Relazione che il fondatore della comunità di Bose, Enzo Bianchi, ha tenuto a Roma nel pomeriggio del 24 ottobre presso il Consiglio superiore della magistratura nell’ambito dei martedì dell’Associazione Vittorio Bachelet.
Introduzione
Tutta la storia umana, tanto a livello sociale e collettivo quanto a livello individuale e di rapporti interpersonali, conosce la tensione, non eliminabile, tra esigenze di giustizia e istanze di misericordia, cioè di perdono. Al tempo stesso, il richiamarsi reciproco di questi due poli – quale che sia di volta in volta il peso accordato all’uno o all’altro – mostra anche la loro complementarità. Giustizia e misericordia sono virtù che devono essere integrate e anche correlate nei processi inerenti alla vita associata, alla vita della polis. Giustizia e misericordia diventano perciò strutture portanti del tessuto sociale e fattori decisivi per il cammino di umanizzazione, sempre necessario e mai concluso.
Dico subito che non tenterò neppure di definire la giustizia, ma mi basta considerarla nel suo significato più ampio: la giustizia è la base di ogni ordinamento etico, e nella nostra tradizione culturale non possiamo dimenticare che il pensiero greco-latino pone l’accento su ciò che sta alla radice della costituzione della giustizia, il rapporto con gli altri (iustitia est ad alterum) e che, in particolare, il pensiero romano ha assunto al riguardo un dato ontologico al quale fare riferimento, ossia la dignità irrinunciabile della persona, sintetizzata nel principio unicuique suum.
Il concetto di giustizia ha attraversato la storia ed è stato letto anche con ottiche ideologiche e politiche, fino a svuotarsi e a essere pervertito: si pensi per esempio alla giustizia proletaria, a quella del popolo, e potremmo continuare… Certamente la giustizia deve regolare l’insieme dei rapporti sociali, ma in tale compito essa può essere soggetta a tentazioni, che si manifestano sotto forma di oscillazioni: in una società individualista la giustizia può essere ridotta a una convenzione che la considera solo in rapporto alle relazioni intersoggettive (giustizia commutativa), senza tenere conto della dimensione sociale, della communitas. D’altro canto, quando l’accento è posto solo sulla prospettiva giuridica, si corre il rischio dell’oggettivazione senza attenzione alla soggettività, cosicché la giustizia finisce per diventare summa iniuria, secondo il noto assioma “summum ius summa iniuria”. Ecco dunque la necessità dell’epieikeía, cioè del perseguimento di una giustizia superiore a quella definita, sempre imperfettamente, dalla lettera della legge, di una giustizia che sappia discernere le istanze soggettive di ciascuno.
Qui si apre dunque, ma in un orizzonte diverso, il discorso sulla misericordia, termine estraneo al diritto e tuttavia mai da esso sentito veramente estraneo, come mostra l’elaborazione di istituti diversi e con contenuto vario, quali la grazia, l’indulto, ecc. Basta evocare la comprensione diversa, nelle culture differenti e nelle varie epoche, della pena e della sua interpretazione, da punitiva, a cautelare, a rieducativa e riparativa… Non sono un giurista, perciò non sono abilitato a proporvi un contributo giuridico, ma ho accettato questo invito perché penso che, come nella nostra cultura occidentale latina, la Bibbia, ovvero il “Grande codice” (secondo la fortunata espressione di Northrop Frye), ha influenzato l’elaborazione del diritto ad Atene e a Roma, così sia possibile anche oggi ascoltare dalla Bibbia una parola proprio su questo tema: giustizia e misericordia.
