Enzo Bianchi – Un cambio radicale del vivere la chiesa

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Negli ultimi tempi c’è una domanda che molti mi rivolgono e che io stesso mi pongo con frequenza: la chiesa è ancora capace di essere missionaria, di rendere eloquente la fede che professa? I mezzi della missione mutano sempre più rapidamente, ma la missione sarà sempre ineludibile perché fa parte dell’essere cristiani: non si è alla sequela del Signore senza essere da lui inviati. Siamo di fronte a un mutamento radicale, che riguarda tutta la vita cristiana, la vita della chiesa, ma in particolare ciò riguarda proprio la missione ad gentes. Abbiamo lasciato la sponda e navighiamo verso un’altra terra che ancora non conosciamo. Le sfide si presentano con una novità inedita e dunque alla chiesa tutta è richiesta un’operazione di discernimento, per attuare il mandato di Gesù risorto, sempre attuale: “Andate, evangelizzate in tutto il mondo, portate la Buona notizia a ogni creatura” (cf. Mc 16,15).

Dobbiamo confessare oggi un’astenia delle chiese locali, soprattutto nell’emisfero settentrionale del mondo: un’astenia nei confronti della missione, una mancanza di coraggio nel lasciare la propria terra segnata dal benessere per terre che sono ancora toccate dalla fame, dalla miseria e spesso anche dalla violenza e dalla guerra. È sufficiente constatare la mancanza delle vocazioni alla missione ad gentes; è sufficiente vedere come gli istituti missionari, che hanno dato una testimonianza eroica di evangelizzazione, conoscono, almeno nelle nostre terre di antica cristianità, sterilità e invecchiamento, che rende alcuni di essi addirittura precari. Da quando ha assunto il ministero di Pietro, papa Francesco chiede con frequenza alle chiese di porsi “in uscita”, di volgersi alla missione in condizioni dinamiche, aperte, libere, per poter portare la Buona Notizia del Vangelo. Ma dietro a queste espressioni, che rischiano di essere ripetute semplicemente come slogan, c’è in realtà la richiesta di un cambiamento radicale del vivere la chiesa, ben prima del vivere la missione che le è inerente.

Non spetta a me fare un’analisi di queste urgenze, ma occorre almeno mettere in evidenza che si richiede in primo luogo che ogni battezzato e ogni comunità cristiana si sentano responsabili dell’evangelizzazione, cioè del portare ovunque la Buona Notizia del Regno. Le espressioni che si usano per parlarne sono meno importanti, ma a mio avviso occorre una vera e propria conversione della vita cristiana. Bisogna che la vita cristiana ecclesiale sia impegnata in un esercizio, in un’attenzione reale alla sinodalità, affinché popolo di Dio e pastori camminino insieme. Tutti i cristiani sono chiamati ad assumere la responsabilità di essere inviati a uomini e donne che non conoscono Gesù Cristo; devono dunque essere innanzitutto soggetti capaci di esprimere la fede cristiana e, di conseguenza, di edificare la chiesa con il loro specifico contributo culturale, religioso e umano. È la dinamica alla quale il papa ritorna sovente nei suoi discorsi missionari, ricordando parole come ascolto, incontro, dialogo, testimonianza, annuncio.

Credo inoltre che sia importante ricordare che oggi la missione non è rivolta solo alle genti ma riguarda le nostre chiese. Se alla fine della seconda guerra mondiale il cardinale di Parigi parlava della Francia come di una terra di missione, oggi siamo tutti convinti che l’Europa è terra di missione, come scrive il teologo Christoph Theobald. Viviamo in un’epoca che non è soltanto secolarizzata: siamo in un’epoca post-cristiana, e nelle nostre terre di antica cristianità ci sono delle situazioni che fanno sì che la missione sia quanto mai urgente. Soprattutto le nuove generazioni, quelle dei millennials, sono segnate da una profonda indifferenza verso la religione, verso la ricerca di Dio, verso l’appartenenza alla chiesa. Sta avvenendo una rivoluzione silenziosa che cambia profondamente il volto delle nostre comunità, nelle quali le nuove generazioni e le donne sono la chiesa che manca, secondo l’efficace espressione di don Armando Matteo. Sì, sta avvenendo una rivoluzione silenziosa che cambia e cambierà profondamente il volto delle nostre comunità.

