Enzo Bianchi – Commento al Vangelo di domenica 17 Ottobre 2021

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Non basta desiderare di stare vicino a Gesù

Nel vangelo secondo Marco dopo ognuno dei tre annunci della passione fatti da Gesù nella sua salita verso Gerusalemme è registrata una scena di incomprensione da parte dei discepoli. Dopo il primo annuncio (cf. Mc 8,31), è Pietro che arriva a contestare le parole di Gesù (cf. Mc 8,32), facendosi “ostacolo” – “Satana” (Mc 8,33), come lo chiama Gesù – sul cammino che Dio ha assegnato a suo Figlio. Quando Gesù afferma per la seconda volta la necessitas passionis (cf. Mc 9,31), tutti i discepoli, come intontiti, non comprendono, anzi si mettono a discutere su chi tra loro può essere considerato il più grande (cf. Mc 9,32-34).

Nel brano evangelico di questa domenica, dopo il terzo annuncio della sua sofferenza e morte, passaggio inevitabile verso la resurrezione (cf. Mc 10,32-34), sono Giacomo e Giovanni che mostrano quanto sono distanti dal modo di pensare di Gesù. I due fratelli hanno seguito Gesù fin dall’inizio del suo ministero pubblico, sono i suoi primi compagni insieme a Pietro e ad Andrea, hanno abbandonato tutto, famiglia e professione, per stare con lui (cf. Mc 1,16-20), e in qualche modo si sentono gli “anziani” della comunità. Essendo figli di Salome, probabilmente sorella di Maria, la madre di Gesù (cf. Mc 15,40; Mt 27,56; Gv 19,25), sono cugini di Gesù, dunque suoi parenti, appartenenti alla famiglia, al clan, e per questo pensano di vantare precedenze sugli altri.

Eccoli allora presentarsi a Gesù per dirgli ciò che pensano di “meritare” per l’avvenire, quando Gesù, il Re Messia, stabilirà il suo regno: “Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. È una pretesa più che una domanda, fatta da chi ragiona esattamente come tante volte facciamo noi nel quotidiano: le relazioni contano, dunque occorre rivendicare il loro peso… E questo non avviene solo tra noi uomini e donne, fratelli e sorelle, perché anche nei confronti di Dio vantiamo pretese: siamo noi i credenti, siamo noi i cristiani, dunque presso Dio dobbiamo avere una precedenza sugli altri…

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Gesù replica a Giacomo e Giovanni con infinita pazienza: “Non sapete quello che chiedete”. Risposta anche ironica, perché Gesù sa che nella sua vera gloria, quella sulla croce, alla sua destra e alla sua sinistra ci saranno due malfattori, crocifissi e suppliziati come lui (cf. Mc 15,27). Vi è qui lo scontro tra due visioni della gloria: i due discepoli la intendono come successo, potere, splendore, mentre Gesù l’ha appena indicata nel servizio, nel dono della vita, nell’essere rigettato in quanto obbediente alla volontà di Dio. Per questo egli tenta ancora una volta di portare i discepoli a guardare non alla gloria come termine finale, ma al cammino che conduce alla vera gloria, quella che essi neppure riescono a immaginare. E lo fa ponendo loro una domanda: “Potete bere il calice che io sto per bere, o ricevere l’immersione nella quale io devo essere immerso?”.

Gesù chiede innanzitutto se sono disposti a bere “il calice della sofferenza”, espressione biblica per indicare la sofferenza da subire (cf. Sal 75,9; Is 51,17.22, ecc.). Si ricordi che Gesù stesso nell’agonia del Getsemani sarà tentato di allontanare da sé quel calice: “Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice!” (Mc 14,36)… Nella sequela di Gesù, nel condividere la sua strada e la sua sorte, vi è per i discepoli una sofferenza da accogliere, senza rivolte e senza la tentazione di esserne esenti. Non solo, c’è anche un’immersione, un “andare sotto”, un affogare momentaneo nei “flutti della morte” (Sal 18,5), che sarà un evento prima per Gesù, ma che poi dovrà essere condiviso da chi si sente coinvolto nella sua vita e vuole stare con lui ovunque egli vada (cf. Ap 14,4). Viene qui impiegato il termine greco báptisma (e il verbo corrispondente baptízein), di cui non comprendiamo più il significato: battesimo è immersione, è andare sott’acqua, è affogare come creatura vecchia per uscire dall’acqua come creatura nuova. Si noti l’insistenza del testo originale, come appare da una traduzione alla lettera: “Potete voi con l’immersione con cui sono immerso essere immersi?”. Ecco il battesimo, che dà inizio sacramentalmente alla vita cristiana, ma che deve diventare esperienza, vita concreta, fino al momento finale della morte, quando i flutti ci travolgeranno, e poi dopo la morte, quando Dio ci chiamerà alla vita eterna attraverso la resurrezione.

