Enzo Bianchi – Commento al Vangelo del 26 Giugno 2022

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Si può pregare contro i nemici?

Con questo brano si apre la seconda parte del vangelo secondo Luca, quella che ci testimonia il viaggio di Gesù a Gerusalemme, dove egli sarà arrestato, condannato e crocifisso.

L’ouverture è solenne: “Ora, avvenne che, mentre stavano per compiersi i giorno della sua elevazione, egli indurì il suo volto per camminare verso Gerusalemme”. Stanno per compiersi dei giorni, sta per avvenire nella vita di Gesù l’evento della sua elevazione, ed egli lo sente dentro di sé come una necessitas innanzitutto umana (il profeta non può non essere perseguitato e ucciso proprio a Gerusalemme; cf. Lc 13,34-35), nella quale è inscritta la necessitas divina: se Gesù obbedisce alla vocazione e non si sottrae ai nemici, difendendosi o fuggendo, allora sarà tolto, elevato da questa terra verso il Regno, verso il Padre. Sarà l’ora del suo esodo (cf. Lc 9,31), e questa dipartita è chiamata da Luca – che si ispira al racconto della fine di Elia (cf. 2Re 2,8-11) – elevazione, ascensione, rapimento (análempsis). È significativo che Luca usi lo stesso termine (per l’esattezza il verbo analambáno) per parlare dell’ascensione di Gesù al cielo (cf. At 1,2.11.22).

Gesù allora “indurì il suo volto per camminare verso Gerusalemme”, cioè, diremmo noi, serrò i denti, assunse un volto severo e determinato perché, sapendo di andare incontro a una fine tragica, doveva anche lui sconfiggere la paura che lo assaliva. Gesù radunò tutte le sue forze, prese coraggio dal profondo del cuore e, leggendosi come il Servo sicuro che il Signore era con lui, “rese il suo volto duro come pietra, sapendo di non restare confuso” (cf. Is 50,7). L’esperienza dell’indurire il volto è tipica del profeta che a volte sperimenta che è il Signore a rendergli il volto duro, per aiutarlo contro i nemici, altre volte è lui stesso a dover indurire la faccia per poter accettare il destino di persecuzione. Profezia a caro prezzo, a costo di dover stringere i denti e predicare ciò che non si vorrebbe, operare come non si vorrebbe (cf. Ez 3,8-9). Spesso non pensiamo alla fatica, alla paura e all’angoscia vissute da Gesù, ma la sua condizione di piena umanità non lo ha preservato da questi sentimenti di fronte a ciò che si profilava davanti a sé: rigetto, condanna religiosa e politica, morte violenta. Umanamente Gesù ha provato lo sconforto di Elia davanti alla persecuzione di Gezabele (cf. 1Re 19,1-8), ha provato l’angoscia di Geremia quale agnello condotto al macello (cf. Ger 11,19), ha faticato come il Servo ad accettare di dare la sua vita per i peccatori (cf. Is 53,12).

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In quella situazione di svolta, Gesù invia alcuni messaggeri davanti a sé, discepoli inviati a preparargli la strada come nuovi precursori, ma questi, entrati in un villaggio di samaritani, vengono respinti. È l’esperienza dell’opposizione a Gesù e al suo Vangelo da parte di quei samaritani che egli amava a tal punto da assumere alcuni di loro come esemplari, nella famosa parabola (cf. Lc 10,33-35) e nel leggere in un incontro personale il risultato delle sue azioni messianiche (cf. Lc 17,15-16). I samaritani, scismatici e ritenuti impuri dai giudei, disprezzati e considerati come feccia, dunque oppressi, non accolgono però il Vangelo e, diffidando di Gesù in quanto galileo diretto a Gerusalemme, lo rifiutano.

Luca registra allora la reazione dei due discepoli fratelli, Giacomo e Giovanni, “boanèrghes, cioè ‘figli del tuono’” (Mc 3,17), che appartenendo alla comunità di Gesù si sentono offesi e si rivolgono a Gesù stesso confidando nel potere che egli ha affidato loro: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?”. Ovvero, “vuoi che facciamo come Elia, il quale invocò il fuoco dal cielo che divorò i suoi nemici” (cf. 1Re 18,36-40; 2Re 1,10)? Era un’azione compiuta da un profeta grande come Elia, dunque può essere ripetuta a causa della presenza di Gesù, profeta più grande di Elia. Giovanni e Giacomo non vanno condannati troppo facilmente: comprendere che la via di Gesù non è quella della condanna ma della misericordia, non era facile per loro, ebrei osservanti e zelanti! D’altronde, non erano i più vicini a Gesù, interpreti della sua volontà? Accettare la sua debolezza, la possibilità del fallimento della sua missione, accogliere il suo ministero non di condanna ma di salvezza del peccatore, non era facile…

