Enzo Bianchi – La vita e i giorni. Sulla vecchiaia

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Terra sconosciuta in cui ci inoltriamo lentamente, paese aspro da attraversare e da conquistare, la vecchiaia ha le sue grandi ombre, le sue insidie e le sue fragilità, ma non va separata dalla vita: fa parte del cammino dell’esistenza e ha le sue chances.

È il tempo di piantare alberi per chi verrà. Vecchiaia è arte del vivere, che possiamo in larga parte costruire, a partire dalla nostra consapevolezza, dalle nostre scelte, dalla qualità della convivenza che coltiviamo insieme agli altri, mai senza gli altri, giorno dopo giorno.

È un prepararsi a lasciare la presa, ad accettare l’incompiuto, ad allentare il controllo sul mondo e sulle cose. Nell’inesorabile faccia a faccia con il corpo che progressivamente ci tradisce, Enzo Bianchi invita tutti noi ad accogliere questo tempo della vita pieno, senza nulla concedere a una malinconica nostalgia del futuro, ma anzi trovando qui l’occasione preziosa di un generoso atto di fiducia verso le nuove generazioni.

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Età e stagioni della vita

«Coraggio, la vita deve essere buona, bella e felice!». Nella mia vita sono risuonate frequentemente parole come queste, «adagi» ricevuti innanzitutto da chi mi aveva messo al mondo e cercava che io potessi far crescere in me la fiducia: sì, la fiducia verso la vita, le persone, la società. Parole che, ripetute di giorno in giorno, in particolare nelle ore critiche, difficili e faticose, giungevano al mio cuore come una consolazione ma anche come un invito alla responsabilità.

Soprattutto dopo la morte di mia madre, quando avevo appena otto anni, e l’essere rimasto solo con mio padre, in una condizione di povertà e di precarietà, cominciai a comprendere che la vita che dobbiamo vivere è una sola: un’unica vita, non ce ne sono altre! Diventato giovane, quelle parole le ho ripetute a me stesso e poi tante volte le ho dette e anche scritte a beneficio di altri. Questa, infatti, è una convinzione profonda che mi abita: esiste un’arte del vivere, quella che già i nostri amati greci chiamavano tèchne toû bíou e i latini ars vivendi. Perché la vita che viviamo dipende anche, non solo ma anche, dalle nostre consapevolezze, dalle nostre scelte, dalla qualità della convivenza che cerchiamo di edificare insieme agli altri, mai senza gli altri, giorno dopo giorno.

Una vita buona: è una vita in cui è prioritaria la ricerca del bene, ricerca del bene comune; è una vita segnata dall’amore che si dà e si riceve; è una vita riguardo alla quale molti possono dire con semplicità, vedendo chi la pratica: «È una persona buona». A chi è giovane e ha tutta la vita davanti, faccio solo questo augurio: «Si possa dire di te un giorno che hai amato molto, che la tua vita è stata una storia di amore, perciò una vita che valeva la pena vivere».

Una vita bella: è una vita che certo non può essere tale senza essere buona. Ma la vita riceve e trasmette bellezza innanzitutto dai rapporti e dalle relazioni che si intrattengono. Quando si vive l’avventura dell’amore o dell’amicizia, quando si riesce a vincere la solitudine, quando si intrattiene con la natura un rapporto di contemplazione e di meraviglia, quando si conosce la gratuità e di conseguenza la gratitudine, allora si vive una vita bella.

Una vita felice: tutti sappiamo e diciamo che «il duro mestiere di vivere» non può essere evaso. Ma nella durezza e nella fatica, finanche nelle contraddizioni, è possibile vivere frammenti di felicità. La felicità è la risposta alla ricerca di senso, il poter tentare una risposta alla domanda che ci abita: che cosa posso sperare? Vivere felicemente non è vivere senza fatica, senza conoscere contraddizioni e anche sofferenze, ma è saperle attraversare mantenendo la convinzione che abbiamo una ragione per cui vale la pena di spendere la vita. E chi conosce la ragione per cui vale la pena dare la vita, spenderla, addirittura fino a morire, ha anche in sé la ragione per cui vale la pena vivere.

