Enzo Bianchi – Commento al Vangelo di domenica 19 Settembre 2021

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La malattia del farsi grandi nella comunità

Mc 9,30-37

La confessione di Pietro che proclamava Gesù quale Messia (cf. Mc 8,29) rappresenta nel vangelo secondo Marco una svolta nella vita e nella predicazione di Gesù. A partire da quell’evento, Gesù cerca di raggiungere Gerusalemme discendendo dalle pendici dell’Hermon e passando per Cafarnao in Galilea.

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Questa è l’unica salita di Gesù verso la città santa testimoniata da Marco, e quindi dagli altri sinottici, una salita durante la quale Gesù intensifica l’insegnamento rivolto ai suoi discepoli, alla sua comunità itinerante, continuando ad annunciare loro la necessitas della sua passione e morte. Come già aveva detto all’inizio del viaggio, a Cesarea di Filippo (cf. Mc 8,31), qui ribadisce: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”; e lo farà ancora poco dopo per la terza volta (cf. Mc 10,33-34). Gesù sta per essere consegnato (paradídomi), verbo forte che indica un essere dato in balìa, in potere di qualcuno. Così avverrà, e Gesù sarà sempre un soggetto passivo di tale azione: consegnato da Giuda ai sacerdoti (cf. Mc 14,10), dai sacerdoti a Pilato (cf. Mc 15,1), consegnato da Pilato perché fosse crocifisso (cf. Mc 15,15).

Il passivo usato negli annunci della passione e la medesima necessitas espressa in tutti e tre i casi indica tuttavia che, sebbene questa consegna avvenga per mano di uomini responsabili delle loro azioni, essa però non accade come un semplice accidente (“a Gesù è andata male…”) o come frutto di un cieco destino, bensì secondo ciò che è conforme alla volontà di Dio. Ovvero, che un giusto non si vendichi, non si sottragga a ciò che gli uomini vogliono e possono fare nella loro malvagità: rigettare, odiare, perseguitare, mettere a morte chi è giusto, perché gli ingiusti non lo sopportano.

Ne abbiamo già parlato, ma vale la pena tornarci ancora una volta, più in breve, perché siamo davvero al cuore della vita di Gesù, dunque del Vangelo: di quale necessitas si tratta? Necessitas umana innanzitutto: in un mondo di ingiusti, il giusto non può che patire ed essere condannato. È stato sempre così, in ogni tempo e luogo, e ancora oggi è così… Dio non vuole la morte di Gesù, ma la sua volontà è che il giusto resti tale, fino a essere consegnato alla morte, continuando ad “amare fino alla fine” (cf. Gv 13,1). Il giusto mai e poi mai consegna un altro alla morte ma, piuttosto di compiere il male, si lascia consegnare: ecco la necessitas divina della passione di Gesù. È il continuare ad “amare fino alla fine” (cf. Gv 13,1), anche i nemici, in risposta alla volontà del Padre, che mette nel cuore umano per grazia la possibilità di questo amore che può sgorgare solo da lui.

E che questo amore sia difficile, a caro prezzo, lo dimostra la reazione della comunità di Gesù, di quanti hanno condiviso la vita con lui, dunque dovrebbero essere in sintonia con il suo insegnamento. Come Pietro al primo annuncio (cf. Mc 8,32-33), qui tutti i discepoli si rifiutano di comprendere le parole di Gesù e, chiusi nella loro cecità, neppure osano interrogarlo. Ma ecco che, giunti nella loro casa di Cafarnao, Gesù e i suoi sostano per riposarsi. In quell’intimità Gesù domanda loro: “Di che cosa stavate discutendo per la strada?”. La risposta è un silenzio pieno di imbarazzo e vergogna. I discepoli, infatti, sanno di che cosa hanno parlato, sanno che in quella discussione si era manifestato in loro un desiderio e un atteggiamento in contraddizione con l’insegnamento di Gesù: ognuno era stato tentato – e forse lo aveva anche espresso a parole – di aspirare e di pensarsi al primo posto nella comunità. Avevano rivaleggiato gli uni con gli altri, avanzando pretese di riconoscimento e di amore. In risposta alla rivelazione del Messia servo e alla prospettiva della sua andata verso la morte ignominiosa, i discepoli non hanno saputo fare di meglio – magari pensando al “dopo Gesù” – che discutere su chi tra di loro fosse il più grande. Nel Vangelo di Tommaso, al loghion 12, sta scritto: “I discepoli dissero a Gesù: ‘Sappiamo che presto ci lascerai: chi sarà allora il più grande tra di noi?’”. Sì, dobbiamo confessarlo: se la comunità cristiana non fa propria la logica pasquale di Gesù, finisce inevitabilmente per fomentare al proprio interno la mentalità mondana della competizione e della rivalità. Si scatenano allora logiche di potere e di forza nello spazio ecclesiale e, come accecati, si finisce per leggere il servizio come potere, come occasione di onore.