Ma Gesù respinge questa sollecitazione o tentazione da parte dei due discepoli, si volta verso di loro che lo seguivano e li rimprovera, dicendo (secondo alcuni manoscritti): “Voi non sapete di che spirito siete! Poiché il Figlio dell’uomo non è venuto a perdere le vite degli uomini, ma a salvarle”. Gesù registra la loro ignoranza dei suoi sentimenti e dello stile della sua missione e denuncia che il loro cuore è abitato da uno spirito non conforme al suo. Nella storia purtroppo succederà spesso che i discepoli di Gesù, proprio credendo di eseguire la volontà e il desiderio del Signore, in realtà lo contraddiranno e gli daranno il volto di un giudice venuto per castigare e distruggere i malvagi…

Se vi sono quelli che rifiutano Gesù, ve ne sono però altri che lo vogliono seguire, diventando suoi discepoli. Luca testimonia anche questo correre dietro a Gesù e ci presenta tre fatti accaduti durante il suo cammino verso la città santa. Innanzitutto racconta di un tale che grida a Gesù: “Ti seguirò dovunque tu vada”. Parole molto generose, apparentemente convinte, che contengono una proposta senza condizioni. Gesù ascolta, discerne che in quella persona c’è entusiasmo, ma sa che questo non è sufficiente per durare nella vocazione. Colui che fa questa affermazione non chiama Gesù “Signore”, non ha fede in lui, ma è uno di quelli che vuole dare a se stesso una vocazione, non riceverla: è un autocandidato alla sequela, con un entusiasmo da militante. A differenza del comportamento della pastorale odierna, che definisce la vocazione “facile”, “senza rinunce”, “scelta di tutto”, Gesù proclama con chiarezza le difficoltà del cammino del discepolo, perché non vuole fare un “reclutamento”, un’“incetta” di discepoli. Diventare discepoli significa accettare la povertà, l’insicurezza, il fardello del fratello o della sorella da portare, la sottomissione reciproca, l’insicurezza e poi anche il fallimento, quella fine verso cui il Signore cammina con il volto indurito. Sì, peggio della sorte degli animali selvatici! E così quella auto-vocazione non ha neppure il tempo della prova…

Vi è un altro a cui Gesù dice: “Seguimi”, ma si sente rispondere: “Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre”. Richiesta legittima, fondata sul comandamento che richiede di onorare il padre e la madre (cf. Es 20,12; Dt 5,16). Gesù però chiede che, seguendo lui, si interrompa il legame con l’ordine familiare e con la religione della legge, dei doveri: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio”. Quando Gesù chiama, non si può preferire un comandamento, seppur santo, al suo amore: o si sceglie lui radicalmente o si continua a stare insieme ai morti! Di fronte a queste nette affermazioni di Gesù, come ci poniamo noi? Le assumiamo come una necessitas, oppure le leggiamo volentieri come iperboli massimaliste, oppure facciamo come la pastorale dominante oggi, che ha paura di chiedere la rottura con la famiglia a causa di Cristo e continua a beatificare la famiglia come se fosse la realtà ultima ed essenziale per la vita eterna?

Infine, un terzo si avvicina a Gesù e gli promette di seguirlo, chiedendogli solo una dilazione per dare addio alla famiglia, alla gente della sua casa, padre, madre, fratelli e sorelle. D’altronde Eliseo aveva fatto la stessa richiesta a Elia, dopo essere stato chiamato da lui (cf. 1Re 19,20), dunque tale esigenza pare legittima. Gesù però non afferma l’esemplarità di queste parole di Eliseo né il suo comportamento, ma anzi proclama con forza che se uno che ha in mano l’aratro guarda indietro, non solo scava male il solco, ma non sa concentrarsi sulla meta, mostrando così di non essere adatto per il regno di Dio.

Concludo questi cenni di commento con una certa tristezza. Innanzitutto perché non siamo noi stessi capaci di questa radicalità, perciò non dobbiamo giudicare gli altri. Ma tristezza anche perché ormai la voce di molti cristiani, sì la voce di molti, anche pastori della chiesa, non sa più ripetere le parole del Vangelo con il prezzo che esse esigono. Nell’angoscia dovuta alla mancanza di vocazioni per le opere che essa decide, la tentazione è quella di abbellire la chiamata, come chi fa pubblicità per un prodotto senza indicarne i costi: questa è mondanità, non radicalità evangelica!

Per gentile concessione dal blog di Enzo Bianchi