Inverno 1224-1225. Francesco d’Assisi è un uomo di poco più di quarant’anni, che ha vissuto secondo la forma del santo Vangelo. Il Signore gli aveva dato dei fratelli, ai quali consegnò una Regola che la Chiesa approvò, anche se continuava a ribadire che l’unica vera Regola è «osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo» (Regola Bollata 1). Quando la sua comunità è grande, nel 1220 egli rinuncia al governo dei fratelli ma non rinuncia a esserne guida spirituale, sebbene constati che ormai il progetto che il Signore gli aveva rivelato non era più seguito dai suoi fratelli ed egli era diventato oggetto di contestazione e anche di disprezzo.
Sovente in ritiro con qualche fratello, vive «la grande tentazione», mentre la salute fisica peggiora e la malattia lo rende debole e gli toglie la vista. Nella sua infermità, è accolto da Chiara nel giardino del monastero, sempre più provato e tentato ma consolato dalla presenza di colei che si diceva «pianticella di Francesco».
Ormai somigliantissimo all’umano suo Signore, dopo una notte terribile, di tenebra anche interiore, al mattino si alzò e disse ai frati che erano con lui: «Per la grazia e benedizione così grande che mi è stata elargita… voglio, a lode di Lui e a mia consolazione e per l’edificazione del prossimo, comporre una nuova Lauda del Signore per le sue creature» (Leggenda perugina [Compilatio assisiensis] 43; Fonti francescane 1591).
E così, fatto silenzio, con il volto verso il sole che non vedeva più, essendo i suoi occhi fasciati dopo essere stati cauterizzati, cominciò a dire:
Altissimu onnipotente bon Signore, Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione. Ad Te solo, Altissimo, se konfane et nullu homo ène dignu Te mentovare (il testo è tratto da Fonti francescane 263).
Ecco com’è nato il Cantico di frate sole o Cantico delle creature: da un uomo, un cristiano malato, debole, povero e tentato, ormai cieco, impossibilitato a vedere il sole e le altre creature.
Con questo cantico nutrito di preghiera, ispirata dai salmi biblici e generata dal suo cuore capace di vedere e osservare con gli occhi la bellezza di ogni creatura animata o inanimata, Francesco dice innanzitutto un “amen”, un “sì” alla vita e a questo mondo, quindi loda, ringrazia il suo Signore che chiama con confidenza e amore “mi’ Signore”, il mio Signore. Come ci testimonia Tommaso da Celano, Francesco «non era più un uomo che pregava, era ormai diventato preghiera vivente» (non tam orans, quam oratio factus; il testo è in Vita seconda 95; Fonti francescane 682).
All’Altissimo, al bon Signore, al mi’ Signore — epìteti divini disposti secondo una discesa dall’alto in basso, dal cielo alla terra — Francesco innanzitutto confessa essere dovuta la lode, la gloria, l’onore e la benedizione, in una dossologia ispiratagli dalle acclamazioni delle liturgie celesti narrate nell’Apocalisse (cfr. Apocalisse 4, 11; 5, 9-10.12-13, ecc.). Dio è colui che è Altissimo, perché Francesco si sente bassissimo (le très-bas di Christian Bobin) e sente che nessun uomo, neanche lui, è degno di “mentovarlo”, di nominarlo, perché Dio resta ineffabile, indicibile, secondo tutte le Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento: «Dio nessuno l’ha mai visto» (Giovanni 1, 18), «Dio nessuno l’ha mai contemplato» (1 Giovanni 4, 12). Per questo non va nominato, essendo il suo Nome impronunciabile, misterioso, ed essendo operazione rischiosa dare nomi a Dio. In questa prima strofa del Cantico c’è dunque solo una confessione di lode a Dio e di umiltà-indegnità di chi osa pregarlo.
Ecco allora la possibilità della lode “attraverso” e “con” tutte le creature: la lode cosmica non è fatta di parole sonore, eppure è un messaggio che il giorno racconta al giorno e la notte alla notte (cfr. Salmo 19, 2-3), sicché il cosmo è pieno della lode che sale a Dio. Non convocano forse i salmi le creature del cielo, della terra e degli abissi a lodare il Signore? Nel libro di Enoch sta scritto: «Il sole e la luna rendono grazie e lodano incessantemente. Per loro, infatti, il ringraziamento è riposo» (41, 6-7). Dunque il cantico di Francesco respira il ritmo allelujatico dell’invito alla lode del Signore facendosi voce di ogni creatura.
