Enzo Bianchi – Nella libertà e per amore [Libro]

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Non la necessità ma la libertà domina la vita cristiana. Non il caso, ma l’amore vi ha il primo posto.
Se si vuole camminare alla sequela di Cristo, due condizioni sono imprescindibili: libertà e amore sono al cuore del mistero cristiano. Un’affascinante riflessione sulla vita cristiana e sul senso profondo della vocazione.

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VIVERE ALTRIMENTI

Schermata-2014-10-21-alle-13.48.43Scriveva Voltaire:

La vita monastica non deve essere invidiata per nessuna ragione. C’è un detto molto noto: “I monaci sono gente che si mette insieme senza conoscersi, vive senza amarsi e muore senza rimpiangersi”.

Ho letto, ascoltato e meditato sovente queste parole, soprattutto in particolari momenti della mia vita in cui mi ritornavano alla mente e mi trovavo a dire a me stesso: “Fosse davvero come dice Voltaire!”.

In verità la vita monastica è intrapresa da uomini e donne che come gli altri vivono nel mondo, dunque è progettata, edificata, assunta da persone appartenenti alla loro epoca, a una certa società, inevitabilmente segnate dall’ambiente e dalla cultura in cui sono immerse. Dopo oltre quarant’anni di vita monastica intensa, una vita non solo ereditata dalla tradizione ma anche progettata, riformata con consapevolezza, esperita a lungo con altri, mi sento ormai capace di parlare dei monaci e di riflettere sulla loro vita concreta: certo, innanzitutto sulla vita a Bose, ma anche in tante comunità che ho frequentato e con cui ho vissuto solidarietà, tensioni e ricerca comune.

L’incontro

In più di quarant’anni di vita a Bose sono molti i giovani, uomini e donne, che hanno manifestato un certo interesse per la nostra forma di vita e si sono detti in ricerca della loro vocazione da parte del Signore: vocazione da parte del Signore appunto, non vocazione da parte mia o da parte di Bose… Talora erano volti quasi attraenti, in altri casi anonimi o poco belli; a volte subito simpatici, altre volte addirittura scostanti o ispiranti diffidenza. In ogni caso – mi ripeto a ogni nuova occasione una decisione deve precedere l’ora di un tale incontro: mi appresto ad ascoltare chi ha chiesto di parlarmi, ma devo farlo in obbedienza a Dio, amando questo altro che mi si presenta innanzi prima di conoscerlo, prima di leggerlo per quel che è, quindi al di là di possibili antipatie e anche nelle sue debolezze.

Voltaire ha dunque ragione? In un certo senso sì. Questo particolare incontro non segue infatti la logica degli altri incontri umani, nei quali abitualmente ci si conosce, ci si giudica e, se c’è intesa, se si trovano ragioni per stare insieme, si giunge naturalmente ad amarsi. Nella vita monastica si decide al contrario di amare l’altro prima di conoscerlo, anche prevedendo uno sforzo, mettendo in conto delle difficoltà; di amarlo cioè gratuitamente per il solo fatto che cerca Dio sulle mie stesse vie e può pensare di avermi come fratello in una vita comune. Questo in obbedienza al comandamento nuovo lasciatoci da Gesù (cf. Gv 13,34; 15,12): nel suo evangelo infatti l’amore è un comando gratuito, assoluto, che non richiede reciprocità che deve estendersi ben oltre l’antipatico, fino al nemico (cf. Mt 5,44; Lc 6,27.35).

La vita comune

Dei circa centocinquanta giovani che si sono affacciati alla nostra vita, almeno un centinaio un giorno sono arrivati in comunità per fare vita monastica a Bose. Quando qualcuno chiede di venire a vivere con noi ha bisogno di tempo per considerare bene le ragioni che l’hanno spinto a bussare alla nostra porta: occorre un primo periodo in cui conoscere meglio questa vita che l’ha attratto; poi il postulandato, per cominciare a sentirsi discepolo dietro al Signore in una forma di sequela che si accoglie dalla tradizione monastica; in seguito il noviziato, vera “scuola del servizio divino” (dominici schola servitii: RB, Prologo 45); quindi il probandato che conduce infine, con la grazia del Signore e la decisione libera e amorosa del candidato, alla professione monastica definitiva, solennemente emessa davanti alla chiesa. Sono circa otto anni di ricerca, verifica, esercizio, discernimento, maturazione umana e spirituale per giungere alla decisione dell’ “Amen” definitivo al Signore.