Gesù allora chiama a sé i discepoli, chiama soprattutto i Dodici, quelli che dovranno essere i primi responsabili della chiesa, e compie un gesto. Prende un piccolo (paidíon), un povero, uno che vive la condizione di dipendenza e non conta nulla, lo mette al centro, e abbracciandolo teneramente, afferma: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”. Un bambino, un piccolo, un povero, un escluso, uno scarto è posto in mezzo al cerchio di un’assemblea di primi, di uomini destinati ad avere il primo posto nella comunità, per insegnare loro che se uno vuole il primo posto, quello di chi governa, deve farsi ultimo e servo di tutti.

Stiamo attenti alla radicalità espressa da Gesù nel vangelo secondo Marco. Se c’è qualcuno che pensa di poter giungere al primo posto della comunità, allora per lui il cammino da seguire è semplice: si faccia ultimo, servo di tutti, e si troverà a essere al primo posto della comunità. Non ci sono qui dei primi designati ai quali Gesù chiede di farsi ultimi e servi di tutti, ma egli traccia il cammino opposto: chi si fa ultimo e servo di tutti si troverà ad avere il primo posto, a essere il primo dei fratelli. Sì, un giorno nella chiesa si dovrà scegliere che deve stare al primo posto, chi deve governare: si tratterà solo di riconoscere come primo colui che serve tutti, colui che sa anche stare all’ultimo posto. Gesù confermerà e anzi amplierà questo stesso annuncio poco più avanti: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servo, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti” (Mc 10,42-44).

E invece sappiamo cosa accadrà spesso nelle comunità cristiane: si sceglierà il più brillante, il più visibile, quello che s’impone da sé, magari il più munito intellettualmente e il più forte, addirittura il prepotente, lo si acclamerà primo e poi gli si faranno gli auguri di essere ultimo e servo di tutti. Povera storia delle comunità cristiane, chiese o monasteri… Non a caso gli stessi vangeli successivi prenderanno atto che le cose stanno così, e allora Luca dovrà esprimere in altro modo le parole di Gesù: “Chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve” (Lc 22,26). Ma se la parola di Gesù fosse realizzata secondo il tenore del vangelo più antico, allora saremmo più fedeli al pensiero e alla volontà di Gesù!

Al termine di questo brano evangelico, soprattutto chi è pastore nella comunità si domandi se, tenendo il primo posto, essendo chi presiede, il più grande, sa anche tenere l’ultimo posto e sa essere servo dei fratelli e delle sorelle, senza sogni o tentativi di potere, senza ricerca di successo per sé, senza organizzare il consenso attorno a sé e senza essere prepotente con gli altri, magari sotto la forma della seduzione. Da questo dipende la verità del suo servizio, che potrà svolgere più o meno bene, ma senza desiderio di potere sugli altri o, peggio ancora, di strumentalizzarli. Nessuno può essere “pastore buono” come Gesù (Gv 10,11.14), e le colpe dei pastori della chiesa possono essere molte: ma ciò che minaccia in radice il servizio è il non sentirsi servi degli altri, il fare da padrone sugli altri. D’altronde questa deriva è visibile: l’autorità che non sa stare accanto agli ultimi, non sa dar loro la sua presenza, non sa ascoltare quelli che apparentemente non contano nella comunità cristiana è un’autorità che ha cura di se stessa, impedita dal proprio narcisismo ad accorgersi di quelli che deboli, marginali e nascosti sono pur sempre membra del corpo di Cristo.

Per gentile concessione dal blog di Enzo Bianchi