Francesco ama tutte le creature che vede, incontra, sperimenta. Le vede, non le guarda soltanto, le contempla fino a esultare e a gioire per la loro esistenza o presenza. Francesco è un ricercatore della bellezza, un amator pulchritudinis (cfr. Regola di Agostino 8, 1), un visionario che penetra al di là della materia, non negata, non disprezzata, ma percepita come riflesso, segno del Creatore. Afferma Gregorio Magno in un’omelia: «L’uomo possiede qualcosa di tutte le creature. Con le pietre ha in comune l’essere, con gli alberi la vita, con gli animali i sensi, con gli angeli l’intelligenza. Se dunque ha qualcosa in comune con tutte le creature, egli è, in certo senso, ogni creatura» (Omelie 29, 2, Sources Chrétiennes 522,202). L’essere umano è dunque abilitato non solo a ordinare, a sottomettere, ma soprattutto a custodire, a essere responsabile, a unire la sua voce a quella delle creature — cum tucte le tue creature — fino a farsi loro voce. Ecco allora come il Cantico procede:
Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le Tue creature, spetialmente messor lo frate sole, lo quale è iorno, et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de Te, Altissimo, porta significatione.
Per chi, per che cosa deve essere “spetialmente” — cioè innanzitutto, soprattutto, in modo particolare — lodato il Signore? Per “messor”, “il mio signore”, fratello sole. Il sole, il sole senza il quale non ci sarebbe la vita, senza il quale regnerebbe la tenebra di morte! Fu la prima creatura adorata dagli uomini, e leggero sarà il rimprovero per quelli che lo hanno reso idolo, ma perché sedotti dalla bellezza, dalla luce, dalle possibilità di vita che porta con sé (cfr. Sapienza 13, 1-7).
Per Francesco il sole è “significatione”, perché nel sole egli contempla l’azione luminosa e vivificatrice di Dio. Il sole ci dona ogni mattina il giorno, illumina le nostre vite ed è bello, glorioso nel suo irradiare splendore. Chi di noi non ha sentito in sé talvolta il bisogno di inginocchiarsi davanti a frate sole? Chi di noi non ha detto a se stesso, risvegliandosi al mattino e vedendo il sole, che quella giornata era più buona di una giornata nuvolosa, uggiosa? Certo, solo i cuori puri vedono Dio nelle creature, soprattutto nel sole!
Francesco, inoltre, era esercitato a cantare la lode di Dio all’alba, quando spunta dall’alto il sole, astro del mattino; a mezzogiorno, quando esso regna nel cielo e riscalda la terra e il cuore; alla sera, quando tramonta e scompare, come memoria che per ciascuno di noi c’è un termine al suo giorno. La sua preghiera, ritmata sui movimenti del sole, lo portava a ritenerlo “messor”, “mio signore”, e a leggerlo come il grande segno di Dio, di Cristo, il sole di giustizia (cfr. Marco 3, 20; Luca 1, 78; Apocalisse 2, 28; 22, 16). Dopo la lode per il sole, Francesco continua:
Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle: in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
Dopo il sole, che fa giorno, ecco anche i luminari della notte, la luna e le stelle. Sono state plasmate dal Creatore “clarite”, chiare, con una luce bianca, sono preziose come perle che trapuntano la notte e sono anche belle a vedersi, a contemplarsi. Guardare il cielo stellato, osservare il suo lento movimento, seguire l’apparire e lo scomparire dei pianeti, decifrare le fasi della luna nel suo crescere o diminuire, è operazione di riconoscimento della volta celeste che gli esseri umani hanno sempre fatto, sentendo estasiati l’accelerazione dei battiti del proprio cuore. La luna, così fedele ai suoi appuntamenti, la luna che dai tempi antichi segna il tempo, la luna al cui chiarore nella notte si può ascoltare il silenzio e la natura che geme e soffre. Anche Clara, cioè Chiara, era luminosa come le stelle nella notte di Francesco: luminosa, discreta e fedele!
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale a le Tue creature dài sustentamento.