1. “Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono”
Nel messaggio per la giornata mondiale della pace del 1° gennaio Giovanni Paolo II ha affermato con forza e grande convinzione che “non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono”. Come tutti voi sapete, il cristianesimo, a partire dalla profezia di Isaia contenuta nell’Antico Testamento, ha sempre affermato: “Opus iustitiae pax” (Is 32,17), ma in quell’occasione il papa ha rinnovato e accresciuto il messaggio biblico, aggiungendo per l’appunto, che “non c’è giustizia senza perdono”. Wojtyła rendeva in tal modo pubblica una confessione intima, personale e anche faticosa, come lui stesso ha ammesso:
La convinzione, a cui sono giunto ragionando e confrontandomi con la Rivelazione biblica, è che non si ristabilisce appieno l’ordine infranto, se non coniugando fra loro giustizia e perdono. I pilastri della vera pace sono la giustizia e quella particolare forma dell’amore che è il perdono … Il ministero che svolgo al servizio del Vangelo mi fa sentire vivamente il dovere, e mi dà al tempo stesso la forza, di insistere sulla necessità del perdono (§§ 2, 11).
Questa è una grande novità, un irreversibile passo in avanti nel magistero della chiesa. L’immanenza del perdono alla giustizia può anche scandalizzare, e certo richiede una ricerca profonda su come articolare queste due virtù che sembrano non coniugabili. Ma c’è di più. Il papa non si limitava a indicare questo cammino di giustizia e perdono come un itinerario personale dei cristiani, ma giungeva anche a “sperare in una ‘politica del perdono’, espressa in atteggiamenti sociali e istituti giuridici, nei quali la stessa giustizia assuma un volto più umano” (ibid. § 8). Sottolineo: istituti giuridici! Ciò significa che, all’atto di normare la giustizia, le leggi della polis dovrebbero essere in grado di legiferare tenendo conto del perdono, di quella virtù che ebrei e cristiani chiamano misericordia, parola che, etimologicamente, significa “cuore per i miseri”. La proposta è, dunque, che il perdono entri a fare parte della prassi politica, sia annoverato tra le componenti della società, riguardi i rapporti tra i popoli e le etnie, sia previsto dal diritto ed espresso in istituti giuridici. Ciò significa ripensare il concetto di giustizia punitiva in alcune legislazioni, di giustizia retributiva in altre, delle modalità della giustizia correttiva o rieducativa…
È in tale solco che mi muovo per fornire il mio contributo in questa sede: un contributo che presenti come nel “Grande codice”, e soprattutto nel cristianesimo, giustizia e misericordia possano e debbano essere coniugate.
2. La giustizia di Dio
La giustizia, tzedaqah in ebraico, è uno degli attributi principali di Dio in tutte le Scritture dell’Antico Testamento: Dio è giusto, tzaddiq, la giustizia è il fondamento del suo trono (cf. Sal 7,10-12; 9,5.8; 11,7, ecc.). Se ogni religione vuole essere una risposta alla domanda umana di senso, di giustizia e di salvezza, resta vero che nella tradizione di Israele soprattutto la giustizia di Dio è affermata come risposta agli umani da parte della divinità. Dio, infatti, proprio perché è giusto, interviene nella storia con azioni di giustizia, che tentano di instaurare quella giustizia così spesso infranta e smentita dagli esseri umani. Non a caso, la prima azione compiuta da Dio nella storia e recepita da Israele è la liberazione di una massa di oppressi, di migranti, sotto il dominio dell’Egitto con a capo il faraone. Dio si sente costretto a intervenire, perché – come sta scritto nel libro dell’Esodo – vede, ascolta, conosce la situazione ingiusta che colpisce quegli schiavi ebrei (cf. Es 3,7.8). E quando Israele sarà ormai sedentario nella terra di Canaan, Dio sarà considerato come il difensore degli oppressi, dell’orfano, della vedova, dello straniero, di coloro che sono vittime dell’ingiustizia, di coloro i cui diritti vengono violati e negati. La prima azione di Dio è pertanto quella del giudice che interviene per ristabilire la giustizia.
