Enzo Bianchi – Il sigillo della “differenza cristiana”

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Nel suo magistero papa Francesco insiste a più riprese sulla fraternità quale tema decisivo per la vita cristiana e, più in generale, per la convivenza umana. Affermava per esempio qualche anno fa, durante un’udienza generale: “Gesù Cristo ha portato alla sua pienezza anche l’esperienza umana dell’essere fratelli e sorelle” (18 febbraio 2015). E il 4 febbraio scorso ha firmato, insieme al Grande Imam di Al-Azhar, un documento sulla fratellanza umana.

Ora, se ci riflettiamo attentamente, la fraternità-sororità non è una situazione naturale, ma un compito che sta sempre davanti a noi. Va costruita umanamente giorno dopo giorno perché non è spontanea, sebbene sia inscritta nelle generazioni attraverso la nascita di fratelli o sorelle. Com’è noto, il grido della modernità occidentale è stato “libertà, uguaglianza, fraternità”: ma se la libertà può essere istituita e l’uguaglianza imposta, la fraternità non si stabilisce con una legge, viene da un’esperienza personale di solidarietà e di responsabilità. La fraternità può nascere solo da una decisione personale, sgorga dalla responsabilità del rapporto io-tu, va esercitata e rinnovata perché da essa dipende la vita di ogni essere umano.

Quando è vissuta, la fraternità chiede che regni l’uguaglianza di diritto e di fatto tra quanti si dicono, appunto, fratelli e sorelle; chiede che la dignità sia affermata in ogni essere umano in quanto tale; chiede che sia riconosciuta quella libertà che non offende gli altri; chiede che ognuno si prenda cura dell’altro e viva con lui il legame fraterno, cioè “ami l’altro come se stesso” (cf. Lv 19,18; Mc 12,31 e par.). Si legge nel primo articolo della Dichiarazione universale dei diritti umani (adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU il 10 dicembre 1948): “Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fraternità”. Dunque la fraternità è un imperativo avvertito dalla coscienza umana come decisivo e, insieme, è il comando cristiano che dichiara la fraternità contrassegnata dall’amore dell’altro, la cui esemplarità vissuta ci è stata data da Gesù.

Egli non ha parlato molto di fraternità ma si è fatto concretamente fratello di quanti incontrava, abbattendo le barriere di divisione e distruggendo i muri di separazione costruiti dagli uomini e spesso da loro attribuiti alla volontà di Dio (cf. Ef 2,14). I suoi incontri con gli stranieri come il centurione (cf. Mt 8,5-13; Lc 7,1-10) e la donna siro-fenicia (cf. Mc 7,24-30; Mt 15,21-28); con i ricchi peccatori come Zaccheo (cf. Lc 19,1-10) e Levi (cf. Mc 2,13-14 e par.); con gli uomini giusti come Natanaele (cf. Gv 1,45-51); con le prostitute e i peccatori pubblici presso i quali alloggiava e con i quali condivideva la tavola (cf. Mc 2,15-17 e par.; Mt 21,31; Lc 7,34.36-50; 15,1)…, mostrano la sua volontà di essere fratello universale di tutti, giusti e ingiusti, credenti in Dio o pagani.

In questo senso, vi è qualcosa di straordinario nell’annuncio del giudizio finale fatto da Gesù nel vangelo secondo Matteo (cf. Mt 25,31-46), che dovremmo meditare con più attenzione. Gesù definisce gli umani che si trovano nel bisogno e nella sofferenza “i miei fratelli, i minimi, i più piccoli”, e rivela che ogni atto di relazione con ciascuno di essi decide del rapporto con lui nel Regno: “Tutto quello che avete fatto a uno di questi miei fratelli, i più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). Quei fratelli di Gesù non sono i credenti, i cristiani, ma sono le vittime nella storia, i bisognosi che ogni terra e ogni tempo conosce come gli ultimi! È in primo luogo a loro che si riferisce uno splendido detto di Gesù non riportato dai vangeli canonici: “Hai visto tuo fratello? Hai visto Dio”.

Questa è la fraternità vissuta da Gesù e da lui richiesta ai suoi discepoli. Qui si innesta una riflessione, radicata nel Nuovo Testamento, sulla comunità cristiana quale fraternità. Pietro, sul quale Gesù ha edificato la sua chiesa (ekklesía: Mt 16,18), non definisce la chiesa stessa con questo termine, ma ricorre a “fraternità”: “Onorate tutti, amate la fraternità (adelphótes), temete Dio” (1Pt 2,17). Egli invita ad amare la chiesa-comunità-fraternità, quella fraternità che conosce nel mondo le stesse persecuzioni che anche i destinatari della lettera soffrono (cf. 1Pt 5,9). Anche Clemente di Roma alla fine del I secolo scrive nella sua Lettera ai Corinti: “Voi siete in lotta giorno e notte a favore di tutta la fraternità” (2,4), cioè della chiesa che è fraternità.