Dopo il sole, la luna e le stelle, la lode sale al Signore per il vento e per il tempo che è nuvolo o sereno, come vuole. Il vento è il respiro del mondo, fa cantare le creature inanimate quando le accarezza o le flagella: cime e gole di monti, valli, alberi, erbe… Come lo Spirito, non sai da dove viene né dove va: simbolo di libertà, di forza che non si può impigliare, di realtà invisibili ma sperimentabili, che non si possono imbrigliare (cfr. Giovanni 3, 5-8). Grazie al vento che porta le nubi cariche di pioggia e poi le spazza via donando il sereno, Dio dà il sostentamento a tutte le creature, perché così «fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Matteo 5, 45), quale Padre misericordioso. «Nel vento, se lo si sa ascoltare, c’è Qualcuno», diceva Gaston Bachelard. Francesco sa che Dio «fa suoi messaggeri i venti» (cfr. Salmo 104, 4) e che il vento è segno della presenza del Signore, perché resta invisibile eppure è sperimentabile. Non ci fu forse vento all’inizio della creazione, quando soffiava sulle acque primordiali (cfr. Genesi 1, 2)? Non ci fu vento per l’uscita di Israele dal mar Rosso (cfr. Esodo 15, 8)? Non ci fu brezza silenziosa sul volto di Elia all’Oreb (cfr. 1 Libro dei Re 19, 12)? Non ci fu vento gagliardo nella discesa dello Spirito a Pentecoste (cfr. Atti degli Apostoli 2, 1-2)? Sia lodato dunque il Signore per questa creatura, il vento, creatura invisibile ma la cui presenza è ravvisabile quando giunge sulle creature visibili che fremono al suo passaggio. Segue la lode per gli altri elementi: l’acqua, il fuoco, la terra. Si comincia dall’acqua:
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
Per l’acqua sale a Dio la lode, perché essa è molto utile, utile come il sole per la vita. Senza acqua è possibile solo la terra desolata, il deserto, mentre dove giunge l’acqua scaturisce la vita. Per questo essa è destinata a tutti, non può sottostare alla logica del mio e del tuo! Di più, è destinata a tutti quelli che vivono sulla terra: animali, vegetali, ma anche minerali, che grazie all’acqua si trasformano, e possiamo dire che anche loro vivono, non biologicamente, ma mutando lungo i secoli.
Francesco sente il bisogno di dire che l’acqua non è solo utile, ma anche umile, umile nella sua semplicità, umile perché sempre scende verso il basso. Ed è anche preziosa, perché feconda la terra: e di questa preziosità ci accorgiamo solo quando manca, nella siccità, ma proprio per questo Francesco ricorda la sua preziosità. Infine l’acqua è casta, perché trasparente, limpida. La castità, infatti, è trasparenza in ogni rapporto, esclude ogni fusionalità, ogni nascondimento, ogni intorbidamento.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte: et ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Raramente ormai vediamo il fuoco e non lo accendiamo quasi mai. Eppure, fino a un secolo fa, ogni sera gli uomini e le donne accendevano il fuoco per illuminare la notte innanzitutto, ma anche per scaldarsi e per cuocere il loro cibo. Ogni casa aveva un focolare, sicché per indicare il numero di famiglie si diceva: «Quel villaggio ha tanti fuochi, tanti focolari». Accendere il fuoco era ritenuta azione sacra, e quando il fuoco divampava, la gioia riempiva il cuore. Per Francesco il fuoco, come il sole, la luna e le stelle, è bello a vedersi, a contemplarsi. Appare robusto, forte, perché brucia ogni cosa, arroventa e rende duttile il ferro, discerne e purifica l’oro.
Bisogna saper leggere il fuoco per apprezzarlo debitamente: i colori accesi della sua fiamma che dipendono dal legno secco o ancora verde con cui è alimentato, dai diversi alberi da cui la legna è tratta; il suo crepitio che sprigiona faville, le quali sembrano stelle che, invece di scendere, salgono danzando verso l’alto; il calore che sa emanare la brace coperta dalla cenere per conservare il fuoco per l’indomani… Il fuoco è segno di quello che Gesù volle portare sulla terra e vedere ardere (cfr. Luca 12, 49), è segno della passione, dell’amore, dell’ardore del nostro cuore (cfr. Cantico dei Cantici 8, 6). Come il fuoco anche l’amore si accende, divampa, brucia, scalda, va alimentato, custodito e a volte si spegne. E infine sorella e madre terra:
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.
Se il sole era chiamato, “messor”, “mio Signor”, la terra è chiamata sorella e madre, perché noi umani secondo la Bibbia siamo “terrosi”, tratti dalla terra (adam tratto dalla ’adamah: cfr. Genesi 2, 7), che è creatura come noi, dunque sorella. Ma essendo tratti dalla terra, noi torniamo alla terra (cfr. Genesi 3, 19), nelle braccia della madre terra, nelle sue viscere. La terra, questa terra che noi amiamo, questa terra che ci ha accolti e ci sostiene donandoci cibo, questa terra che abitiamo e sulla quale ci muoviamo, questa terra alla quale ci affezioniamo fino a soffrire nel doverla lasciare… Questa terra che non può essere mai “mia” e “tua”, ma sempre e soltanto nostra, di tutti noi umani! Questa terra che dobbiamo amare come noi stessi, secondo quello che amo definire l’undicesimo comandamento, sintesi degli altri dieci.