Così chi è arrivato, poco per volta “entra” in comunità, viene accolto e integrato più o meno facilmente, più o meno rapidamente nella vita comunitaria. Sempre preventivamente amato, il novizio deve però dare prova di avere i requisiti per una vita comune e per una sequela esigente del Signore. Viene perciò accompagnato dal maestro dei postulanti e poi da quello dei novizi, che lo seguono con occhio vigilante, lo aiutano nel discernimento e nella crescita. Ma è tutta la comunità che giorno dopo giorno nella communio della preghiera, nella solidarietà del lavoro, nella condivisione dei molti servizi, nella gratuità del riposo e della parola scambiata, plasma il novizio, lo fa crescere e, in questa assiduità con lui, impara ad amarlo concretamente e ad accettare di essere da lui amata. Non per tutti questo cammino è uguale: ci sono alcuni che sono ricchi di doni (sempre per un ora, per una stagione); ci sono i deboli (anch’essi per una stagione); ci sono i volonterosi e i “lenti”…

Nessuna idealizzazione della comunità monastica: come le famiglie e le altre forme di vita comune della nostra società, essa è una realtà umana, dunque povera, debole, fragile, non esente da contraddizioni interne. In essa si hanno crisi, si manifestano malattie psichiche, emergono tratti caratteriali difficili, si sente il fratello simpatico o antipatico, vicino o lontano, interessante o insipido. Eppure i monaci comprendono e vedono le cose altrimenti, ed è per questo che vivono altrimenti, progettano la loro vita altrimenti. Sì, come vedremo in dettaglio più avanti, la vita dei monaci è la stessa vita umana degli altri, eppure è differente.

La “stabilitas”

Nella Regola di Benedetto la parola stabilitas indica la perseveranza, la capacità di durare nella vocazione ricevuta e accolta. Il monaco benedettino al momento della sua professione definitiva promette pubblicamente la propria stabilitas, insieme alla conversione di vita e all’obbedienza (cf. RB 58,17). Il termine stabilitas ricorre altre volte nella Regola (cf. RB 4,78; 58,9; 6o,8; 61,5): Benedetto è consapevole che per la vocazione è necessaria la fedeltà fino alla morte; che per l’edificazione di una comunità occorre un patto di alleanza fedele tra fratelli; che i monaci che vivono in un corpo, la comunità , un corpo animato dall’amore, devono poter contare gli uni sugli altri sempre. Certamente in ogni monaco cenobita c’è anche un “girovago” (cf. RB 1,10-I i), un instabile, ma questa è una tentazione che deve essere assolutamente domata e vinta all’inizio del cammino monastico: meglio non avventurarvisi se non si è stabili, saldi, perché si finirebbe per soffrire e per far soffrire gli altri. Ma è anche vero che la stabilitas deve essere conservata e confermata progredendo, crescendo umanamente e spiritualmente, cercando di custodire e rinnovare la vocazione giorno dopo giorno.

Se viene meno la crescita spirituale, se cominciano a mancare la preghiera, assiduità con Dio, e la comunione, assiduità con i fratelli, allora la stabilità si fa precaria, si svuota dei suoi contenuti e poco per volta diventa insignificante, addirittura insopportabile. Come può accadere? Solo Dio conosce il cammino di regressione di una persona da lui chiamata alla sequela di Gesù, un cammino che a un certo punto si inceppa, trova ostacoli che paiono insormontabili, si smarrisce e si perde… Questo succede: il monaco lo sappia, perché la stabilità dipende da quello che uno pensa, sente, vive quotidianamente!

