Enzo Bianchi – Gesù affascina ancora oggi

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La chiesa che è in Italia è dotata di molti doni ed è ancora una realtà viva in questa nostra società segnata dalla secolarizzazione, certo, ma soprattutto dall’indifferenza verso ciò che costituiva la sua anima fino a mezzo secolo fa: la “religione cattolica”. Non siamo ancora in una situazione di cristiani in diaspora e neppure di piccole comunità di credenti che testimoniano il Vangelo in condizione di minoranza, potendo contare solo sulla loro capacità profetica. Il panorama è variegato, con diverse sfumature, ma ci sono ancora regioni in cui le comunità cristiane sono realtà visibili, eloquenti, nelle quali, seppur in diminuzione, non sono esigue le vocazioni al ministero presbiterale.

Vi è dunque una grande opportunità, una chance per il cristianesimo e di conseguenza per le chiese, che dovrebbero restare vigilanti più che mai e dotarsi di un nuovo soffio di vita. Sono cioè chiamate a favorire una maturazione della soggettività dei battezzati, un rinnovamento della fede, sempre più pensata, e l’esercizio di uno stile che sappia essere eloquente, trasmettendo il Vangelo agli uomini e alle donne che ancora chiedono, anche se in modo non esplicito: “Vogliamo vedere Gesù” (Gv 12,21).

Siamo tutti consapevoli del grande mutamento in atto, con velocità accelerata, negli ultimi dieci anni: sono vistosi sia la diminuzione dei partecipanti all’eucaristia domenicale sia l’assottigliarsi della presenza delle donne nelle liturgie e nelle diverse diaconie parrocchiali. Ma soprattutto le nuove generazioni sono segnate da incertezze nel credere, da mancanza di appartenenza alla chiesa, da rigetto delle immagini tradizionali di Dio e della morale tradizionale cattolica. La loro terra è “la terra di mezzo”, senza le polarizzazioni dell’ateismo o della militanza religiosa. Le analisi, non solo sociologiche ma squisitamente ecclesiali, che Armando Matteo e Alessandro Castegnaro hanno proposto di questi fenomeni, ci ammoniscono da tempo sul cammino da percorrere. 

Non siamo ingenui e sprovveduti, né entusiasti, ma crediamo che anche in questa situazione segnata da tendenze preoccupanti sia possibile avere fiducia per il futuro del Vangelo. Infatti, anche se oggi il discorso su Dio è diventato addirittura un ostacolo alla fede, anche se la chiesa con le sue miserie e fragilità non gode di buona fama, tuttavia il Vangelo e Gesù Cristo continuano a intrigare, ad affascinare i nostri contemporanei. È significativo che oggi l’ateismo militante abbia conosciuto una “dolce morte”, che gli atei non si professino più tali, che i non credenti confessino di “credere” e che, in ogni caso, tutti mostrino nei confronti di Gesù di Nazaret grande attenzione, simpatia, interesse. Ed è emblematico che un libro di Massimo Cacciari su Maria e una sua recente intervista sul Natale autentico di Gesù, abbiano avuto grande eco nella società, oltre che presso i cristiani.

Questo è un tempo favorevole per un’evangelizzazione che non sia proselitismo, né propaganda né arrogante apologia, ma sia una proposta semplice e chiara del Vangelo, nient’altro che del Vangelo. Quali sono dunque le urgenze per la chiesa? Ne indichiamo alcune, senza la pretesa di essere esaustivi o di interpretare in modo complessivo e unico i cammini che oggi ci paiono aprirsi.

Innanzitutto credo sia necessaria una conversione di prospettiva. Siamo abituati a pensare il cristianesimo come un’eredità del passato da conservare gelosamente, impedendo ogni possibile impoverimento e discontinuità. Tale preoccupazione non va sottovalutata né tantomeno tralasciata. La chiesa è cattolica non solo nell’estensione sulla terra, ma anche nel tempo: dalla Pentecoste fino a noi, la chiesa è una comunione che non può smentire se stessa, né amputare le sue radici. Resta però vero che, come scriveva profeticamente Aleksandr Men’, “il cristianesimo non fa che iniziare, ogni giorno inizia”. Occorre che noi pensiamo il cristianesimo come inadempiuto, non ancora realizzato, un cristianesimo che sappia esplorare nuove vie nella storia e nella società, che entri in consonanza con le domande degli uomini e delle donne di oggi, i quali sono soprattutto in ricerca di senso.