Questa è la stessa terra che anche Dio ha voluto abitare attraverso suo Figlio, Gesù, che l’ha amata: ha amato la Galilea, terra dei suoi padri; ha amato i campi dove si semina il grano, i fichi di cui cercava il frutto, le vigne di cui beveva il vino, i fiori dei campi che contemplava vestiti più gloriosamente di Salomone (cfr. Matteo 6, 29; Luca 12, 27); ha amato quella terra che i suoi piedi calcavano, prendendone la polvere… Madre terra! E Francesco la canta quale madre che ci dà il cibo come sostentamento, i frutti, ma anche i fiori così gratuiti, che con la loro bellezza vivono accanto o in mezzo alle spighe del grano necessario per il pane. Su questa terra Francesco, agonizzante, volle essere steso nudo, per morire in contatto e comunione con essa.
Questo il Cantico di frate sole che Francesco compose e volle fosse cantato. Ma nel 1225-1226 nasce un dissidio tra il podestà e il vescovo di Assisi. Francesco, malato, vuole intervenire per mettere pace e, aggiunta una strofa al Cantico, invia uno dei suoi frati a cantarlo davanti ai due contendenti (cfr. Leggenda perugina [Compilatio assisiensis] 44; Fonti francescane 1593), mostrando come per lui l’attenzione alle creature non poteva essere disgiunta dall’attenzione alle vicende umane, alla città e alla storia. Questa la strofa che compose e fece cantare:
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo Tuo amore, et sostengo infirmitate et tribulatione. Beati quelli che ‘l sosterrano in pace, ka da Te, Altissimo, sirano incoronati.
Francesco sa lodare Dio con le creature del cielo e della terra, ma sa anche che la lode sale a Dio quando gli umani sulla terra si accordano, si perdonano, si riconciliano, fanno pace. Sono il perdono e la misericordia che, più di tutto, danno lode a Dio, perché è soprattutto questa la volontà del Signore: che gli esseri umani si sentano fratelli e si amino tra di loro come Cristo li ha amati (cfr. Giovanni 13, 34; 15, 12). La pace è il bene supremo per l’umanità e nello stesso tempo è la più vera lode, glorificazione, benedizione che sale a Dio.
Autunno del 1226, alla vigilia della morte di Francesco. La sua vita è ormai trascorsa e ciò che l’ha contraddistinta è la fraternità, la sororità. Sì, la vita di Francesco è stata fraternità con i poveri, i malati, i peccatori, gli scarti della società, e anche fraternità con tutte le creature del cielo e della terra. Non ha mai disprezzato nessuna creatura, non ha mai cercato negli altri il male e il peccato, ma ha cercato di leggerne la sofferenza e il desiderio. Non è stato un monaco asceta che disprezzava il mondo e neppure è stato tentato di aderire ai catari, angosciati per le realtà di questo mondo fragile e peccatore e dediti a un ascetismo senza misura. Ha detto “amen” alla vita, ha giudicato belle e buone le opere della creazione. Aveva pregato con la Bibbia, ma nell’essere ispirato da essa era anche andato oltre, scoprendo un legame di fraternità e sororità tra le creature e l’uomo che la Bibbia non aveva esplicitato.
Sì, c’è un legame universale tra tutte le creature, una fraternità e sororità che Francesco rivela e canta. Se Adamo aveva dato il nome alle creature (cfr. Genesi 2, 19-20), Francesco le convoca in un conventum (da cum-venire), perché convento e chiostro era per lui il mondo, non il monastero fortezza e claustrum del Medioevo! A imitazione di Gesù nudo sulla croce nell’ora della morte, Francesco si fa deporre nudo sulla nuda terra, perché nella nudità ha vissuto la comunione con tutte le creature, da lui amate nella loro nudità, quella loro semplicità che egli sapeva leggere come bellezza. E così, facendo un’anamnesi della propria vita, e ritrovandovi la fraternità e la sororità da lui sempre vissute, con tutto e tutti, anche la morte che giunge può essere chiamata sorella:
Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare: guai a quelli che morrano ne le peccata mortali; beati quelli che trovarà ne le Tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda no ‘l farrà male.
Anche la morte per Francesco è sorella. E noi qui guardiamo a lui e non commentiamo, perché inabilitati a dire una parola in più. Infatti, non sono ancora capace di chiamare la morte sorella!
Dunque nel silenzio, insieme a tutte le creature, lodiamo e benediciamo il Signore, ringraziamolo e restiamo davanti a lui nel servizio e nell’umiltà, come Francesco conclude il suo Cantico:
Laudate et benedicete mi’ Signore’ et rengratiate et serviateli cum grande humilitate.
Pubblicato su: Osservatore Romano