Il dono di Gesù è lo Spirito santo
Carissimi fratelli e sorelle, noi celebriamo la festa della Pentecoste, il mistero dell’effusione dello Spirito santo, dono di Cristo risorto alla sua chiesa. È il dono pasquale per eccellenza, è la pienezza dell’evento pasquale, e per questo Luca colloca questo evento nel cinquantesimo giorno dopo la Pasqua, nella festa delle Settimane, la festa che ricordava la pienezza della liberazione dall’Egitto del popolo di Israele. Israele era stato liberato dalla schiavitù, ma quest’opera di liberazione si è compiuta solo nell’ora dell’alleanza, con il dono della Legge, l’ora delle nozze tra il Signore Dio e il suo popolo al Sinai.
Ma sempre per la stessa ragione il vangelo di Giovanni colloca l’evento della Pentecoste a compimento del giorno pasquale, il giorno che per il quarto vangelo è il giorno uno della nuova creazione, quando Gesù appare in mezzo ai suoi e alita su di loro il suo soffio, lo Spirito santo. Dunque noi in questo giorno ritorniamo con consapevolezza al mistero della Pasqua, perché la discesa dello Spirito santo sulla chiesa è inscindibile dalla resurrezione da morte di Gesù. Proprio nell’effusione dello Spirito santo da parte di Gesù ai suoi discepoli sta infatti il senso e il termine di tutta la missione che il Figlio aveva ricevuto dal Padre.
È sempre Luca che ricorda a questo proposito una parola di Gesù. Gesù, volendo ricapitolare la sua venuta da Dio in mezzo a noi, tutta la sua missione, ha esclamato: «Io sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e quanto desidero che si accenda» (Lc 12,49). Ecco il giorno dell’accensione di questo fuoco, della discesa dello Spirito santo che fa dei discepoli una cosa nuova, li costituisce corpo stesso di Cristo, fa dei discepoli il tempio di Dio: non sono più dei discepoli alla sequela di un maestro, non sono più degli ascoltatori di un profeta, sono membra di quel corpo glorioso risorto da morte che ormai è in Dio ed è vivente per sempre. È proprio lo Spirito santo che è sempre all’opera: grazie allo Spirito santo il Figlio aveva potuto prendere carne nel grembo della vergine Maria, e ora è proprio lo Spirito santo che nella Pentecoste plasma ancora il corpo di Cristo, scendendo sui discepoli e rendendoli membra del corpo del Signore.
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In Gesù c’era una vera ansia di donare lo Spirito santo, c’era una vera impazienza di poter nello Spirito santo attirare tutti a sé per farne il suo corpo, c’era una volontà precisa di compiere tutta l’opera datagli dal Padre per consumare quell’incontro nuziale con l’umanità, facendola sua fidanzata e sua sposa. Sovente penso a questo desiderio di Gesù, un desiderio che dominava la sua missione, e lo confronto con la nostra scarsa attenzione allo Spirito santo, la nostra rara invocazione, la nostra astenia, la nostra debolezza. Come è possibile vivere il nostro rapporto con il Signore Gesù senza desiderare ardentemente di essere in lui, di essere membra del suo corpo? Questo è veramente il nostro peccato: vogliamo stare dietro al Signore, vogliamo essere suoi discepoli, ma non abbiamo una passione fino a voler essere la carne del suo corpo, il corpo del Signore nella storia. Per questo noi non sappiamo dire con efficacia: Gesù il Signore; non sappiamo dire a nessuno: «Ho Kýrios estin», «È il Signore!» (Gv 21,7). Ogni volta che lui è accanto a noi, che è in noi e ci parla, essendo poveri dello Spirito santo, non siamo in grado né di riconoscerlo né di indicarlo agli altri.
Noi abbiamo ascoltato la lettera ai Romani che attesta che lo Spirito abita in noi; la testimonianza della discesa dello Spirito negli Atti degli apostoli; la missione dello Spirito santo secondo le parole di Gesù nel quarto vangelo. Sono testi ricchissimi, che di volta in volta abbiamo già commentato per poter sempre di più conoscere il mistero della Pentecoste. Perciò in questo mio commento voglio soltanto fermarmi sul racconto lucano della Pentecoste, e neppure commentarlo in modo preciso e analitico, ma semplicemente voglio evidenziare due espressioni, due parole che stanno nel brano della discesa dello Spirito negli Atti degli apostoli (2,1-11).
Innanzitutto l’annotazione, che non vuole essere solo una precisazione della situazione, una collocazione dell’evento della Pentecoste, ma in realtà una annotazione che qualifica la discesa dello Spirito: «Mentre il giorno della Pentecoste stava per compiersi, i Dodici, Maria e gli altri discepoli si trovavano tutti insieme nello stesso luogo (epì tò autó)». È importante mettere l’accento sullo stesso luogo per dire l’unità, per dire la presenza della comunità dei discepoli, ma ciò che è ancora più importante è che questa espressione « nello stesso luogo, epì tò autó, in realtà indica il frutto di un’azione da parte dello Spirito di Dio che chiama, raduna, attira da quella condizione di dispersione e di paura in cui si trovavano i discepoli i giorni successivi la morte del Signore.
Qui c’è un aspetto decisivo della comunità cristiana, radunata dal Signore. L’essere radunata è la realtà essenziale per la comunità cristiana: i fratelli, le sorelle non sono nello stesso luogo in forza di una convergenza gli uni verso gli altri, non sono nello stesso luogo in forza di sentimenti, di affinità, di affetti, ma perché radunati dal Signore. Se mancasse questa attrazione del Signore, meglio allora che la forza centrifuga separi dagli altri quelli che vorrebbero restare uniti solo per ragioni personali e umane, non in obbedienza alla forza del Signore. Quella comunità su cui scende lo Spirito santo era il risultato del raduno dei figli di Dio dispersi e Gesù aveva dato la sua vita fino alla morte in croce proprio in vista di questo raduno: creare la comunità dei figli di Dio, attirarli tutti a sé. Ecco perché quelli che sono epì tò autó, nello stesso luogo radunati, lo sono per l’eucaristia che rende visibile il mistero di un corpo compaginato dallo Spirito santo, il corpo di Cristo composto dai credenti in lui e vivificato dallo Spirito. Dunque comunione dello Spirito santo.
L’altra espressione cui rivolgo l’attenzione è la molteplicità di quelle fiammelle di fuoco che si posavano su ciascuno dei discepoli. C’è un solo soffio, un solo Spirito, un solo vento che scende su un’unica assemblea, una comunità costituita da quelli che stavano insieme nello stesso luogo; ma quando i discepoli ricevono lo Spirito, ognuno di loro riceve una lingua di fuoco, una fiammella, e ogni fiammella è diversa dalle altre. Unità di un corpo ma nello stesso tempo diversità, originalità e libertà. Tensione di comunione ma massima personalizzazione del mistero di Cristo nella vita di ogni credente. Tutti battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, tutti abbeverati a un solo Spirito, dice l’apostolo Paolo (cf. 1Cor 12,139, ma ciascuno con un rapporto originale con il Signore attraverso lo Spirito santo che personifica, distingue, mai contristando l’unità. Così ciascuno dei discepoli è invitato, contro ogni tentativo di omologazione, ad essere nella libertà capace di amare, ad essere capace di accogliere nella libertà l’amore dell’altro. È proprio questa condizione di libertà che consente anche la sincerità, consente la conoscenza dell’attrazione del Signore e non di altre attrazioni, che permette la comunità di coloro che sono radunati nello stesso luogo sotto la potenza dello Spirito santo.
Per gentile concessione dal blog di Enzo Bianchi