Con sempre maggior frequenza si parla oggi di crisi della paternità e anche della maternità, ma ritengo che nel nostro occidente si debba cogliere, alla radice di tali fenomeni, una crisi della fraternità molto attestata. Possiamo constatarla nel nostro paese dove, secondo autorevoli e puntuali letture sociologiche, sono cresciuti il rancore e la cattiveria e, attraverso la negazione di molti legami sociali, si nega la fraternità.
La fraternità come vincolo e bene essenziale alla convivenza e alla comunità, la fraternità come impegno universale è stata un’“invenzione” del cristianesimo, anche se il sentire comune la colloca all’interno della celebre triade coniata dalla rivoluzione francese: “liberté, egalité, fraternité”. Lungo i secoli, per la libertà e l’uguaglianza si è combattuto; la fraternità, invece, non ha ricevuto l’attenzione che sarebbe stata necessaria affinché libertà e uguaglianza fossero affermate con un fondamento. Esiste un diritto alla libertà e un diritto all’uguaglianza, due concetti che possono essere specificati: libertà di espressione, di movimento, uguaglianza di genere, ecc. La fraternità, invece, non ha genitivo e non può riguardare un individuo ma solo la communitas: non c’è fraternità del singolo! Per vivere la fraternità occorre sempre che ci sia l’altro e che sia affermata la relazione, la quale resta la nostra prima vocazione.
Sull’urgenza della fraternità è tornato a più riprese anche papa Francesco. Senza moltiplicare i testi e i riferimenti ai gesti da lui compiuti – penso in particolare all’importante documento “Sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune” firmato il 4 febbraio scorso ad Abu Dhabi insieme al Grande Imam di Al-Azhar –, ricordo solo quanto scriveva il 6 gennaio scorso in una lettera alla Pontificia accademia per la vita:
È tempo di rilanciare una nuova visione per un umanesimo fraterno e solidale dei singoli e dei popoli. Dobbiamo rimettere in primo piano la fraternità universale, seminata dal Vangelo del regno di Dio. Dobbiamo riconoscere che la fraternità rimane la promessa mancata della modernità. Il respiro universale della fraternità che cresce nel reciproco affidamento – all’interno della cittadinanza moderna, come fra i popoli e le nazioni – appare molto indebolito. La forza della fraternità è la nuova frontiera del cristianesimo.
Ebbene, di fronte alle patologie che ammorbano la nostra convivenza fino a minacciare la vita democratica, di fronte alle paure che sono una minaccia rinfocolata da poteri e interessi politici, di fronte al rancore che rischia di esplodere in violenza, ma anche di fronte alla globalizzazione dell’indifferenza di molti, occorre ripensare la fraternità. Fraternità come fondamento e ragione per una necessaria fiducia nella convivenza; fraternità come solidarietà tra membri di una convivenza in vista del bene comune; fraternità come incessante ricostruzione di ponti, di riconciliazioni religiose, culturali ed etniche. Ci si guardi però dal trasformare la fraternità in una parola d’ordine, nel motto del momento; si tratta invece di percepirla come la sfida, l’urgenza che determinerà anche il futuro della vita ecclesiale e del suo collocarsi nella compagnia degli uomini.
Tale cammino si fonda sulla consapevolezza che la chiesa è chiamata a essere “fraternità” non perché questa sia una sua immagine metaforica, ma perché è il suo nome proprio, la sua essenza: la chiesa, o è una fraternità oppure non è chiesa di Cristo! Non potendo approfondire la questione come meriterebbe, mi limito a ricordare alcuni dati essenziali. Innanzitutto, Gesù ha insistito con forza sulla fraternità. Nel vangelo secondo Matteo c’è un insieme di suoi detti che si rivela decisivo al riguardo: “Voi non fatevi chiamare ‘rabbi’, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate ‘padre’ nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello che è nei cieli. E non fatevi chiamare ‘guide’, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo” (Mt 23,8-10). Fondamento della fraternità è dunque Dio, il Padre di tutti, e affinché questa verità sia affermata in modo assoluto, nessuno chiami “padre” un altro sulla terra ma, invocando Dio quale Padre unico, tutti si sentano figli e figlie e, di conseguenza, fratelli e sorelle tra loro. Tale fraternità è rafforzata dall’avere come unico Maestro il Cristo, quali con-discepoli alla sua sequela.