Si tratta di non avere paura di andare al largo, su acque profonde (cf. Lc 5,4), verso nuovi lidi che ci permetteranno di sperimentare nuovi modi e nuovi stili di vivere il Vangelo, nuovi modi di invocare Dio, nuovi linguaggi per dire la nostra speranza nell’amore più forte della morte. La società fondata sull’immagine di un Dio evidente, che si imponeva come potenza assoluta, un Dio di cui non dubitavano né la filosofia né la cultura, è ormai lontana, alle nostre spalle e incapace di intrigare gli uomini. La parola “Dio” è diventata ambigua e, quando ascolto i giovani delle nuove generazioni, li sento associare Dio al fanatismo, al terrorismo, all’intolleranza; nella migliore delle ipotesi lo concepiscono come un’entità indefinita che tutte le religioni propongono, l’una in concorrenza con l’altra. Perciò i giovani di oggi hanno perso ogni interesse per Dio. Se per la mia generazione la formula quaerere Deum, “cercare Dio”, era fonte di grande passione, oggi solo attraverso un quaerere hominem, una ricerca dell’umano, si può instaurare un dialogo con i giovani, dialogo che non può non mettere in evidenza Gesù di Nazaret, colui che con la sua vita di uomo, pienamente umana, autentica umanizzazione, ha raccontato Dio (exeghésato: Gv 1,18).

La visione trionfante e autoritaria di Dio è ormai afona, e oggi mi pare urgente uscire anche dal paradigma che ha dichiarato la sua morte. Di fatto abbiamo attualmente la grazia di essere stati liberati da assetti religiosi, ma venati di idolatria, che davano al nostro Dio un volto “perverso”. Senza dimenticare che i maestri dell’ateismo ci hanno obbligato a riscoprire in altro modo il Dio che pensavamo di conoscere bene e a rileggerlo a partire dalle sante Scritture, in particolare dal Vangelo. Comprendiamo dunque più che mai le parole dell’Apocalisse di Giovanni: “Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine” (Ap 22,6), perché esplicitano che, nella convivenza sociale, Dio non è il fondamento condiviso né una garanzia di provvidenzialismo, ma appare il Dio che viene ogni giorno della storia, là dove gli esseri umani si incontrano e tessono insieme la loro vita con responsabilità. Non bisogna dunque temere un cristianesimo inadempiuto, caratterizzato da novità che oggi non supponiamo. Dio continua a dirci: “Ecco, io faccio una cosa nuova. Proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19). Il Signore viene per tutta l’umanità, chiedendole di vivere, come è venuto nella carne di Gesù di Nazaret “per insegnarci a vivere in questo mondo” (cf. Tt 2,12). Quando parla di una chiesa “in uscita”, papa Francesco indica anche una chiesa aperta al futuro, al nuovo, al non preventivato, al non prevedibile.

In questa conversione pastorale di sguardo dal passato al futuro occorrerà battere strade inedite, correndo il rischio di una nuova enunciazione della fede. Si tratta non solo di rinnovare il linguaggio ma, più in profondità, di osare – come fece l’Apostolo Paolo – un’operazione transculturale, in modo che la salvezza, la liberazione portata da Cristo e il messaggio della sua resurrezione siano esprimibili ed eloquenti oggi nelle diverse culture. Per questo è richiesta grande fiducia nel popolo di Dio, popolo profetico, cioè chiamato a parlare a nome di Dio all’umanità. Fare fiducia al popolo di Dio significa essere veramente convinti che a ogni battezzato spetti la missione di testimoniare ed evangelizzare e che a ogni cristiano spetti il compito di edificare la chiesa, la quale ha come suo primo nome “fraternità” (adelphótes), secondo la Prima lettera di Pietro (2,17; 5,9). Se la comunità cristiana riesce a essere fraternità, grembo dell’amore di Dio, e dunque maternità generatrice, il Vangelo potrà compiere la sua corsa nel mondo, con esiti imprevedibili ma ispirati dallo Spirito e da lui resi dinamici ed efficaci.

Tutto questo, sempre accompagnato dalla convinzione fondamentale, essenziale: ieri, oggi, sempre occorre guardare a Gesù di Nazaret, al suo stile, fonte di ispirazione in ogni tempo e in ogni terra. Quando egli riesce a emergere con la sua autorevolezza, con la sua coerenza tra il parlare, l’operare e il sentire, allora gli uomini e le donne sono attirati. Sì, attirati, secondo la sua promessa: “Quando mi vedranno nell’atto di dare la vita e di affermare solo l’amore, contro ogni inimicizia e violenza, di affermare il perdono invece della vendetta, allora si sentiranno tutti attirati da me” (cf. Gv 12,32).

Articolo pubblicato su: Vita PastoraleVIA