Siamo umani, terrestri, come dice il nome ’adam dato dalla Bibbia all’umanità: siamo tratti dalla terra e alla terra ritorneremo (cfr. Gen 2,7.19), ma siamo capaci di bontà, di bellezza, di felicità, e questa è la vera, autentica vocazione di ogni vita. Dunque l’ars vivendi deve essere sempre presente, lungo l’arco di tutta una vita: prima accolta, poi vissuta, infine anche trasmessa alle nuove generazioni, affinché il cammino di umanizzazione non abbia inciampi e non venga meno. Confesso che ho sempre cercato, per quanto mi è stato possibile, di trasmettere una vita buona, bella e felice, non solo a quelli che sono vissuti o vivono con me, ma a tutti quelli che ho incontrato, insieme ai quali ho percorso un tratto di strada, a quelli che sono diventati lontani o non sono più in questo mondo.

Mi è dunque naturale riflettere, parlare con altri e scrivere su questa età che ormai vivo da tempo, anche se è sempre difficile calcolare gli anni. Età della vecchiaia? Sì, età in cui ci si addentra come in un paese straniero, in una terra di cui conosciamo solo poche cose. Ma attenzione: in realtà occorrerebbe parlare di «invecchiamenti», al plurale, di processi molteplici e diversi nei quali le vecchiaie sono vissute: si vive infatti da anziani, si vive da vecchi e si vive da vegliardi, anche se questi ultimi restano rari.

Della vecchiaia può parlare solo chi ne sa qualcosa, chi la attraversa. C’è un vecchio adagio, antico e sapiente: «A ogni tappa della vita l’uomo giunge come un novizio». Questa è una verità. Quando siamo giovani, arriviamo alla maturità, alla crisi dei quarant’anni o della metà della vita, e ci scopriamo di nuovo novizi, davanti a un cammino sconosciuto perché non percorso. Per questo occorrerebbe un insegnamento, occorrerebbe la consegna di un’esperienza, occorrerebbe soprattutto una trasmissione di sapienza, come vera e propria eredità, da parte di chi ha già percorso una parte più ampia di cammino: trasmettere l’arte del vivere significa legare le generazioni tra loro, creare solidarietà, traghettare da una riva all’altra e quindi da un’età all’altra quanti percorrono il cammino della vita. Trasmettere è la sola maniera di essere fedeli a ciò che si è ricevuto.

È in ogni caso significativo che da sempre, in ogni cultura e in ogni tempo, per leggere il tragitto della propria vita gli umani abbiano sentito il bisogno di ricorrere a immagini. Certo, a volte possono essere inadeguate, quando non addirittura un tranello o un’illusione, ma non ne possiamo fare a meno. Le epoche della vita possono essere evocate, per esempio, come il tragitto del sole in una giornata. Al mattino, al sorgere del sole e all’apparire della luce, è innegabile sentire un inizio del vivere. Una giornata intera ci sta davanti, ci sentiamo forti e pronti ad affrontare i diversi compiti che ci attendono. È l’inizio della giornata, e per molte responsabilità e professioni è l’ora dell’entrare nella vita con convinzione e con gioia. Questo, almeno, per chi non è nella condizione degli eterni «sdraiati». Capacità, forza, entusiasmo, volontà di realizzare progetti, collaborazione con altri, diventano l’alimento che nutre il nostro vivere.

Al termine della mattina c’è la pausa pranzo, sempre più breve, anonima, vuota di affetti e spesso considerata come un’ulteriore occasione di lavoro o di incontri professionali. Poi si riprende l’attività, fin verso sera, quando sovente si vive la frustrazione di non essere stati capaci di portare a termine ciò che ci eravamo prefissi. Resta molto da fare e a volte ci riteniamo inconcludenti…

Ed ecco giungere la sera, segnata dalla stanchezza: la cena non è più un luogo di comunione e di rinnovamento degli affetti, ma è la tavola dell’estraneità, perché i figli sono fuori, impegnati nelle loro diverse attività o con i loro amici, ed essendoci poco da dire si lascia che sia la televisione a parlare, riempiendo di rumore la cucina e il soggiorno. Infine arriva l’ora del sonno, ammesso che non sia l’insonnia a segnare le nostre notti… La giornata, con i suoi diversi momenti, sembra poter richiamare, per allusione, le diverse epoche della vita.

