Gesù ancora oggi, è il nostro pastore
Nei brani evangelici che la chiesa (dopo quelli delle manifestazioni del Risorto) ci propone per il tempo pasquale, sempre tratti dal quarto vangelo, è il Gesù Cristo risorto che parla alla sua comunità, rivelando la sua identità più profonda, identità che viene da Dio suo Padre. Il Signore vivente per sempre è più che mai autorizzato a presentarsi con il Nome stesso di Dio: “Io sono” (Egó eimi). Quando Mosè aveva chiesto a Dio che gli parlava dal roveto ardente di rivelargli il suo Nome, Dio aveva risposto: “Io sono” (Es 3,14), Nome ineffabile, nome indicibile inscritto nel tetragramma JHWH.
Il Cristo vivente si rivela dunque come “Io sono”, e specifica: “Io sono il pane della vita” (Gv 6,35); “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12); “Io sono la porta delle pecore” (Gv 10,7); “Io sono la resurrezione e la vita” (Gv 11,25); “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6); “Io sono la vite” (Gv 15,5). Nel nostro brano, dopo essersi presentato come la porta dell’ovile, Gesù dichiara per due volte: “Io sono il pastore buono e bello” (kalós), riassumendo in sé l’immagine di tutti i pastori donati da Dio al suo popolo (Mosè, David, i profeti), ma anche l’immagine di Dio stesso, invocato e lodato come “Pastore di Israele” (Sal 80,2), dei credenti in lui.
Gesù aveva evocato più volte l’immagine del pastore e del gregge da lui pascolato (cf. Mt 9,36; 10,6; 15,24, ecc.), ma ora con questa rivelazione parla di se stesso, si proclama Messia e Inviato da Dio per condurre l’umanità alla vita piena, “venuto perché tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Il buon pastore è l’opposto del pastore salariato, che fa questo mestiere solo perché pagato, che guarda alla ricompensa per il lavoro, ma che in verità non ama le pecore: queste non gli appartengono, non sono destinatarie del suo amore e non contano nulla per lui. Lo dimostra il fatto che, quando arriva il lupo, egli abbandona le pecore e fugge via: vuole salvare se stesso, non le pecore a lui affidate! Chi è il pastore mercenario o salariato? È un funzionario, è colui che svolge il compito per il salario che riceve o semplicemente perché l’essere pastore è ritenuto un onore che gli provoca riconoscimento e gli dona anche gloria. Ma lo si deve dire: il pastore salariato è facilmente riconoscibile nel quotidiano, perché sta lontano dalle pecore e non le ama. A lui basta governarle!
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Al contrario, l’amore del buon pastore per le sue pecore causa addirittura il suo esporre, il suo deporre la vita per la loro salvezza. Non solo egli spende la vita stando in mezzo alle pecore, guidando il gregge, conducendolo in pascoli dove gli sia possibile sfamarsi; ma può anche accadere che la minaccia per la vita del gregge diventi minaccia per la vita stessa del pastore. È questo il momento in cui il buon pastore si rivela. Questa solidarietà, questo amore sono però possibili solo se il pastore non solo non è un salariato, ma se conosce le sue pecore di una conoscenza particolare che lo porta a discernere e a riconoscere l’identità di ciascuna di esse: una conoscenza penetrativa che è generata dalla prossimità, dall’assidua custodia del gregge.
Sì, la prima qualità del pastore autentico è la vicinanza alle pecore: sta con loro notte e giorno, nei deserti e nei prati, sotto il sole e sotto la pioggia. Papa Francesco ha parlato di “prossimità della cucina”, cioè dello stare là dove “si cucinano” le cose decisive, quelle che contano per ogni pecora, per ogni gregge; ha parlato di pastore che deve avere addosso “l’odore delle pecore”. Immagini forti, che indicano l’urgenza che i pastori non stiano al di sopra né ai margini, ma “in mezzo”, in piena solidarietà con le pecore.
Gesù cerca di spiegare questa comunione reciproca evocando addirittura la conoscenza tra sé e il Padre, che lo ha inviato e del quale cerca di realizzare giorno dopo giorno la volontà: “Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre”. Vi è in queste parole di Gesù l’essenza della cura pastorale: una reciproca conoscenza penetrativa tra pastore e pecore. Non solo il pastore conosce le pecore una per una, in una relazione personale e in un vincolo d’amore, ma anche le pecore conoscono il pastore, la sua vita, il suo comportamento, i suoi sentimenti, le sue ansie e le sue gioie, perché il pastore è loro vicino, prossimo. Le pecore non conoscono solo la voce del pastore che ascoltano quando le richiama, ma conoscono anche la sua presenza, a volte silenziosa, ma che sempre dà loro sicurezza e pace. […] Continua a leggere il testo nel blog di Enzo Bianchi