Enzo Bianchi – Commento al Vangelo di domenica 29 Agosto 2021

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C’è peccato quando c’è ferita all’amore

Mc 7,1-8.14-15.20-23

Il male, l’impurità, sta dove manca l’amore e non in altri luoghi in cui gli uomini religiosi vorrebbero trovarlo per mantenere in vita la loro costruzione. Il male, l’impurità, non sta nelle cose, ma è in noi, nella nostra scelta tra l’amore e l’odio, tra il riconoscere l’altro e l’affermare solo noi stessi, tra la nostra volontà di comunione e la nostra voglia di separazione.

Dopo i brani tratti dal capitolo sesto del vangelo secondo Giovanni, la catechesi su Gesù quale “parola e pane della vita”, ritorniamo alla lettura cursiva del vangelo secondo Marco. Lo avevamo lasciato con il racconto della prima moltiplicazione dei pani (cf. Mc 6,30-44), lo ritroviamo con la lettura di alcuni estratti del capitolo settimo, che raccoglie parole di Gesù eco di controversie con i farisei e gli scribi.

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Si tratta di parole certamente tramandate e attualizzate dalle chiese, ma che restano sempre Vangelo di Gesù Cristo e nient’altro. Tuttavia, va confessato che di fronte a queste parole, che appaiono una rottura con il giudaismo, i commentatori si dividono tra quanti le interpretano come discorsi partoriti dalla chiesa della fine del primo secolo in polemica contro i farisei, il giudaismo più presente e “combattivo”, e quanti invece insistono sulla rottura radicale, sul misconoscimento da parte di Gesù della Legge che lo precedeva. Non è facile fare discernimento in questa lettura, ma tentiamo tale operazione cercando di non essere debitori verso ideologie giudaizzanti né, d’altra parte, marcionite.

Cosa vuol dire Gesù? Di fronte a “farisei e scribi venuti da Gerusalemme”, dunque ad autorità ufficiali del giudaismo, egli entra in polemica, arriva ad attaccarli direttamente, perché giudica il loro sguardo, il loro spiare lui e i suoi discepoli come comportamento non conforme alla volontà di Dio. I discepoli di Gesù, infatti, vanno a tavola senza prima aver fatto l’abluzione rituale delle mani, comando che nella Torah e è rivolto solo ai sacerdoti che devono fare l’offerta, il sacrificio (cf. Es 30,17-21).

Al tempo di Gesù vi erano movimenti che radicalizzavano la Legge, gruppi intransigenti e integralisti che chiedevano ai loro membri di comportarsi come i sacerdoti officianti al tempio, che moltiplicavano e radicalizzavano le prescrizioni della Legge, con una particolare ossessione per il tema della purità. Tra questi vi erano gli chaverim (compagni, amici) e i perushim (separati, farisei) – da alcuni identificati come un unico movimento –, la cui minuziosa legislazione casistica porterà alla formazione della Mishnah.

Gesù lasciava liberi i suoi discepoli da queste osservanze che non erano state richieste da Dio, ma dagli interpreti della parola di Dio, diventando “tradizioni”; e quando gli uomini producono tradizioni vogliono che queste siano “la tradizione”, e perciò le danno la stessa autorità attribuita alla parola di Dio. Ciò avveniva allora, così come avviene oggi nelle chiese! I vangeli ci testimoniano che su tanti temi Gesù si è espresso contestando queste tradizioni che alienano i credenti, non sono a loro servizio, ma creano una mancanza di libertà e sovente finiscono per erigere barriere, per tracciare confini e frontiere tra gli esseri umani.

Quanto al caso di cui si tratta in questa pagina, occorre riconoscere che la tavola, da luogo di condivisione, di comunicazione, di esercizio dell’amore, di alleanza, nel giudaismo era progressivamente diventata un luogo di divisione e di scomunica dell’altro: lo straniero pagano, il peccatore, l’impuro non potevano prendervi parte insieme al pio giudeo. Così l’impurità dei cibi vietati a Israele rendeva impossibile agli ebrei stare a tavola insieme a chi apparteneva alle genti pagane, perché ogni non ebreo era ritenuto koinós, profano, e akáthartos, impuro (cf. At 10,28).