Di conseguenza, nell’Antico Testamento il credente in alleanza con Dio ha come primo attributo l’essere giusto, tzaddiq, a sua immagine. Nel libro di Geremia c’è un testo, tra gli innumerevoli che potrei citarvi, estremamente significativo al riguardo. A nome di Dio il profeta si rivolge al re Ioiakìm, uno dei tanti dei quali sta scritto che “fece ciò che è male agli occhi del Signore “ (2Re 23,37). Cosa fece di male? Non instaurò la giustizia, come era suo compito essendo messia (unto) e figlio di Dio. Geremia dunque gli rivolge con grande ironia questo monito:
Guai a chi costruisce la sua casa senza giustizia
e i suoi piani superiori senza equità,
fa lavorare il prossimo per niente,
senza dargli il salario …
Pensi di essere un re
perché sei riuscito a costruirti un palazzo lussuoso e spazioso? …
Ricordati di tuo padre Giosia, che praticava il diritto e la giustizia,
e così era veramente re.
Difendeva la causa del povero e dell’oppresso,
e così era veramente re.
Non è forse questo che significa conoscermi? (Ger 22,13.14-16).
Sì, praticare la giustizia è conoscere Dio. Questa intuizione profetica è straordinaria, perché dice che si conosce veramente Dio non nei riti, non nelle osservanze ascetiche, ma facendo e vivendo la giustizia. La fede di Israele confessa dunque che “il Signore è giusto”, e chi crede in lui deve vivere la giustizia.
Ma questa giustizia di Dio è sovente legata al concetto di “misericordia”, espresso da una costellazione di termini (chesed, chen, rachamim). Dio è giusto, per questo è anche amante, capace di grazia, compassionevole. Insomma è capace di un amore gratuito, preveniente, che non va mai meritato. Quando Dio rivela il suo Nome santo a Mosè, quest’ultimo ascolta l’acclamazione: “Il Signore, il Signore [tetragramma impronunciabile], Dio misericordioso e compassionevole, lento all’ira e grande nel perdono…” (Es 34,6). Di questo legame tra giustizia e misericordia-perdono vi è testimonianza in un brano di Osea purtroppo non tradotto fedelmente dall’ebraico nella Bibbia italiana ufficiale. Il profeta (nabi’, pro-phetés, cioè il porta-parola di Dio), ci presenta Dio stesso che constata la rottura dell’alleanza da parte del suo popolo: Israele ha fatto il male, ha tradito il patto con Dio, dunque in nome della giustizia dovrebbe essere rigettato dall’alleanza perché questa è stata da lui infranta, dovrebbe essere punito e castigato. Ecco allora il soliloquio da parte di Dio:
Il mio popolo è ostinato nel male
[dunque dovrei allontanarlo da me per la sua ingiustizia].
Ma io potrei forse abbandonarti?
Potrei cacciarti via e di consegnarti ad altri?
Dentro di me il mio cuore si rivolta
e il mio intimo freme di compassione.
No, non darò sfogo alla mia collera,
perché sono Dio non, non sono un uomo,
sono il Santo in mezzo a te
e non verrò a te nella collera del castigo (Os 11,7-9).
Dio avrebbe una giustizia da instaurare, ma non la compie a mo’ di pena punitiva, come penserebbe una giustizia umana, bensì ha nel suo cuore un sentimento che si ribella all’esecuzione di una giustizia legale: per questo fa misericordia. Questa – dice il profeta – è la santità di Dio, il suo modo di agire in cui giustizia e misericordia sono immanenti l’una all’altra e non in concorrenza. In Dio non c’è una giustizia alla quale si applica il correttivo della misericordia, ma la sua giustizia è capace di contenere la misericordia, il perdono. Potremmo dire che in Dio c’è un prevalere della misericordia sulla giustizia? Sì, ma senza pensare a una giustizia priva di misericordia. Per questo, il Nome santo di Dio, cui facevo riferimento poc’anzi, contiene in sé i termini di misericordia e compassione non solo nella Torah ma anche nei Profeti (cf. Gn 4,2) e negli Scritti (cf. Ne 9,17; 2Cr 30,9), soprattutto nei Salmi (cf. Sal 86,15; 103,8; 111,4; 145,8). A questo proposito è molto suggestiva l’immagine rabbinica dei due troni di Dio: quando Dio dichiara e promulga la Legge, sta seduto sul trono della giustizia; ma quando deve giudicare e formulare il giudizio, allora si siede sul trono accanto, quello della misericordia (cf., per esempio, Talmud di Babilonia, Abodah zarah 3b).
