San Basilio, il grande padre della chiesa del IV secolo, poco prima di morire scrisse il De judicio Dei, un testo breve ma munito di grande autorevolezza, un testo pieno di parrhesía, con il quale egli denunciava la situazione patologica che le chiese stavano attraversando. Basilio osservava “il disaccordo tra i vescovi delle chiese”, partecipava al turbamento sofferto dal gregge di Dio, constatava la stanchezza e la tiepidezza di molti cristiani, e soprattutto si interrogava sul motivo di tante divisioni, discordie e accuse reciproche tra le chiese di Dio.
Confesso che questo testo del sapiente padre della chiesa è sempre stato da me meditato, ma in questi ultimi anni quasi mi attrae e mi costringe a una sua rilettura, per trovare nella grande tradizione sentimenti simili a quelli che provo di fronte alla chiesa di oggi. Sì, occorre dirlo e denunciarlo senza paure: viviamo una situazione ecclesiale caratterizzata da “giorni cattivi” (Ef 5,16). Oggi non si vive bene nella chiesa e – anche se l’aria che respiriamo non è più quella denunciata qualche anno fa da un teologo e da uno storico in un libro del 2011 intitolato Manca il respiro – si respira però un’aria avvelenata.
Molti, tra quelli che sono più coscienti della vita ecclesiale, si dichiarano stanchi, addirittura depressi, oltre che delusi per aver nutrito speranze che appaiono ora soltanto illusioni… Parole come stanchezza, depressione, scoraggiamento, sembrano non essere più rifiutate nello spazio ecclesiale. Ma cerchiamo di delineare con più precisione e chiarezza alcune di queste patologie.
Secondo il mio povero ma attento discernimento ciò che ammorba la vita ecclesiale è in primo luogo la mondanità che l’ha invasa. Sempre più sento dire: “Siamo come gli altri fuori, nel mondo… La chiesa non è diversa dal mondo in cui vive…”. È venuta meno, non in tutti ma certamente nella gente cattolica, la “differenza cristiana”, quella possibilità di essere diversi, di non fare “come fan tutti”. Sembra che il Vangelo, posto nuovamente al centro della vita cristiana dal concilio e dal rinnovamento che ne è seguito, non abbia più il primato nell’ispirare pensieri, sentimenti e azioni. Sono apparsi in modo evidente quelli che sono solito chiamare i “cristiani del campanile”, per i quali il cattolicesimo professato con maggiore o minore convinzione può anche essere in contraddizione con il Vangelo, ma resta coerente con l’identità culturale, la tradizione e l’ideologia dominante del mondo occidentale ricco e sazio.
Questa mondanità impedisce l’ascolto delle parole di Gesù, preferendo a esse i valori giudicati tradizionali. Proprio per questo, o non si ascoltano o addirittura si contestano in modo sguaiato gli interventi dei vescovi o dei presbiteri che ricordano alla comunità cristiana la presenza del povero, del migrante, degli scarti della società. E si faccia attenzione: non è la “religione cattolica” a essere contestata ma il Vangelo, al punto che si è sentita risuonare l’affermazione “Siamo cattolici romani innanzitutto!”. Nazioni celebrate per il loro cattolicesimo e per la loro fedeltà alla chiesa, come la Polonia e l’Ungheria, o regioni italiane fino a ieri malate di clericalismo, ora affermano una civiltà cattolica che contraddice il Vangelo di Gesù Cristo. Così la comunità cristiana è divisa non tra credenti ortodossi e credenti eretici, ma tra porzioni che si oppongono, si detestano e si delegittimano.
