Chi cammina con Gesù conosce la trasfigurazione
Il cammino quaresimale è essenzialmente un cammino pasquale, segnato dall’abbassamento e dall’innalzamento di Gesù, il Figlio di Dio. Per questo, se nella prima domenica di questo tempo abbiamo contemplato Gesù messo alla prova nel deserto in molti modi, fino alla tentazione di approfittare della sua qualità divina per compiere la sua missione, oggi contempliamo Gesù trasfigurato, rivestito di quella gloria che possedeva quale Figlio di Dio, ma che nascose, facendo epoché, mettendola “tra parentesi” nella sua condizione di uomo come noi.
I tre vangeli sinottici narrano questo evento che segna una svolta nella missione di Gesù, dopo la professione di fede di Pietro e la rivelazione da parte di Gesù di ciò che lo attendeva a Gerusalemme, come necessitas umana e divina (cf. Mt 16,13-28). Riportano un racconto ormai “tradizionale” nella comunità dei discepoli, con il quale si tenta di esprimere l’indicibile: Gesù si è mostrato realmente e totalmente uomo in altra forma (metemorphóthe), una forma gloriosa che trascende la forma della carne del Figlio di Maria. La domanda su cosa sia veramente accaduto non ha molto senso, se non per mettere in risalto che è avvenuta un’apocalisse, un alzare il velo che ha permesso di scorgere l’invisibile. Cercheremo dunque di ascoltare soprattutto il racconto di Matteo; se infatti è vero che letterariamente non differisce di molto dagli altri due, tuttavia contiene alcuni tratti specifici: se Marco cerca di testimoniarci un’epifania di Dio in Gesù (cf. Mc 9,2-9), se Luca fornisce un’anticipazione della gloria della resurrezione (cf. Lc 9,28-36), Matteo vuole rivelarci come Dio stesso confermi la fede proclamata da Pietro (“Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”: Mt 16,16).
Matteo lega la trasfigurazione alle solenni parole di Gesù ai discepoli: “Amen, io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto venire il Figlio dell’uomo con il suo regno” (Mt 16,28). Parole certamente oscure, ma che risuonavano come una promessa: alcuni tra i discepoli che lo ascoltano, ancora durante la loro vita avrebbero visto il Figlio dell’uomo venire nella gloria del suo regno! Queste parole introducono il racconto della trasfigurazione, che appare come il loro compimento. Molte sono le allusioni all’Antico Testamento nel nostro racconto: Gesù porta con sé sulla montagna tre compagni (cf. Es 24,1.9); riceve la rivelazione di Dio dopo sei giorni (cf. Es 24,16); è trasfigurato in volto, raggiante di luce (cf. Es 34,29). La montagna della trasfigurazione non è localizzata dai tre evangelisti, ma viene definita “un alto monte, in disparte”. Dunque nel luogo delle rivelazioni di Dio, là dove secondo i profeti avviene la definitiva manifestazione di Dio nel suo giorno, l’ultimo (cf. Is 2,2; 11,9; Dn 9,16), dove Mosè (cf. Es 24,12-18; 34,4) ed Elia (1Re 19,8) sono saliti per incontrare il Signore, anche Gesù sale, portando con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, tre discepoli spesso vicini a lui, coinvolti in modo particolare nella sua vita.
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Davanti a loro Gesù “viene trasfigurato” (sottinteso, da Dio; passivo divino) ed ecco che “il suo volto diventa splendente come il sole”. Matteo richiama il sole, la luce, perché quella novità di forma assunta da Gesù è qualcosa che non procede dalla sua condizione umana. Se la pelle del volto di Mosè era diventata raggiante davanti alla gloria di Dio, il volto di Gesù è splendente come il sole che illumina, ma nello stesso tempo non si fa vedere, abbaglia. Ricorrendo al linguaggio paolino, potremmo dire che “colui che era in forma di Dio … e aveva preso la forma dell’uomo schiavo” (Fil 2,6-7), qui rivela – per quanto è umanamente possibile percepirla e vederla – la sua forma, la sua condizione di Figlio di Dio.