Tra con-discepoli non vi è possibilità di un legame diverso dalla fraternità: “Voi siete tutti fratelli”! Lo siamo – ci dice Gesù – prima di volerlo diventare e prima di comprendere questa verità che possiamo smentire e sfigurare. Se Caino era fratello di Abele in una fraternità biologica (cf. Gen 4), in Cristo siamo fratelli tra di noi e figli dell’unico Padre, in una fraternità molto più radicale, generata dallo Spirito di Cristo che ci è stato dato, il quale ci permette di invocare Dio quale “Abba, Padre” e ci fa sentire la comunione delle nostre vite con la vita stessa di Cristo (cf. Rm 8,14-17). Gesù Cristo “non è arrossito nel chiamarci fratelli” (Eb 2,11), ma ha voluto essere fratello tra di noi, ha voluto essere chiamato “il primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,29; cf.Col 1,18).
Dobbiamo inoltre rilevare come nella Prima lettera di Pietro la chiesa sia chiamata “fraternità” (adelphótes). Proprio nel testo in cui la chiesa è letta come “edificio spirituale, gente santa, sacerdozio regale e popolo di Dio” (cf. 1Pt 2,4.9), essa è anche chiamata adelphótes, termine in precedenza assente nella lingua greca, che vuole designare una realtà, non una virtù indicata come “amore fraterno” (philadelphía). Pietro, l’apostolo sul quale Gesù ha edificato la sua chiesa (ekklesía: Mt 16,18), non definisce la chiesa stessa con questo termine, ma ricorre a “fraternità”. Egli invita ad amare la fraternità, cioè la comunità ecclesiale: “Onorate tutti, amate la fraternità, adorate Dio” (1Pt 2,17). “Fraternità” non è dunque un’immagine, una virtù, ma designa la realtà stessa della chiesa generata da Gesù Cristo, presente nel mondo come chiesa locale e chiesa cattolica (cf. 1Pt 5,9): la chiesa è una fraternità in cui si vive l’amore fraterno. Dispiace che, già a partire dal IV secolo, il termine “fraternità”, nome proprio indicante la realtà della chiesa, sia praticamente scomparso e ancora oggi non si sia sufficientemente attestato come luogo eminente di ecclesiologia.
D’altra parte, si deve salutare con gioia il riemergere di questo tema nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium di papa Francesco, in cui sono numerose le indicazioni riguardo all’urgenza di una chiesa fraterna. Francesco parla di “Vangelo della fraternità” (EG 179), chiede che non ci si lasci rubare l’ideale dell’amore fraterno (cf. EG 101), vuole che tutti i cristiani non perdano il fascino della fraternità (cf. EG 179) e sentano come attraente la comunione fraterna (cf. EG 99). Il papa evoca addirittura l’immagine di una chiesa come “carovana solidale, in un santo pellegrinaggio” (EG 87) dove tutti insieme si cammina per le strade del mondo, condividendo le fatiche e le gioie del duro mestiere del vivere. Una chiesa come quella intravista da Francesco sarà dunque sinodale, capace di fare cammino insieme (sýn-odós): insieme, dal papa, ai vescovi, ai presbiteri, fino all’ultimo fedele. Dicevano i pagani in riferimento ai primi cristiani: “Guarda quanto si amano vicendevolmente!”, e il papa vuole che lo si dica anche oggi, vuole che lo dicano i non cristiani guardando a una chiesa fraterna.
La fraternità-sororità è un compito che sta sempre davanti a noi. Essa va costruita giorno dopo giorno perché non è spontanea, anche se è inscritta nelle generazioni umane. Quando è realmente vissuta, la fraternità chiede che regni l’uguaglianza tra coloro che si dicono fratelli e sorelle; chiede che la dignità sia discernibile in ogni uomo perché uomo, in ogni donna perché donna; chiede che sia riconosciuta quella libertà che non offende gli altri; chiede che ognuno si prenda cura dell’altro e viva con lui il legame fraterno, cioè “ami l’altro come se stesso” (cf. Lv 19,18; Mc 12,31 e par.).
Infine, l’orizzonte della fraternità è sempre aperto al futuro: ogni essere umano prima o poi se ne va, ma dopo di lui restano i figli, resta la comunità costituita dalle nuove generazioni. Ecco perché pensare e costruire relazioni di fraternità significa lavorare per la qualità della vita di chi verrà dopo di noi. E chi comprende il suo essere debitore verso quanti lo hanno preceduto, sente a sua volta di avere una responsabilità nei confronti degli altri e del futuro collettivo dell’umanità intera. Questa è una via attraverso cui è possibile scoprire e assumere l’etica, che è sempre un costruire insieme la fraternitas, in modo da vivere con gli altri nel rispetto, nella giustizia, nella collaborazione, nella solidarietà; in modo da godere insieme della pace e della vita piena, fino a poter sperare insieme.
Pubblicato su Vita Pastorale – Rubrica “Dove va la chiesa” – Luglio 2019