Abbiamo sognato una chiesa evangelizzante e invece ci troviamo di fronte a una chiesa in realtà non evangelizzata e con generazioni senza più alcun contatto con la fede cristiana. In questa situazione inedita occorrerebbe da parte nostra una capacità di lettura, un esercizio di discernimento per assumere la responsabilità della mancata trasmissione della fede alle nuove generazioni. Non basta parlare dei millennials, bisogna riferirsi ai loro padri e alle loro madri, cioè la prima generazione che ha veramente tradito la trasmissione della fede, a partire dalla famiglia e dai vari contesti educativi. Risulta evidente che in una chiesa così debole va riconosciuta ormai una crisi di fede: dobbiamo avere il coraggio di dirlo, il problema è la debolezza della fede!

Ma allora quale missione e quale evangelizzazione, non nei mezzi, ma alla radice? Occorre innanzitutto prendere coscienza dell’indifferenza regnante nei confronti di Dio e della ricerca di lui. Da anni ormai ripeto che la chiesa deve prendere atto di tale indifferenza, ma sembra che in realtà nessuno ci voglia credere, e così si continuano a studiare le strategie per l’annuncio, nella stessa maniera di prima. Per le nuove generazioni – ma anche per alcuni delle generazioni post ’68 – Dio non è più interessante, non è più necessario per vivere bene, nella felicità. Si continuano a ripetere alcuni slogan ma, se si ascoltano veramente i giovani, si comprende che stanno bene senza ricerca di Dio. Il problema è eventualmente quello della “gratuità” di Dio, il che ci richiede nuovi atteggiamenti per annunciarlo: Dio non sta più nello spazio della necessità! Dio è addirittura una parola ambigua, respinta dalle nuove generazioni, perché spesso è legata al fanatismo religioso, all’intolleranza, alla violenza.

Per molti aspetti, fatte le dovute differenze, siamo in una stagione analoga a quella dei primi secoli della chiesa, quando i cristiani per difendere la loro singolarità avevano il coraggio di dire: “La parola ‘Dio’ non è un nome per noi cristiani, è un’approssimazione naturale dell’uomo per descrivere ciò che non è esprimibile” (Giustino). Dio è una parola che può contenere tante proiezioni umane, che può essere il frutto di una riflessione intellettuale, che può essere l’esito di una ricerca di senso fatta dall’uomo. Ciò che invece è decisivo nella fede cristiana è la meta di un percorso compiuto alla sequela di Gesù Cristo, “l’iniziatore della nostra fede” (Eb 12,2). Questo richiede che, nella nostra missione ed evangelizzazione, sia davvero Gesù Cristo l’annuncio, l’uomo Gesù Cristo vissuto nella carne: l’uomo come noi, totalmente uomo in una vita mortale, nella storia, dalla nascita alla morte, con tutti i nostri limiti umani, eccetto il peccato, perché è con la vita umana che egli ci ha rivelato Dio e ci porta alla comunione con lui. E Cristo non solo ci rivela Dio: egli infatti si fa conoscere come Dio, Figlio di Dio, vero Dio e vero uomo.

Qui sta lo specifico del cristianesimo, anche in un tempo di confronto con gli altri monoteismi e con altre vie religiose. Io amo parlare della “differenza cristiana”, che è una differenza non contro o senza gli altri, ma una differenza che nasce dalla convinzione che Gesù Cristo è davvero colui che ha unito umanità e Dio. Dopo di lui, non si può dire l’umanità senza dire Dio e non si può dire Dio senza dire l’umanità. Questa è la nostra fede: confessiamo che Gesù Cristo è uomo e Dio, Dio fatto carne, Dio sempre vivente nei secoli dei secoli. Benedetto XVI, in apertura dell’enciclica Deus caritas est (2005), aveva il coraggio di scrivere: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con una persona”, Gesù Cristo. Questo secondo me è il punto centrale, a partire dal quale può veramente mutare la situazione astenica della fede e, di conseguenza, quella dello slancio missionario. Il problema della crisi della missione ad gentes in realtà è un problema della missione anche qui nelle nostre terre di antica cristianità, non c’è molta differenza. Le nostre comunità cristiane si sono assestate, spesso per loro sono più decisivi i valori o le prassi etiche che non la passione bruciante e la fede in Gesù Cristo. Al contrario, nell’evangelizzazione siamo chiamati a mettere al centro Gesù Cristo e la sua umanità, rivelazione del Dio vivente, non lo si ripeterà mai abbastanza. E si faccia attenzione: nessuna negazione della divinità di Gesù, ma neppure nessun debito della fede cristiana al teismo, perché è Cristo che ci conduce a Dio, non un qualsiasi dio che ci conduce a Cristo.

Articolo pubblicato su Vita Pastorale – Rubrica “Dove va la chiesa”- Febbraio 2020 di ENZO BIANCHI

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