In quella percezione di Gesù sotto “altro” aspetto, si manifestano accanto a lui Mosè ed Elia, che rappresentano rispettivamente la Torah e i Profeti, ma che soprattutto sono testimoni della venuta del Messia. Tutto ciò che ha preceduto Cristo nella storia di salvezza, da Abramo in poi, è accanto a Gesù per testimoniare che egli è il profeta atteso, il veniente promesso. Con la loro presenza, Mosè ed Elia attestano: “Ecco il Messia, il Cristo come l’aveva confessato Pietro. Ecco il Servo, il Profeta amato da Dio che, come egli stesso ha annunciato, va verso la passione”. Ciò che è narrato come una visione, è soprattutto un’esperienza possibile ai profeti nell’ordine della fede e del dono del Signore, un’esperienza non derivante da “carne e sangue” (cf. Gv 1,13), ma una pura rivelazione del Padre (come la confessione di Pietro; cf. Mt 16,17). Per questo tre volte si fa ricorso all’“ecco” (idoú; nel testo originale compare, non tradotto in italiano, anche al v. 5a), parola tipica della rivelazione apocalittica: per l’apparizione di Mosè ed Elia, per il manifestarsi della nube luminosa, per il risuonare di una voce.
Pietro vorrebbe restare in questa esperienza di fede, vorrebbe farla diventare definitiva, come se la fine dei tempi e la venuta nella gloria di Gesù fossero ormai realtà. A differenza di Marco e di Luca, Matteo annota che Pietro sa bene quello che dice: chiama Gesù “Kýrios, Signore”, mostra nuovamente la sua fede e afferma che è una cosa bellissima quella che stanno vivendo. Per questo vorrebbe fare tre capanne, per Gesù, per Mosè e per Elia, in modo che la storia si arresti nell’ora della manifestazione della gloria. Ma ecco apparire una nube luminosa, che adombra quell’esperienza: una nube che illumina e, nel contempo, fa ombra (verbo episkiázo). Siamo di fronte all’indicibile, perché la Presenza di Dio, del Dio che nessuno ha mai visto (cf. Gv 1,18), rivela e nello stesso tempo nasconde: è la Shekinah, la Dimora di Dio, che mentre illumina fa ombra, Presenza che si sperimenta ma che resta sempre elusiva…
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Infine, ecco uscire dalla Shekinah una voce, che parla e rivela: “Questi è il mio Figlio, l’amato (agapetós): in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo!”. La voce di Dio è già risuonata nell’ora del battesimo di Gesù al Giordano (cf. Mt 3,17): là Gesù era disceso nelle acque come un peccatore, per esservi immerso da Giovanni, il Padre lo aveva rivelato come suo Figlio unico e amato, ed egli solo aveva ascoltato questa proclamazione. Qui invece ascoltano anche i discepoli, che non possono non leggervi un “amen”, un sigillo posto da Dio sulla confessione di Pietro. Inoltre, rispetto al battesimo vi è qui un’aggiunta decisiva: “Ascoltatelo!”. La voce del Padre dice che Gesù è suo Figlio (cf. Sal 2,7), è l’Amato (cf. Gen 22,2), è il Servo che Dio sostiene in quanto Eletto, nel quale si compiace (cf. Is 42,1), ma è anche il Profeta promesso da Dio a Mosè, a cui deve andare l’ascolto (cf. Dt 18,15).
Di fronte a tale apocalisse, “i discepoli cadono con la faccia a terra” in adorazione, confessione silenziosa di Gesù quale Figlio di Dio, quale Kýrios, riconoscimento nel timore di Dio della Shekinah davanti a loro. Ma Gesù si avvicina, li tocca e dice loro: “Alzatevi e non abbiate paura!”. Li tocca con un gesto di confidenza e di amore, quasi a risuscitarli, e li invita alla postura escatologica dello stare in piedi senza temere (cf. Lc 21,28): “Alzatevi, fate un gesto di resurrezione (eghérthete) e mettete da parte ogni timore e paura!”. I tre discepoli “hanno visto, udito e contemplato” (cf. 1Gv 1,1), ma sono stati anche toccati da Gesù, da lui come risvegliati a una nuova conoscenza nella fede di Gesù Cristo stesso. Sapranno seguire Gesù a Gerusalemme, nella passione scandalosa, nell’angoscia da lui vissuta nel giardino del monte degli Ulivi? Ricorderanno questa esperienza o la dimenticheranno (cf. Mt 26,36-46)?
Per gentile concessione dal blog di Enzo Bianchi