Nel suo intervento all’inizio dell’assemblea generale dei vescovi italiani tenutasi a fine maggio, papa Francesco ha manifestato tre preoccupazioni per la chiesa che è in Italia e di cui egli è anche il primate. Con la sua solita franchezza ha detto di voler condividere ciò che nel suo cuore lo interroga e lo fa soffrire: non per “bastonare”, rimproverare i vescovi o la chiesa, ma per mettere in evidenza le urgenze ecclesiali che richiedono innanzitutto consapevolezza, quindi anche adeguati tentativi di risposta. Queste le sue parole:
La prima cosa che mi preoccupa è la crisi delle vocazioni. È la nostra paternità quella che è in gioco qui! Di questa preoccupazione, anzi, di questa emorragia di vocazioni, ho parlato alla Plenaria della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, spiegando che si tratta del frutto avvelenato della cultura del provvisorio, del relativismo e della dittatura del denaro, che allontanano i giovani dalla vita consacrata; accanto, certamente, alla tragica diminuzione delle nascite, questo “inverno demografico”; nonché agli scandali e alla testimonianza tiepida. Quanti seminari, chiese e monasteri e conventi saranno chiusi nei prossimi anni per la mancanza di vocazioni? Dio lo sa. È triste vedere questa terra, che è stata per lunghi secoli fertile e generosa nel donare missionari, suore, sacerdoti pieni di zelo apostolico, insieme al vecchio continente entrare in una sterilità vocazionale senza cercare rimedi efficaci. Io credo che li cerca, ma non riusciamo a trovarli!
Le altre due preoccupazioni del papa riguardano la povertà evangelica nella chiesa e la necessità di una riduzione e accorpamento delle diocesi, oggi troppo numerose rispetto ai nuovi assetti della popolazione e del territorio. È sulla prima preoccupazione di Francesco che vorrei riflettere, ben sapendo che essa ha connessioni con lo stile di povertà della chiesa e con la sua collocazione nella compagnia degli uomini, nella storia e nel territorio dell’Italia.
Il tema della crisi, della mancanza delle vocazioni è ben presente e sentito in modi molto diversi nella nostra chiesa, perché l’emorragia delle vocazioni, l’abbandono del ministero assunto o dell’alleanza nella vita religiosa, il rarefarsi numerico di chi inizia a percorrere questi cammini di sequela del Signore, sono fenomeni attestati da decenni, potremmo dire almeno dagli anni ’70 del secolo scorso. Oggi la situazione è semplicemente diventata tragica per tutta la vita religiosa ma anche per la vita presbiterale, perlomeno in alcune regioni del nostro paese che mostrano una sterilità senza precedenti; altre invece appaiono ancora capaci di una fecondità che assicura abbondanza di pastori per le comunità cristiane. Il sinodo dei vescovi che si vivrà nel prossimo ottobre affronterà significativamente proprio il tema della vocazione e del suo discernimento nel mondo giovanile, e si spera che possa essere un’occasione per delineare strade di fecondità del grembo delle comunità cristiane.
Sembra dunque che la consapevolezza della gravità della crisi sia ormai assunta da tutta la chiesa. Ma come interpretare tale crisi, dalla quale dipende il futuro delle comunità cristiane, soprattutto nelle nostre terre di antica cristianità? Sono assolutamente vere e condivisibili le cause elencate da papa Francesco: denatalità, secolarizzazione, relativismo, cultura del provvisorio e dell’incertezza, nuove comprensioni in materia di etica e sessualità, ecc. Conosciamo tutti e bene queste patologie, che inibiscono e impediscono scelte totalizzanti, scelte di servizio ai fratelli e alle sorelle, all’umanità e alla chiesa. Ma è doveroso interrogarsi su possibili contraddizioni da parte della chiesa stessa, contraddizioni alla vocazione quale azione del Dio fedele verso la sua comunità.
Ecco allora emergere alcune precise domande, necessarie quanto le risposte che non sempre sappiamo dare. Quella che chiamiamo crisi di vocazioni è veramente tale, oppure è una crisi della fede, della fede-fiducia che si è fatta debole anche nella comunità cristiana e che si manifesta come mancanza di fede nella vita, nel futuro, in ciò che potremmo essere chiamati a vivere e a realizzare? C’è nella comunità cristiana la consapevolezza di dover essere generativa, e non solo di una nuova generazione cristiana alla quale trasmettere la fede, ma anche di cammini di cui la comunità cristiana ha bisogno per essere memoria del Vangelo, memoria vivente di Gesù Cristo?