Questi anni sono inoltre vissuti con sofferenza anche a causa degli scandali che ogni giorno emergono e sono denunciati ossessivamente dai media. La chiesa ne esce umiliata e sta imparando ad assumere la responsabilità di delitti troppo a lungo non valutati nella loro gravità, trascurati e talvolta occultati. Ma se da un lato questo cammino doloroso significa purificazione e riparazione, per quanto possibile, del male inflitto, resta anche vero che ormai si è soffiato su un sentimento che potremmo chiamare “pretofobia”. Vi è paura dei preti, diffidenza nei loro confronti e verso la loro funzione educativa, sospetto per quegli atteggiamenti che non vengono più letti come manifestazioni di affetto ma solo come soprusi. E va riconosciuto: oggi i preti non ne possono più! Sono continuamente fustigati e in ogni caso non difesi come la giustizia richiederebbe…
I delitti che emergono, soprattutto quelli di pedofilia, sono gravissimi, ma sono veramente pochi quanti si macchiano di tali crimini e non appare giusto che la maggioranza dei preti, che oggi vivono una vita senza potere, sovente povera e faticosa, sia travolta da atteggiamenti di diffidenza, nonostante una vita fatta di dedizione, servizio e scarsamente riconosciuta. Anche chi commette delitti deve conoscere la misericordia di Dio e, come molte volte ho scritto a partire dal 2009, non deve più risuonare nello spazio ecclesiale l’espressione “tolleranza zero”. Sempre la chiesa ha annoverato tra i suoi figli peccatori, anzi tutti i suoi figli e figlie restano peccatori: cambiano solo i loro peccati, ma tutti restano bisognosi dell’infinita misericordia di Dio. Misericordia anche per i preti è il titolo di un libro scritto da un mio amico vescovo francese, Gérard Daucourt: ce n’è veramente bisogno!
Infine, non si può ignorare una patologia che minaccia fortemente la chiesa cattolica: quella riguardante papa Francesco, nei cui confronti si è ormai scatenata un’opposizione sconosciuta almeno nei confronti dei papi del secolo scorso. Francesco è delegittimato come papa da una piccola porzione di tradizionalisti, ma il suo magistero è spesso attaccato, contestato, giudicato eretico da gruppi di cattolici ben organizzati e con grande esposizione mediatica. Costoro si spingono fino ai limiti di fomentare uno scisma e trovano le loro ragioni in quella dinamica del magistero papale che essi denunciano come rottura con la tradizione, demolizione dell’istituzione cattolica, mutamento della forma ecclesiale ricevuta dalla tradizione.
Questa opposizione a papa Francesco, che si è focalizzata sull’Amoris laetitia e sulla disciplina riguardante l’indissolubilità del matrimonio e la vita ecclesiale dei coniugi divorziati, si scatena ogni volta che il papa mostra o chiede atteggiamenti di misericordia e di “compagnia con i peccatori”. Tutti sappiamo che in realtà papa Francesco è fedele alla tradizione, al punto da poter essere ascritto tra i conservatori in materia dottrinale, ma effettivamente con le sue parole e i suoi gesti mostra che l’intero suo ministero è volto non a ridare prestigio e grandiosità alla chiesa ma a conferire l’egemonia e il primato al Vangelo nella vita della chiesa. D’altronde, fin dall’inizio del suo pontificato l’avevo scritto: “Più nella chiesa appariranno il primato del Vangelo e la volontà di conformità a Cristo da parte della sua sposa, più le potenze demoniache, messe al muro, si scateneranno, così che nella chiesa la vita non sarà più pacifica, mondanamente bella, ma maggiormente segnata dall’apparire del segno del Figlio dell’uomo, la croce”.
Oggi dobbiamo essere consapevoli che la chiesa ha iniziato un esodo del quale per ora non si intravede la terra di arrivo. Camminiamo in un faticoso e accidentato deserto, “camminiamo alla luce della fede e non della visione” (cf. 2Cor 5,7), camminiamo nella calma del giorno e nell’oscurità della notte. A volte ci pare di essere ormai una carovana che procede incerta, mentre molti di quanti la compongono la lasciano o addirittura la fuggono, come accadde per la comunità di Gesù nei giorni della sua uccisione ignominiosa. Che cosa ci resta da fare come assoluto necessario? Nel cuore di chi aderisce al Vangelo e tenta con molta fatica di restare discepolo di Gesù, c’è una sola risposta: celebrare e vivere l’eucaristia. Al cuore della nostra crisi ecclesiale, l’atto che rifonda costantemente la chiesa come comunità del Signore Gesù e che le dà vita, è l’eucaristia: Gesù Cristo è con noi, noi entriamo in comunione con lui e viviamo della sua stessa vita, noi cadiamo e ci alziamo, cadiamo ancora e ci alziamo ancora. È il mistero della resurrezione!
Pubblicato su Vita Pastorale – Rubrica “Dove va la chiesa” – Giugno 2019