solo cristologico «Io sono» (Lc 21,8) per indurre qualcuno a seguirli. Lo spazio religioso ed ecclesiale è anche scenario di inganni e di imposture che si manifestano anzitutto con la loro pretesa di verità assoluta e non discutibile. Il cristiano è chiamato a discernere e a saper dire dei no: il comando «non seguiteli» è altrettanto forte del comando dato altre volte da Gesù: «seguitemi». Occorre sempre diffidare di chi pretende di sapere quale sia la volontà di Dio sulle persone e imporla loro.
Inoltre si tratta di discernere guerre e sommovimenti storici, così come catastrofi e disastri naturali, senza pensarli come eventi annunciatori della fine del mondo (Lc 21,9-11). Il discernimento qui è attiva lotta contro la paura e la potenza inibente del terrore ( «Non vi terrorizzate»: Lc 21,9). E conduce all’umiltà di chi riconosce che il proprio tempo non è la totalità del tempo, che la propria vicenda non è la totalità della storia e che la propria fine non coincide con la fine di un tempo e di una storia che superano ciascun uomo.
La storia diviene così per il credente il luogo di esercizio della perseveranza e della pazienza. Persecuzioni e tradimenti, ostilità anche da parte degli amici e dei famigliari potranno segnare la vita di coloro che aderiscono al Messia Gesù, ma grazie alla sofferta perseveranza essi potranno custodire la loro anima (Lc 21,19). Mentre esperimentano la fine di relazioni e fedeltà, mentre intravedono la loro stessa fine, essi possono conoscere la salvezza delle proprie vite e trarre come bottino, dalla battaglia che la vita e la storia impongono loro, la loro anima (cfr. Ger 45,5).
Ci sono tempi difficili e bui in cui al credente è chiesto semplicemente di resistere, di rimanere saldo, di custodire l’interiorità di mantenere la fede, di salvaguardare la propria umanità, di preservare la propria anima dal caos e dalla confusione. E questo sarà come chicco di grano caduto a terra che darà frutto. Scrisse Dietrich Bonhoeffer in tempi particolarmente duri e difficili dal carcere di Tegel nel 1944: «Noi dovremo salvare, più che plasmare la nostra vita, sperare più che progettare, resistere più che avanzare. Ma noi vogliamo preservare a voi giovani, alla nuova generazione, l’anima con la cui forza voi dovrete progettare, costruire e plasmare una vita nuova e migliore». La perseveranza che salva l’anima non è dunque nulla di intimistico, ma atto della responsabilità storica di chi osa pensare il futuro oltre e dopo di lui.
Commento a cura di don Jesús Manuel García