A volte mi pare di poter definire il grembo della comunità cristiana come “abortivo”. Abortivo, sì, perché incapace di fare crescere quei germogli di vocazione che non mancano mai in un giovane che si affaccia alla vita. Se infatti nella comunità cristiana vengono meno quelli che fanno segno, che sanno indicare i cammini della vocazione; se c’è afasia e di conseguenza domina il “Così fan tutti”; se è afono chi dovrebbe porre domande ai giovani e quindi accompagnarli, pur senza imposizioni, su cammini nei quali possa emergere una vocazione, allora il grembo ecclesiale, che a mio avviso non è mai del tutto sterile, risulta però abortivo. Viene così a mancare la “cultura della vocazione”, cioè quell’ambiente, quel clima nel quale un giovane può porsi la domanda: “Signore, che cosa vuoi che io faccia?”. Detto altrimenti: “C’è una parola per me oppure sono solo io che devo cercare, trovare e decidere, senza che vi sia un orientamento, un po’ di luce che illumini il mio cammino?”. Questa, in sintesi, la domanda che ascolto da tanti giovani e che ai miei orecchi risuona come un grido privo di eco e di ascolto.
Secondo la mia lunga esperienza di ascolto di giovani e di accompagnamento nelle diverse vocazioni, mi pare doveroso e urgente manifestare alcune convinzioni e osservazioni. In primo luogo è necessario mettere oggi in evidenza che a ogni essere umano è rivolta una vocazione: è appunto la vocazione umana, la vocazione alla pienezza della vita. Non sorprenda questa espressione, non a caso attestata anche in un documento conciliare (cf. Gaudium et spes 16). Ogni uomo, ogni donna avverte una chiamata, sente un impulso, un desiderio che lo chiama uscire da se stesso, che gli chiede di essere capace di responsabilità, dunque di rispondere. Quando un essere umano sente questa chiamata, è spinto a decifrarla, a scegliere cosa fare della propria vita, cogliendola come unica. Normalmente questo processo si manifesta nell’adolescente, nel giovane: cosa fare per non buttare la propria vita, per viverla in pienezza, per trovare in essa un senso? Il mestiere di vivere è faticoso, duro, ma può essere buono, bello e beato, se la vocazione diventa il mestiere di vivere.
Se invece il vivere è senza vocazione, allora diventa intollerabile, e la vita si fa “liquida”, sfilacciata, frammentata, inconcludente. C’è una vocazione umana che va assolutamente affermata, prima di tutte le altre specifiche vocazioni cristiane che possono solo nascere e crescere in chi vive in pienezza tale vocazione alla vita umana. Non lo si deve dimenticare, perché oggi questa mancanza di humus della vocazione umana, questa sua non percezione impedisce l’innesto in essa di una vocazione cristiana al matrimonio, al ministero ordinato o alla vita religiosa.
Quanto poi alla cosiddetta “pastorale vocazionale”, ne conosciamo i limiti e sovente anche la sterilità. Se manca la presenza concreta e quotidiana di chi può accendere il fuoco nel cuore dei giovani, se non c’è l’audacia di fare segno, se le indicazioni riguardano soltanto un impegno – pur buono, caritatevole, generoso – mentre non si favorisce la vita interiore, allora è una pastorale che assorbe tante forze ma resta infeconda.
Sì, la comunità cristiana oggi deve saper essere il soggetto che, nella potenza dello Spirito santo, chiama e nel suo seno sa generare uomini e donne dei quali la chiesa ha bisogno. E solo se sarà capace di far sentire la vocazione alla vita umana, sarà anche capace di aiutare a discernere le chiamate particolari, sui differenti sentieri della sequela. L’abbiamo già scritto su questa rubrica e l’ha detto anche il papa ai vescovi: in regioni come la Puglia vi sono chiese con un grembo capace di generare presbiteri ma non religiosi e religiose. Perché avviene questo, in una sorta di capovolgimento di tendenza? Piemonte, Liguria e Toscana mostrano una grande sterilità di tutte le vocazioni particolari: i monasteri chiudono, i frati lasciano i conventi, le suore sembrano scomparire, i presbiteri sono pochi e affaticati, nonostante la loro testimonianza evangelica e il loro stare in mezzo alla gente…
La chiesa italiana, e al suo interno soprattutto i vescovi e i superiori religiosi, deve dunque interrogarsi profondamente, in questo momento in cui la chiesa cattolica sta silenziosamente mutando il suo volto senza che vi sia un’assunzione di responsabilità e una sufficiente consapevolezza in merito. Una chiesa senza suore, senza frati e senza monaci, sarà certamente cattolica, ma impoverita perché priva di una testimonianza decisiva della memoria del Vangelo.
Fonte – Articolo pubblicato su Vita Pastorale di ENZO BIANCHI