Giacomo e Giovanni, sempre “boanèrghes, cioè ‘figli del tuono’” (Mc 3,17), rispondono affermativamente alla domanda di Gesù, e capiranno solo più tardi il prezzo di questa disponibilità: quando Marco scrive il vangelo, intorno all’anno 70, sa che nel 44 Giacomo era stato martirizzato da Erode a Gerusalemme (cf. At 12,2) e Giovanni secondo la tradizione vivrà nell’isola di Patmos una lunga passione di prigioniero esiliato… In ogni caso, Gesù accoglie questa loro spontanea professione di disponibilità alla croce, ma ricorda anche che non spetta a lui concedere di sedere alla sua destra o alla sua sinistra, ma “è per coloro per i quali è stato preparato” dal Padre (passivo divino). Sta di fatto che questa richiesta dei due fratelli – che Matteo, per riguardo a Giacomo e a Giovanni, pone in bocca alla loro madre (cf. Mt 20,20) – suscita subito una reazione sdegnata negli altri con-discepoli, che li contestano per gelosia e perché infastiditi dalla loro pretesa.

E qui va detto con franchezza e senza ingenuità che la comunità di Gesù è immagine delle nostre comunità: uomini e donne chiamati da Gesù e scelti da lui; uomini e donne che sovente mostrano di avere poca fede o addirittura apistía, incredulità (cf. Mc 9,24; 16,14); uomini e donne fragili e deboli che a volte non riescono a comprendere le parole di Gesù, le esigenze della sequela, e dunque contraddicono la loro vocazione e la loro identità. La comunità, peraltro scelta, istruita e formata dal Signore presente e operante in mezzo a essa, appare una povera comunità. Marco ha l’audacia di metterci davanti agli occhi la tragica parabola di questa comunità: quelli che “abbandonata la barca, le reti e il padre, seguirono Gesù” (cf. Mc 1,18-20), nell’ora della passione “abbandonarono Gesù e fuggirono tutti” (Mc 14,50).

Ecco, non dimentichiamo la debolezza e la fragilità della comunità del Signore, perché se tale era la comunità i cui membri erano stati scelti e istruiti personalmente da Gesù, come potrebbero le nostre comunità essere migliori?

Allora Gesù li chiama tutti e dodici intorno a sé e dà loro una lezione molto istruttiva, perché è un’apocalisse del potere mondano, politico. Dice: “Voi sapete”, perché basta guardare, osservare, “che coloro i quali sono considerati i governanti delle genti dominano, spadroneggiano su di esse, e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così (Non ita est autem in vobis)”. Attenzione, Gesù non dice: “Tra voi non sia così”, facendo un augurio o impartendo un comando, ma: “Tra voi non è così”, ovvero, “se è così, voi non siete la mia comunità!”. Non è possibile che la comunità cristiana abbia come modello il potere mondano, che si lasci conformare a ciò che fanno i governi, quasi sempre ingiusti e spesso totalitari: il governo nella comunità cristiana è “altro”, oppure non è governo, ma dominio. D’altra parte, Gesù non nega la necessità di un governo nella società umana, ma lo legge nella sua realtà, come si manifesta in concreto. Sì, a volte c’è qualcuno che merita il governo perché sa esercitarlo nella giustizia, ma è evento raro, perché le forze mondane, i poteri oscuri lo rimuovono presto…

Ecco dunque la vera “costituzione” data alla chiesa: una comunità di fratelli e sorelle, che si servono gli uni gli altri, e tra i quali chi ha autorità è servo di tutti i servi. Nella chiesa non c’è possibilità di acquisire meriti di anzianità, di fare carriera, di vantare privilegi, di ricevere onori: occorre essere servi dei fratelli e delle sorelle, e basta! Il fondamento di questa comunità è proprio l’evento nel quale il Figlio dell’uomo, Gesù, si è fatto servo e ha dato la sua vita in riscatto per le moltitudini, cioè per tutti. Gesù non ha dominato, ma ha sempre servito fino a farsi schiavo, fino a lavare i piedi, fino ad accettare una morte ignominiosa, assimilato ai malfattori. Sì, Gesù è il Servo sofferente tratteggiato dal profeta Isaia nel brano che in questa domenica ascoltiamo come prima lettura: “Dopo il suo intimo tormento”, cioè dopo aver conosciuto la sofferenza, “il giusto mio Servo” – dice il Signore – “giustificherà le moltitudini (rabbim), egli si addosserà le loro iniquità” (Is 53,11). Questa la gloria del Messia, di Gesù, quindi la gloria del cristiano: non riconoscimenti mondani, non posizioni o posti di successo e di trionfo, ma la gloria di chi serve i fratelli e le sorelle e dà la vita nella libertà e per amore al seguito di lui, Gesù.

Questo vangelo non riguarda solo la comunità storica di Gesù, i Dodici, ma riguarda soprattutto noi, la chiesa oggi. In particolare, riguarda quelli che nella comunità cristiana esercitano un servizio, sempre tentati di farlo diventare dominio, potere, sempre tentati di lavorare per sé e non per il bene della comunità. E sia chiaro: nella chiesa il servizio non è finalizzato ad assicurare una dinamica di gruppo positiva ed efficace secondo schemi psicologici. No, il servizio è una legge per la comunità cristiana, perché realizza concretamente il nostro amore fraterno, perché questa è la posizione del Kýrios, del Signore. Al cuore della comunità c’è il Kýrios che si fa nostro servo e ci dice: “Se io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri” (Gv 13,14).

Per gentile concessione dal blog di Enzo Bianchi