La separazione

Nella mia ormai lunga esperienza di comunità mi sono trovato a dover affrontare anche la separazione. Proprio quest’ora così dolorosa mi ha insegnato quanto fosse sbagliata l’Affermazione di Voltaire, perché in realtà anche nella vita monastica, quando ci si lascia, non solo ci si rimpiange, ma si soffre. Aver amato ed essere stati amati, aver vissuto per anni una stessa vicenda, essere stati coinvolti nella stessa vita, insieme assidui ogni giorno alla preghiera e alla tavola (cf. At 2,46), non è cosa da poco: è la vita, la vita quotidiana di ogni monaco e di ogni monaca, sempre fratello o sorella di un altro fratello, di un’altra sorella. Eppure talvolta la separazione accade, e oggi accade sempre più spesso: accade nel mondo, dove i legami amorosi, familiari o no, sono diventati fragilissimi, si rivelano di corto respiro e sono facilmente contraddetti; e accade anche nel monachesimo. “Perché?” è la domanda che sorge spontanea: “Perché, Signore?”, ma anche: “Perché, fratello? Perché, sorella?”.

A volte la separazione è annunciata da una crisi cui ne seguono altre sempre più prepotenti; altre volte sorge improvvisamente, inattesa, per chi ritenevamo saldo e affidabile. Com’è possibile, magari dopo tanti anni di vita comune? Com’è possibile quando “si camminava insieme nella casa di Dio”, quando il fratello era “amico e compagno (cf. Sal 55 [54],14-15)? Eppure succede che la vita comune diventa una fatica, la comunità una prigione, la preghiera intollerabile, la parola di Dio non dice più nulla; c’è solo il desiderio di fuggire, dell’altrove, di luoghi altri pensati come libertà. Capita di non poter più riconoscere il fratello o la sorella che se ne va: il volto cambia, da fraterno si fa nemico, minaccioso, pretenzioso… Che abisso! Il fratello che va via diventa un enigma, aumentando ancora di più la sofferenza di chi resta.

Chi presiede registra purtroppo questi esiti, conosce un’esperienza che resta sempre come una ferita aperta, che toglie il sonno, che fa piangere. Chi se ne va gli era stato affidato dal Signore: “Ho fatto tutto quello che potevo e dovevo fare verso di lui?”, si chiede. E trema al ricordo della Regola di Benedetto, scandita dalla menzione ossessiva del giudizio finale di Dio sull’operato dell’abate (cf. RB 2,34.37.38; 3,II; 31,9; 63,2; 64,7; 65,22). Viene in mente – senza per questo essere consolante – un insegnamento di Doroteo di Gaza:

Preoccupiamoci di noi stessi, fratelli, siamo vigilanti … Noi siamo così negligenti che non sappiamo perché siamo usciti dal mondo e neppure sappiamo ciò che vogliamo … Non è neppure certo che quando abbiamo lasciato il mondo per entrare in monastero avessimo per scopo l’acquisizione delle virtù. Alcuni di noi hanno fatto qualche progresso e poi si sono fermati; altri hanno avanzato un po’ di più; altri sono arrivati a metà strada e poi si sono fermati. Ce ne sono ancora altri che non hanno fatto proprio niente … Altri fanno un po’ di bene e subito lo distruggono; altri ne distruggono addirittura di più di quanto ne abbiano fatto. Altri hanno sì acquisito le virtù, ma hanno nutrito orgoglio e disprezzo verso il prossimo, e dunque sono rimasti fuori.

La comunità conosce questa precarietà: vive un’alleanza promessa solennemente davanti a Dio e alla chiesa, un’alleanza custodita da Dio ma non sempre custodita da noi. Sì, è una sofferenza grande la separazione, da viversi oggi anche in solidarietà con tanti uomini e donne che nel mondo vivono il medesimo dramma. Ripensando a quanti prendono altre strade, emergono molte domande: ma noi abbiamo fatto discernimento? C’era o non c’era la vocazione? E, soprattutto quando chi se ne va dice ciò che mai aveva detto prima – “Qui non sono mai stato felice!” -, viene da chiedersi: è vero? Era vero? Ecco quanti pensieri e quante parole ci tentano, spingendoci a dare risposte non evangeliche. No, è bene non giudicare, è bene restare nella quiete, è bene affidare tutto a Dio e pregare per il fratello o la sorella che si allontana dall’alleanza stipulata liberamente e per amore.