Fraternità non è dunque un’immagine, ma la realtà della chiesa generata da Cristo, il quale “non si è vergognato di chiamarci fratelli, dicendo: ‘Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, in mezzo all’assemblea canterò le tue lodi’” (cf. Eb 2,11-12). È lui il primogenito di una moltitudine di fratelli, preordinati a essere conformi all’immagine di Cristo (cf. Rm 8,29). Già durante il suo ministero Gesù aveva designato i suoi discepoli come suoi fratelli e sorelle (cf. Mc 3,34-35 e par.), promettendo a quanti lo avevano seguito, attraverso l’abbandono di fratelli e sorelle secondo il sangue, di ricevere il centuplo in fratelli e sorelle già ora, nella sua sequela (cf. Mc 10,29-30 e par).

Proprio nel senso della fraternità e della sororità vissute, la chiesa può dirsi la nuova famiglia di Gesù, comunità il cui legame è dato dal fare la volontà del Padre che è nei cieli. Una fraternità e una sororità che può conoscere addirittura il misconoscimento della fraternità e della sororità carnali, proprio a causa dell’appartenenza a Cristo (cf. Mt 10,34-36; Lc 12,51-53). Questo legame era talmente sentito che nella chiesa nascente i discepoli si chiamavano tra di loro fratelli e sorelle (cf. At 1,15-16; 15,23; ecc.) e sentivano come comandamento primo quello dell’amore reciproco. Amare i fratelli, amarsi gli uni gli altri, amare la fraternità, amare i figli di Dio, amare i santi: erano e dovrebbero sempre essere tutte espressioni che richiamano alla fraternità d’amore da viversi nella comunità cristiana…

Purtroppo la comprensione della chiesa come “fraternità” è andata perdendosi dopo il IV secolo. Oggi però si sente più che mai l’urgenza di ritrovare un’ecclesiologia della fraternità, la quale indichi innanzitutto che la chiesa è un popolo di fratelli e sorelle di Gesù Cristo, perciò tutti figli e figlie di Dio. Al riguardo, bisogna porsi alcune domande molto concrete: la chiesa di Dio sparsa nel mondo ha ancora i tratti di una fraternità, cioè di uno spazio in cui siamo tutti fratelli e sorelle, ognuno diverso dall’altro ma tutti uguali in dignità, uguali in forza della vocazione e del battesimo, uguali perché condividiamo ciò che abbiamo, fino a essere una comunione di fratelli e sorelle? La chiesa di Dio è una fraternità in cui tutti sono riconosciuti senza che si alzino muri o barriere per etnia, cultura, condizione economica? È infatti nell’amore fraterno che si può cogliere il sigillo della “differenza cristiana” (cf. Gv 13,35), quella capacità di fraternità e di comunione che portava i pagani a esclamare con stupore, di fronte ai primi cristiani: “Guarda come si amano!”.

Sia però chiaro: questa fraternità cristiana non è rinchiusa entro le mura di una cittadella, non può essere solo una relazione tra cristiani. Già Tertulliano confessava: “Noi cristiani siamo fratelli di tutti gli esseri umani, secondo il diritto della natura che è nostra unica madre”. La prassi di Cristo e della chiesa delle origini deve aiutarci a riscoprire che la fraternità è un legame già dato all’origine di tutta l’umanità e, in quanto tale, va costantemente riconosciuto e assunto come prima responsabilità verso l’altro. La fraternità non va mai rinchiusa entro logiche di appartenenza religiosa; d’altra parte, il Vangelo attesta ai cristiani che, senza fraternità, non possono assolutamente forgiarsi del nome di Gesù, colui che ha detto in modo autorevole e definitivo: “Voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8).

Poco più di cinquant’anni fa la costituzione conciliare Gaudium et spes affermava che la chiesa “si rivolge non più soltanto a coloro che invocano il nome di Cristo, ma a tutti gli uomini indistintamente … per offrire all’umanità la cooperazione sincera della chiesa, al fine di conseguire la fraternità universale” (§§ 2 e 3). Ne siamo ancora convinti? E la chiesa che è in Italia non sente come prima urgenza oggi di riscoprire il Vangelo della fraternità, contraddetta anche da molti che si dicono cristiani cattolici in forma di rifiuto, disprezzo, non accoglienza proprio di chi è innanzitutto fratello e sorella in umanità?

Fonte

Articolo pubblicato sulla rivista Vita Pastorale – Dove va la chiesa – Marzo 2019