Enzo Bianchi – Commento al Vangelo di venerdì 25 Dicembre 2020

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Significativamente nel martirologio odierno si legge: “Commemoratio Nativitatis Domini nostri Jesu Christi”. Natale è una memoria, anzi la memoria per eccellenza, perché ricorda la nascita di Gesù da Maria a Betlemme, una nascita che significa molto più della nascita di un bambino che viene nel mondo. Perché in verità noi possiamo proclamare che con quel parto Dio si è fatto uomo come noi, che la Parola di Dio si è fatta carne (cf. Gv 1,14), che Dio è diventato l’Immanu-El, il Dio-con-noi (cf. Mt 1,23; Is 7,14), solidale in tutto con noi, assumendo la nostra precarietà dal concepimento fino alla morte.

Questa è la buona notizia, il Vangelo che l’angelo annuncia come “grande gioia per tutto il popolo”. Questo è il cuore della nostra fede cristiana, una fede che non può entrare in concorrenza con le religioni e i loro dèi, perché ciò che proclama è l’inaudito: un Dio-uomo, carne mortale, un Dio che non si è limitato ad avere cura di noi ma ci ha amato fino a voler essere uno di noi, nella condivisione reale e radicale di ciò che noi siamo.

Ma sostando su questo evento siamo meravigliati anche dalla forma di questa venuta, dallo stile dell’incarnazione. Dio non è venuto tra di noi con la sua potenza, il suo splendore, la sua gloria, imponendosi al mondo; non è apparso in una teofania che avrebbe destato timore e tremore. No, Dio si è manifestato nell’umiltà, nella semplicità di una vicenda i cui soggetti sono uomini e donne poveri, che non emergono, senza grandi ruoli. Dio è venuto tra di noi “svuotandosi” delle sue prerogative divine, e possiamo dire che si è abbassato fino a prendere l’ultimo posto tra di noi, quel posto di schiavo che non gli sarà mai rubato (cf. Fil 2,5-8). La forma e lo stile di questa venuta di Dio tra di noi erano inattesi, e anche per questo molti hanno inciampato e hanno trovato occasione di scandalo in Gesù.

Non la logica mondana, neppure la logica dei profeti dell’Antico Testamento si intravedeva nella venuta messianica del Figlio di Dio. Potremmo dire che Natale manifesta un “Dio al contrario”, il quale non si rivela né con potenza né con splendore accecante, e un “Messia al contrario” che nasce tra poveri, come un povero, in una stalla, deposto in una mangiatoia. Il cristianesimo è tutto qui, in questa contemplazione di un Dio fatto povertà, di un Eterno fatto mortale, di un Onnipotente fatto infante, di un tre volte Santo diventato terrestre, mortale. Insomma, uno di noi, uno tra di noi, uno con noi!

Nella pagina del vangelo proclamata nella notte di Natale è significativa la presenza dell’imperatore di Roma, Cesare Augusto: lui sì che comanda, che ha potere su tutta la terra, fino a ordinare il censimento. Ed è proprio questo censimento che consente a Giuseppe e a Maria di spostarsi da Nazaret di Galilea a Betlemme, e dunque consente la nascita del Messia nella città di David: in verità chi regge e disegna la storia è Dio, non Cesare Augusto… È anche significativo che, avvenuta quella nascita, l’annuncio della gioia grande sia rivolto a pastori, cioè a poveri, e a poveri periferici, esclusi anche dalla vita religiosa del tempio.

A loro è svelata la gloria di Dio in quella nascita, a loro è detto l’amore di Dio che porta la pace. E proprio questi poveri, ai quali è svelato il mistero, obbediscono e vanno a vedere ciò che si presenta umanissimo: una donna che ha partorito, un figlio appena nato, un padre che è il custode di quella nascita (cf. Lc 2,15-16). Nella loro povertà i pastori hanno capito che quella non era una nascita qualunque, anche se la sua forma era quella che conoscevano. Per questo glorificano Dio e trasmettono l’annuncio della grande gioia che hanno ricevuto (cf. Lc 2,17.20).

Da quella notte non si può più dire Dio senza mettergli accanto la parola uomo, perché Gesù è il Dio-uomo, perché la nostra mortalità è entrata in Dio e la vita di Dio è entrata in noi. Natale è la nascita di Gesù ma è anche il “coniugamento”, le nozze tra Dio e l’umanità.

Fonte: il blog di Enzo Bianchi