Esegesi e meditazione alle letture di domenica 1 Gennaio 2023 – don Jesús GARCÍA Manuel

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Prima lettura: Numeri 6,22-27

La prima lettura, ripresa come al solito dall’A.T., contiene la solenne benedizione che Aronne e i suoi figli dovevano dare al popolo al termine delle funzioni liturgiche o dei sacrifici. Nel libro del Levitico 9.22 si parla della benedizione del solo Aronne al popolo, al termine dei sacrifici che caratterizzavano l’investitura del sommo sacerdote. Secondo la tradizione rabbinica posteriore, la benedizione si impartiva ogni giorno, dopo il sacrificio della sera.

E il contenuto della benedizione è semplice e solenne nello stesso tempo. In una triplice ondata, la benedizione si va allargando da 3 a 5, a 7 parole, nell’originale ebraico. Anche il contenuto della benedizione si va allargando e approfondendo: dalla semplice benedizione perché il Signore “ti protegga”, si passa allo splendore luminoso e consolante del “volto” di Dio, fino alla invocazione del dono ultimo della “pace” (7,24-26).

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E noi sappiamo che la “pace” (in ebraico shalóm) è per la Bibbia non un dono soltanto, ma un po’ la “somma”, la “pienezza” di tutti i beni. Proprio per questo, oggi soprattutto, vogliamo pregare la Santa Madre di Dio perché illumini la mente di tutti gli uomini nella ricerca della vera “pace”. Ne abbiamo soprattutto bisogno in questo tormentato periodo della storia del mondo. Che davvero «il Signore rivolga su di noi il suo volto e ci conceda pace» (6,27), come abbiamo appena ascoltato!

Seconda lettura: Galati 4,4-7

La seconda lettura è ripresa da un breve passo della Lettera ai Galati in cui Paolo ricorda la “madre” di Gesù, direi quasi di passaggio: talmente egli e preso dalla figura di Gesù, che il resto gli appare come secondano!

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Il testo è carico di teologia e meriterebbe di essere approfondito: noi qui diremo solo quello che in qualche maniera ci rimanda alla solennità di oggi. Ecco il testo: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mando il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge […] perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4-5).

L’espressione “nato da donna” vuole sottolineare la realtà dell’umanizzazione di Cristo, ed è generica: non c’è, a nostro parere, un qualche velato accenno alla concezione verginale di Cristo, come qualcuno ha voluto pensare Paolo è tutto preso dall’evento “Cristo”, che è venuto in mezzo a noi per farci dono della “filiazione” adottiva: «perché ricevessimo l’adozione a figli» (4-5).

E questa grande “rivelazione” della nostra adozione a “figli” di Dio, “in Cristo” è qualcosa che viene interiormente testimoniato dalla presenza in noi dello “Spirito Santo”, che ci apre il cuore alla fede e all’amore. Senza il “tocco” dello Spirito non avvertiremmo che Dio ci è “padre” e, in Cristo, ci ha come introdotti nella sua famiglia! Sembra quasi che qui Paolo stesso si commuova davanti alle sue stesse affermazioni: «E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: Abbà! Padre!» (4,6).

L’appellativo “Abbà” è una formula confidenziale, in lingua aramaica antica, tipica del linguaggio familiare dei bambini, e che Gesù stesso ha adoperato per rivolgersi al Padre nella preghiera del Getsemani: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice!» (Mc 14,36).

Mediante lo Spirito che inabita in noi, e che il Risorto ci ha inviato, ci rivolgiamo anche noi al Padre perché ascolti la nostra preghiera e ci guardi come suoi “figli”: «Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio» (4,7). L’ultima espressione ci trasferisce addirittura fuori del tempo, proiettandoci nell’eternità che ci attende: «Se figlio, sei anche erede per grazia di Dio». C’è solo da stupirsi e da gioire!

Vangelo: Luca 2,16-21

Esegesi

Se passiamo adesso al Vangelo, incontriamo il Vangelo di Luca che, come sappiamo, fornisce notevoli notizie relative all’infanzia di Gesù, dove Maria gioca un ruolo particolare, più marcato che in Matteo, dove agisce invece in primo piano Giuseppe, il padre putativo.

Dopo averci descritto, nei versi che precedono (Lc 2,8-15), l’apparizione dell’angelo ai pastori con l’annuncio della nascita di «un Salvatore, che è il Cristo Signore» (2,11), nel brano odierno si descrive la loro pronta risposta al lieto annuncio: «Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere» (2,15).

Se un insegnamento c’è da trarre da tutto questo, è la “prontezza” dei pastori nel l’accettare l’invito dell’Angelo. È quanto sottolinea il testo evangelico di oggi proprio all’inizio: «Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia» (2,16). Quello che in italiano è stato tradotto “senza indugio”, letteralmente in greco significa qualcosa di più forte, e cioè “con premura, con diligenza” andarono: comunque, in sostanza, rende il testo che vuole evidenziare la premura con cui i pastori seguono l’indicazione dell’angelo.

Alla visione del bambino, essi si resero conto della verità delle cose dette loro dall’angelo e si fecero subito “comunicatori” di quella grande notizia di salvezza.

A questo atteggiamento “comunicativo” dei pastori l’Evangelista mette a confronto l’atteggiamento “meditativo” di Maria, che «da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (2,19). Anch’essa si trova davanti a qualcosa, che la trascende e la stupisce!

