C’è un comando più grande degli altri?
Nel brano evangelico odierno leggiamo la terza controversia di Gesù a Gerusalemme. Questa volta sono i farisei i quali, avendo constatato che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducei, lo mettono alla prova, tentano un’altra volta di coglierlo in fallo attraverso uno dei loro esperti della Torah. La domanda che costui pone a Gesù esprime una preoccupazione frequente da parte della tradizione rabbinica del tempo. Se infatti è vero che le parole, i comandamenti per eccellenza di Dio erano dieci (cf. Es 20,1-17; Dt 5,6-21), tuttavia i precetti contenuti nella Torah erano moltissimi, 613 secondo la tradizione dei maestri. Ma tra tanti comandi ve n’era uno più importante degli altri, uno che potesse essere di orientamento per il credente che voleva compiere la volontà di Dio?
Gesù, quale rabbi conoscitore della Torah, e soprattutto esercitato nella preghiera del suo popolo, risponde citando lo Shema‘ Jisra’el (cf. Dt 6,4-9), ossia la grande professione di fede nel Signore Dio ripetuta due volte al giorno dal credente ebreo, che si apre con queste parole: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore” (Dt 6,4). Questa preghiera, che per la tradizione ebraica è la preghiera per eccellenza, proclama innanzitutto che Dio è uno e unico, e che ascoltare lui, conoscerlo grazie alla rivelazione, significa aderire a lui e amarlo con tutto il cuore, con tutta la vita, con tutta la mente. La dinamica è chiara: dall’ascolto alla fede, dalla fede alla conoscenza, dalla conoscenza all’amore.
Ma cosa significa questo comando di amare Dio? Come si può amare un Dio che non si vede, che non parla le lingue umane, la cui presenza è elusiva? Questa è una domanda sempre attuale, una domanda che ognuno di noi deve porre a se stesso per discernere se è nella fede (cf. 2Cor 13,5) e se “dimora nell’amore” (1Gv 4,16). Perché amare Dio può anche essere una nostra volontà di amore verso una realtà che noi chiamiamo Dio ma che in realtà è un idolo, una proiezione umana, un nostro manufatto tanto più amato quanto più è opera nostra. Abbiamo noi umani la possibilità di valutare il nostro amore per Dio? Non può bastare, infatti, coltivare o fare esperienza di un forte desiderio, di una nostalgia di colui che chiamiamo Dio… Proprio per questo, il nostro amore per Dio può nascere solo dall’averlo prima ascoltato. Ecco il primato dell’ascolto, espresso dalla prima parola dello Shema‘: “Ascolta!”. È ascoltando Dio, rinnovando l’atteggiamento di chi riceve e accoglie la sua parola, che possiamo rinunciare alle immagini di Dio che ci siamo fatti e invece accogliere da lui la conoscenza del suo volto, perché egli stesso alza per noi il velo.
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Conosciamo bene, d’altra parte, come l’amore per Dio è cantato dal credente: “Io ti amo, Signore, mia forza, Signore, mia rupe, mia difesa, mio liberatore, Dio mio, roccia su cui mi rifugio, mio scudo, mia forza di salvezza, mio baluardo” (Sal 18,2-3); “O Dio, dall’aurora io ti cerco, il mio essere ha sete di te” (Sal 63,2), ecc. Il linguaggio dell’amore umano può esprimere il nostro amore per Dio, ma in realtà ciò non è sufficiente per verificare la verità del nostro amore. Per amare veramente il Dio vivente, è assolutamente necessario fare, vivere ciò che egli vuole. Non c’è possibilità di un amore di desiderio senza che tale amore sia fame di compiere la volontà di Dio. Sono ancora i salmi ad aiutarci: “Ecco, Signore, il mio impegno: custodire, cioè fare, i tuoi precetti” (Sal 119,56); “Io cerco i tuoi precetti” (Sal 119,94); “Tu sai che io amo i tuoi precetti, Signore” (Sal 119,159)… Ce lo ripete anche l’apostolo Giovanni, attestando queste parole di Gesù: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola” (Gv 14,23); “Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore” (Gv 15,10). Dunque, amare Dio senza limiti, cioè con tutto il cuore, con tutta la vita, con tutta la mente, significa entrare in una conoscenza che può anche essere passionale, penetrante, folle d’amore, ma va sempre vissuta come ascolto e realizzazione della sua volontà. Occorre per questo aver conosciuto l’amore di Dio su di noi, il suo amore preveniente, mai meritato: di conseguenza, lo si ama come risposta a tale amore, come obbedienza non derivante da una legge ma dalla contemplazione del volto di colui che “è Amore” (agápe: 1Gv 4,8.16).