3. La giustizia secondo Gesù
Il grande messaggio su giustizia e misericordia è approfondito e rivelato in pienezza nel Nuovo Testamento dalle parole e dai gesti di Gesù di Nazaret. Nella sua vita umanissima egli ha voluto narrarci Dio (exeghésato: Gv 11,18), il Dio giusto e misericordioso nel quale egli confidava quale figlio dell’alleanza stretta da Dio con i padri di Israele. Possiamo anche constatare che, proprio sul tema della giustizia, richiesta dal suo maestro Giovanni il Battista in vista del giorno del giudizio di Dio (cf. Mt 3,7-12; Lc 3,7-18), Gesù porta a compimento la Legge e i Profeti. Non a caso l’evangelista Matteo, che redige il Vangelo in ambiente giudaico, testimonia queste parole di Gesù: “Se la vostra giustizia non supera [o non abbonda più di (verbo perisseúo)] quella di scribi e farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5,20). Questo non significa – come purtroppo molti comprendono – che la giustizia degli scribi dei farisei fosse ipocrita; no, era un adempimento della giustizia prescritto dalla Torah, dalla parola di Dio. Gesù però osa risalire all’intenzione del Legislatore, non si ferma alla norma oggettiva, chiedendone invece un adempimento più radicale e profondo.
Ciò che di peculiare il Vangelo ci testimonia è la misericordia di Gesù superiore a ogni giustizia, intesa come legalità. Per questo egli ha potuto dire: “Non sono venuto a chiamare i giusti (díkaioi) ma i peccatori” (Mc 2,17 e par.). Ma come possiamo riassumere il rapporto tra giustizia e misericordia nella predicazione di Gesù? Soprattutto ricorrendo ad alcune sue affermazioni. Innanzitutto Gesù ha affermato che occorre spezzare il rapporto tra “delitto e castigo”, titolo del celebre romanzo di Fëdor Dostoevskij, che esprime bene un principio a lungo predicato dalla chiesa. No, al delitto deve seguire la misericordia, “settanta volte sette” (Mt 18,22), cioè all’infinito: nei rapporti umani misericordia e perdono devono sempre essere affermati, perché questo è l’atteggiamento di Dio nei nostri confronti. Nella preghiera insegnata ai suoi discepoli Gesù ne fa addirittura la condizione per ricevere misericordia:
Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori … Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe (Mt 6,12.14-15).
La giustizia di Dio è infatti gratuita e preveniente rispetto alla nostra risposta: gratuita, perché l’amore e la misericordia di Dio non vanno mai meritati; preveniente, perché Dio per primo ci propone la relazione con lui, chiedendoci di accogliere il suo amore prima di rispondergli con il nostro.
La giustizia non è meritocratica, come insegna la parabola degli operai inviati nella vigna, i quali ricevono tutti lo stesso salario pur non avendo lavorato lo stesso numero di ore (cf. Mt 20,1-16). In questo caso, la legalità non è violata, perché agli operai della prima ora il Signore dà quanto ha con loro pattuito; ma agli ultimi, che senza questa eccezione non avrebbero ricevuto il necessario per vivere insieme alle loro famiglie, vuole dare un salario uguale a quello dei primi. Questa è la giustizia secondo Gesù e il suo Vangelo.
Certo, una tale giustizia scandalizza: ha scandalizzato i contemporanei di Gesù in Galilea in Giudea, e scandalizza ancora oggi. Ma questo è il messaggio che non pretende certo di essere realizzato in modo fondamentalista nella comunità dei credenti, eppure credo che vada accolto con attenzione e facendo discernimento, per vedere se in esso non vi sia un’ispirazione anche per l’affermazione e l’esercizio della giustizia qui e ora, nella polis.