Non è soltanto il desiderio o la gioia di ricordare cose belle, da parte di Maria, ma soprattutto lo sforzo di penetrare il “mistero” stesso delle cose: soprattutto il “mistero” di quel Figlio, attorno al quale già si muove l’attenzione degli uomini, a partire però dagli “ultimi”, come di fatto erano i “pastori”, che facevano un mestiere già di per se stesso considerato “impuro”.

Eppure proprio di queste umili persone si serve il Signore come di “annunciatori” del mistero dell’Incarnazione del suo stesso Figlio: «I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro» (2,20).

A conclusione del brano del Vangelo, si descrivono degli “adempimenti”, che la legge mosaica prescriveva per i figli maschi: come l’obbligo della circoncisione entro otto mesi dalla nascita, come segno di appartenenza al popolo di Dio, e l’imposizione del “nome”, che per Gesù era già stato suggerito dall’angelo al momento dell’annunciazione (1,31). È precisamente quello che si legge a conclusione dell’odierno brano di Vangelo: «Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo» (2,21).

E tutti sappiamo come, presso gli Ebrei, abbia una grande importanza il “nome”, nel senso che nel nome si vuole esprimere quello che uno dovrà essere o esprimere nella propria vita. Infatti Gesù vuol dire, in ebraico: “Dio è salvezza”!

Meditazione

I temi teologici evocati in questa giornata (divina maternità di Maria, circoncisione e imposizione del nome a Gesù) si sintetizzano nel farsi carne in Gesù della benedizione di Dio, e tra i frutti delle benedizione vi è la pace (I lettura). Alcune parole del Cardinale Lercaro esprimono bene la dimensione d’istologica della pace come dono di Dio e compito degli uomini: «La pace è la stessa salvezza messianica, congiunta e operata da un’effusione dello Spirito. Ciò è confermato dal Nuovo Testamento, dove Cristo stesso è personalmente la nostra giustizia e perciò la nostra pace; da qui deriva l’ordine e la pace reciproca tra gli uomini: essa infatti non può essere che risonanza dell’amore gratuito e misericordioso di Dio, dagli uomini sperimentato nel perdono delle proprie colpe. E quindi, non potrà non essere perdono reciproco».

Mentre celebrano la divina maternità di Maria, le letture trovano nella paternità di Dio nei confronti di Israele (I lettura), di Gesù (vangelo) e dei cristiani (II lettura) un loro elemento di unità. La benedizione, che nella famiglia ebraica è normalmente opera paterna, risale in ultima istanza a Dio Padre e raggiunge i figli d’Israele attraverso mediatori umani come padri di famiglia e sacerdoti («Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò »: I lettura); il nome imposto al bambino proviene dal cielo, dall’alto, cioè da Dio Padre (vangelo); lo Spirito del Figlio effuso nel cuore dei credenti suscita in loro l’invocazione «Abbà! Padre!» (II lettura).

«Gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo» (Lc 2,21). La frase contiene l’affermazione che il nome con cui Gesù è chiamato viene dall’alto, da Dio. Come Gesù nasce dallo Spirito santo, così il suo nome viene da Dio Padre. Dio conosce Gesù (Mt 11,27), cioè lo ama (Gv 3,35); Dio conosce Gesù e la conoscenza si esprime come dono del nome: Dio «nomina» Gesù e donandogli il nome lo chiama e chiamandolo lo destina a una missione. Una missione che nasce dall’amore, si manifesta come amore e sfocia nell’amore. «Gesù», «il Signore salva», è il nome che dice che l’amore di Dio è salvifico e che la salvezza passa attraverso l’amore e si declina come amore. Compito di Gesù sarà di vivere il suo nome, la sua unicità, la sua vocazione particolarissima: così Gesù vivrà l’amore e narrerà il Dio il cui nome è Amore (1Gv 4,8.16).

Nato in un luogo preciso, in una famiglia precisa, accolto in un popolo preciso con riti e usanze culturali e religiose peculiari, Gesù riceve il nome che lo impegna a vivere la propria libertà: e la libertà la si vive all’interno di limiti e condizionamenti precisi. E così per Gesù, è così per ogni cristiano, che è un chiamato alla libertà (cfr. Gal 5,3). E questa libertà, che è dono e responsabilità al tempo stesso, è opera dello Spirito che rende i credenti figli di Dio e dunque eredi, gente a cui tutto viene consegnato nelle mani. Non schiavi che subiscono un fato, ma uomini liberi che si lasciano guidare dallo Spirito.

Luogo della libertà è l’interiorità in quanto spazio di elaborazione del senso, di accoglienza del reale e di maturazione delle scelte e delle decisioni: Maria, che riflette e medita «nel suo cuore» sugli eventi che accadono e che custodisce interiormente parole che destano stupore, coltiva ed elabora in sé il senso di tali eventi, lo concepisce, lo porta in grembo come in grembo ha portato il figlio, gli dà progressivamente una forma, attendendo di partorirlo, o meglio, di essere lei generata a tale senso che la coglie quale madre del Signore.

Se Luca parla di un compiersi di giorni (Lc 2,21) e Paolo della pienezza del tempo (Gal 4,4), la benedizione sacerdotale, pronunciata quotidianamente nella liturgia sinagogale (Nm 6,24-26), esprime la benevolente azione quotidiana di Dio verso l’uomo: un’azione da riconoscersi nell’opacità del trascorrere dei giorni e dell’avvenire dei fatti. L’attività interiore e spirituale di memoria e riflessione, di cui Maria è soggetto, è luogo di unificazione del tempo e di discernimento della benedizione divina nel quotidiano.

Commento a cura di don Jesús Manuel García