Ma per Gesù queste distinzioni non sussistono, e chi le fa non ha conosciuto il pensiero del Signore. Per questo, di fronte al rimprovero rivolto dai farisei ai suoi discepoli, Gesù risponde attaccandoli con la parola stessa di Dio contenuta nei profeti: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi adorano, insegnando dottrine che sono solo precetti umani” (Is 29,13). Gesù è venuto per liberare da quella religione che è fabbrica di immagini di Dio e di suoi precetti che gli esseri umani di ogni cultura si sono dati.

E si faccia attenzione: Gesù non vuole contraddire la Legge né la tradizione, ma sa sempre risalire all’intenzione del Legislatore, Dio, come facevano i profeti, affinché la Legge sia accolta nel cuore, con libertà e amore. Gesù accoglie le parole dell’alleanza di Dio con Mosè, ma non accoglie senza operare un discernimento i 613 precetti della tradizione, anche perché sa bene che, se si moltiplicano i precetti, si accrescono anche le possibilità di non osservarli, dunque si moltiplicano le occasioni di ipocrisia. E poi “la parola del Signore rimane in eterno” (Is 40,8; 1Pt 1,24), mentre la tradizione evolve con i mutamenti culturali, con le generazioni e, anche se carica di venerabilità a causa della sua antichità, resta umana, involucro e rivestimento della parola del Signore. È a tutto ciò che Gesù fa riferimento quando afferma, rivolto ai suoi interlocutori: “Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione umana”; e subito dopo, addirittura: “Annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi” (Mc 7,13).

Poi, rivolgendosi alla folla, spiega: “Ascoltatemi tutti e capite in profondità, riflettete, siate intelligenti! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro”. I discepoli, però, non capiscono, e allora Gesù, spazientito, deve dare loro ulteriori chiarimenti: “Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va nella fogna?”. In tal modo Gesù “dichiara puri tutti i cibi”, e poco importa se tale precisazione sia uscita letteralmente dalla sua bocca o sia stata generata dalla chiesa a partire dal suo insegnamento… Infine, Gesù conclude con parole che dovrebbero chiarire la questione una volta per tutte: “Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo”.

Occorre notare che i peccati enumerati sono tutti contro l’amore, contro il prossimo, perché il peccato si ha solo nei rapporti tra ciascuno di noi e gli altri; non a caso, Gesù ha detto che saremo giudicati solo sull’amore verso gli altri (cf. Mt 25,31-46), sul cuore e sulla sua capacità di relazione, misericordia, purezza, fedeltà. Sì, il male, l’impurità, sta dove manca l’amore e non in altri luoghi in cui gli uomini religiosi vorrebbero trovarlo per mantenere in vita la loro costruzione. Il male, l’impurità, non sta nelle cose, ma è in noi, nella nostra scelta tra l’amore e l’odio, tra il riconoscere l’altro e l’affermare solo noi stessi, tra la nostra volontà di comunione e la nostra voglia di separazione.

Non dimentichiamo, dunque, che possiamo sedere alla tavola dei peccatori, perché Gesù si è seduto alla tavola in cui erano commensali i peccatori, fino a essere definito “un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori” (Mt 11,19; Lc 7,34). Non dimentichiamo che per tutti gli uomini e le donne la tavola è un luogo di comunione, di raduno, di faccia a faccia, di relazione, di celebrazione dell’amicizia, dell’amore e dell’affetto. Perciò non possiamo escludere nessuno dalla tavola: se lo faremo, saremo esclusi noi dalla tavola del Regno! Quanto poi alla tavola eucaristica, non ne è escluso chi è peccatore, si ritiene tale e porge la mano come un mendicante verso il corpo del Signore, mentre ne dovrebbe essere escluso chi non sa discernere il corpo di Cristo (cf. 1Cor 11,29) nel fratello e nella sorella, nel povero, nel peccatore, nell’ultimo, nel senza dignità. Purtroppo, però, è più facile fare l’abluzione delle mani durante la liturgia eucaristica, ripetendo un versetto di un salmo, che non riconoscere il proprio peccato e dire al Signore: “Io non sono degno, ma tu per misericordia entra nella mia casa!”.

Per gentile concessione dal blog di Enzo Bianchi