Proprio perché l’amore per Dio è realizzare la sua volontà, l’amore per il prossimo è un comando che ne deriva direttamente. In ogni cultura della terra si è formulata la regola della realizzazione dell’amore per il prossimo anche da parte di chi non conosce Dio e non lo confessa. “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18): questo era un precetto dato da Dio a Israele, ma Gesù lo pone accanto al primo comando, come simile (homoíos) a quello dell’ascolto e dell’amore per Dio. Potremmo dire che la fede in Dio agisce nell’amore per il prossimo, per colui che rendiamo vicino, che decidiamo di amare quando lo incontriamo (cf. Lc 10,29-37). L’amore del prossimo non è teorico, non è amore in generale per tutta l’umanità, ma è concreto, e la sua forma la dobbiamo decidere ogni volta in modo intelligente e creativo, come richiede l’amore vero, autentico per l’altro. La regola d’oro, “Fa’ agli altri ciò che vuoi sia fatto a te” (cf. Mt 7,12; ma è attestata anche nella sapienza delle genti), chiede poi a ciascuno di determinare ciò che deve essere fatto come “amore efficace”, assumendo la responsabilità dell’amore e anche dei possibili errori in questo cammino. Errori che però mai saranno gravi come il peccato di omissione, di non fare nulla per amare…
A questo punto Matteo, e solo lui, riporta le parole di Gesù: “Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti” (cf., in parallelo, il commento alla “regola d’oro”: “Questa è la Legge e i Profeti”), mentre secondo Marco Gesù dichiara: “Non c’è altro comandamento più grande di questi” (Mc 12,31). E così, secondo Matteo, questo due comandi, letti insieme, diventano ricapitolazione di tutta la Legge (cf. Rm 13,8-10; Gal 5,14; Gc 2,8), mentre il primo da solo non è sufficiente a sintetizzarla. Purtroppo noi contrapponiamo facilmente i due comandamenti o li mettiamo in concorrenza, ma guai a chi attua mefitiche distinzioni! Noi umani abbiamo un solo modo di amare in verità, e l’amore per il prossimo è il criterio per verificare il nostro amore per Dio. Lo esprimerà mirabilmente ancora l’apostolo Giovanni: “Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). E potremmo anche parafrasare: chi non sa ascoltare il fratello che vede, non può ascoltare Dio che non vede; chi non sa fare fiducia al fratello che vede, non può fare fiducia a Dio che non vede!
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Questo vangelo dovrebbe risuonare ai nostri orecchi non come un testo conosciuto e talmente ripetuto che supponiamo di averlo capito una volta per sempre, ma dovrebbe essere un’occasione per esaminare ogni giorno la nostra capacità di amare Dio e il prossimo. “Tu amerai”: in questa espressione sta tutta la nostra vocazione, tutto ciò che quotidianamente possiamo e dobbiamo cercare di vivere. “Tu amerai”… Per questo Agostino può commentare: “L’amore di Dio è primo nell’ordine dei precetti, l’amore del prossimo è primo nell’ordine della prassi … Amando il prossimo rendi puro il tuo sguardo per poter vedere Dio” (Commento al vangelo secondo Giovanni 17,8).
A conclusione di questa lettura, vorrei far notare che l’ultima parola detta da Gesù ai farisei: “Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”, può essere colta in altra forma negli insegnamenti dell’Apostolo Paolo. È vero che per lui tutta la Legge e i Profeti sono riassunti nel comando dell’amore del prossimo, ma chi agisce in questo modo è “il giusto” che “per fede vivrà” (Rm 1,17; Gal 3,11; Eb 10,38; Ab 2,4), dove la fede è operosa e mai contraddice l’amore. È significativo che, con un ragionamento parallelo, i rabbini arrivassero a dire:
Rabbi Simlaj disse: “Sul monte Sinai a Mosè sono stati enunciati 613 comandamenti: 365 negativi, corrispondenti al numero dei giorni dell’anno solare, e 248 positivi, corrispondenti al numero degli organi del corpo umano … Poi venne David, che ridusse questi comandamenti a 11, come sta scritto [nel Sal 15] … Poi venne Isaia che li ridusse a 6, come sta scritto [in Is 33,15-16] … Poi venne Michea che li ridusse a 3, come sta scritto: ‘Che cosa ti chiede il Signore, se di non praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio?’ (Mi 6,8) … Poi venne ancora Isaia e li ridusse a 2, come sta scritto: ‘Così dice il Signore: Osservate il diritto e praticate la giustizia’ (Is 56,1) … Infine venne Abacuc e ridusse i comandamenti a uno solo, come sta scritto: ‘Il giusto per fede vivrà’ (Ab 2,4)” (Talmud di Babilonia, Makkot 24a).
Infine, non si dimentichi il “comandamento nuovo” dato da Gesù ai suoi discepoli nel vangelo secondo Giovanni: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 13,34; 15,12). Gesù non dice: “Come io ho amato voi, così voi amate me”, in una simmetria responsoriale, ma dà il comando di un amore diffusivo: l’amore del Signore per noi ci abilita ad amare gli altri del suo stesso amore, fino a dare la vita per loro.
Per gentile concessione dal blog di Enzo Bianchi