Nei vangeli vi è una pagina particolarmente scandalosa, a tal punto che ha faticato a lungo a trovare posto nelle Scritture canoniche. La chiesa d’oriente l’ha ignorata per più di un millennio e la chiesa latina l’ha conservata, dandole però una collocazione molto tarda (e probabilmente fuori posto) nel capitolo ottavo del quarto vangelo. Solo nel concilio di Trento, dunque a metà del secondo millennio cristiano, questo testo fu chiaramente definito vangelo “canonico”, autentico. Mi riferisco alla famosa pagina dell’incontro di Gesù con la donna sorpresa in flagrante adulterio (cf. Gv 8,1-11). La Legge era precisa al riguardo e dichiarava, per l’adultero e l’adultera:
Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno essere messi a morte (Lv 20,10).
Quando un uomo verrà trovato a giacere con una donna maritata, tutti e due dovranno morire: l’uomo che è giaciuto con la donna e la donna. Così estirperai il male da Israele. Quando una fanciulla vergine è fidanzata e un uomo, trovandola in città, giace con lei, condurrete tutti e due alla porta di quella città e li lapiderete a morte: la fanciulla, perché, essendo in città, non ha gridato, e l’uomo perché ha disonorato la donna del suo prossimo. Così estirperai il male in mezzo a te (Dt 22,22-24).
In ossequio a tali norme, una donna (e solo lei!) viene portata a Gesù dai nemici di lui, pii osservanti della Legge. Si servono di lei non come persona ma come un mero caso giuridico per trarre in inganno Gesù, in modo da poterlo accusare come disobbediente e ribelle alla Legge. Sappiamo però che Gesù, pur senza mettersi contro la Torah di Mosè, chiede che quanti sono pronti a lapidare la donna siano senza peccato. Allora costoro lasciano cadere le pietre e se ne vanno. E Gesù dice alla donna: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? … Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più” (Gv 8,10-11). Le parole: “Neanch’io ti condanno”, sospendono la legge infranta e fanno regnare solo la misericordia. Ecco lo scandalo! Di qui la contestazione di Gesù da parte dei legalisti e degli osservanti: ma allora dove sta la giustizia? E sarà proprio questo aver compreso e annunciato la giustizia di Dio come contenente la misericordia, che porterà Gesù alla condanna e alla morte. Va ribadito con chiarezza: per Gesù il perdono, la misericordia sono una giustizia superiore!
Significativamente l’apostolo Giacomo, convinto, quale discepolo di Gesù, che la misericordia non deve temperare la giustizia, bensì deve temprarla, rendendola capace di affermarsi nella concretezza della vita, scrive:
Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo la legge della libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà fatto misericordia. La misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio (Gc 2,12-13).
Questo, in sintesi, l’essenziale del messaggio di Gesù riguardante giustizia e misericordia.
Conclusione
Vi ho parlato di un ordine diverso, quello della gratuità e del dono, e sono consapevole che questo non può coincidere del tutto con l’ordine della giustizia. Ma siccome il diritto è una creazione umana e può ricevere ispirazioni da ciò che gli umani vivono, credono e sperano, mi auguro che sia possibile l’esercizio di una giustizia misericordiosa, una giustizia che possa ispirarsi alle acquisizioni del pensiero umano, religioso o non religioso.
In tal senso, concludo ricordando una parola decisiva per la chiesa proferita da papa Francesco nei giorni scorsi. Facendo memoria del venticinquesimo anniversario dalla promulgazione del Catechismo della chiesa cattolica, il papa ha ammesso che vi è un’evoluzione anche della dottrina cattolica, proponendo perciò di modificare atteggiamenti ed espressioni riguardanti il tema della pena capitale. Consapevole che nella storia anche lo stato pontificio ha comminato ed esercitato questa pena, Francesco ha chiesto perdono, affermando che “la pena di morte lede pesantemente la dignità umana … È una misura disumana che umilia, in qualsiasi modo venga perseguita, la dignità personale. È in se stessa contraria al Vangelo, che vieta di sopprimere vite umane” (Discorso ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, 11 ottobre 2017).
È un mutamento della dottrina al quale deve fare seguito un mutamento anche del diritto canonico. Si tratta di un atto coraggioso, ma che il papa ha saputo compiere e che sarà tradotto in istituto giuridico. Anche questo gesto può ispirare iniziative di alto profilo da parte del diritto, a uomini e donne del diritto quali voi siete.