Alle nostre latitudini è però più facile trovare qualche tratto capace di illustrare le età della vita nel paragone con le stagioni. Nelle culture precedenti alla nostra il rapporto tra umani e natura era tale da ispirare la lettura delle fasi della vita riferendosi in modo immediato alle stagioni dell’anno. Non a caso spesso l’anno iniziava con la primavera, il tempo dello sbocciare della vita, dell’apparire dei fiori e del rivestimento degli alberi che nell’inverno parevano morti. Primavera e giovinezza sono sinonimi, in quanto stagione della vitalità che si manifesta e si impone, tempo del canto e degli amori, dello stare all’aria aperta, delle corse e della gioia di scoperte sempre nuove.

Poi l’estate, stagione della maturità, con il sole che dona giornate lunghe, riscalda e talvolta brucia. La vita trova conferme ogni giorno e cominciano ad apparire i frutti, anche se la fatica del lavoro comincia a farsi sentire.

Ed ecco la vecchiaia, accostata all’autunno, stagione che può essere bellissima, con i suoi ritmi più lenti, con lo stare bene in casa, abitando con se stessi, con l’accendere il camino verso sera, quando iniziano i primi freddi. L’autunno è un rivestirsi di colori, in particolare nella mia terra, il Monferrato, dove le vigne alle quali è strappato il frutto diventano sanguigne, dorate, violacee, verdastre, a seconda della qualità delle viti. La natura – va detto – sembra vestirsi in modo colorato, come per una festa, le foglie degli alberi mutano colore e i frutti sono raccolti. La luce del sole si attenua e la natura sembra mostrare il suo essere piuttosto che il suo dare. Molti vecchi dicono: «Per me è l’autunno, l’ultima stagione! Come diminuisce il sole, così diminuiscono le mie forze. Come si accorciano i giorni, così si accorcia la mia vita». Confesso che, passeggiando nel bosco, a volte mi fermo seduto su un sasso e guardo le ultime foglie che resistono attaccate al ramo. Osservandole, resto pensieroso. E quando il vento le fa fremere, sento tremare il cuore, nella speranza che non cadano o che, se proprio devono cadere, lo facciano danzando fino a terra, nel loro ultimo ballo.

In realtà l’ultima stagione è l’inverno con il suo silenzio, la spoliazione di tutte le piante, la scomparsa dei fiori, il riposo che sembra una morte. Anche l’inverno può essere una stagione straordinaria, con il gelo che ricama gli alberi e li inargenta, con la neve che tutto copre, assicurando alla terra riposo assoluto. Ma questa per noi umani, se siamo anziani, è la stagione «grama», di cui si ha paura, forse perché ci mette davanti la fine che ci attende.

Quella delle stagioni è una metafora eloquente dell’età della vita, che ci accompagna in modo diverso e vario lungo i nostri giorni. Più volte i poeti hanno cantato queste immagini, ed è forse consolante per gli anziani ricordare le parole di John Donne:

Nessuna bellezza di primavera
nessuna bellezza estiva
ha la grazia
che ho visto in un volto autunnale.

J. Donne, Elegia IX – L’autunnale, in Id., Liriche sacre e profane. Anatomia del mondo. Duello della morte, Milano, Mondadori, 1999, p. 25.

Indice del libro

I. Età e stagioni della vita
II. Paure
III. I segni dell’invecchiare
IV. La vecchiaia nel «grande codice»
V. Prepararsi
VI. Lasciare la presa e ricordare
VII. Natura, cucina e sessualità
VIII. Leggere, scrivere, ascoltare, vedere
IX. Senesco
X. Diario della vecchiaia

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