Enzo Bianchi – Commento al Vangelo del 25 Dicembre 2022

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Dio in un uomo, nel mondo

Natale del Signore

La gloria, il peso di Dio si manifesta nel suo agire nel mondo, anche se egli è Santo ed è nel più alto dei cieli, nel suo dare la pace all’umanità che egli ama. Ecco la buona notizia del Natale: Dio ci ama a tal punto da aver voluto essere in Gesù Cristo, nato nell’umiltà e nella povertà, uno di noi, tra di noi, uguale a noi, un uomo come noi.

Brevi note sulle altre letture bibliche

Isaia 9,1-6

Il profeta Isaia contempla la situazione del popolo di Israele nella terra promessa e donata da Dio e scorge un mistero di morte e resurrezione per la porzione del nord, quella abitata dalle tribù di Zabulon e di Neftali. Mentre egli scrive, queste terre sono desolate dopo la conquista e la deportazione ad opera degli Assiri (722 a.C.). Ma proprio questi territori periferici e umiliati un giorno saranno i primi a risorgere: vedranno una grande luce, la fine della schiavitù e della guerra, a causa della nascita di un bambino, dono di Dio al suo popolo. Un bambino chiamato con dei titoli inauditi: “Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace”. Ecco il Messia glorioso e vincitore profetizzato da Isaia.

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Lettera a Tito 2,11-14

L’Apostolo ricorda in sintesi l’evento della nostra salvezza: l’incarnazione, l’umanizzazione di Dio che è epifania, manifestazione della sua grazia, del suo amore gratuito che non va mai meritato. È significativo che Girolamo traduca: “È apparsa l’humanitas, l’umanità di Dio nostro Salvatore” (Tt 3,4, Vulgata). Sì, umanità che insegna alla nostra umanità, umanità come Dio l’ha pensata, voluta, creata e pienamente realizzata in suo Figlio, che è per sempre “grande Dio e Salvatore”.

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Per secoli i primi cristiani festeggiarono come festa delle feste la Pasqua di resurrezione di Gesù il primo giorno della settimana ebraica, diventato per loro “giorno del Signore” (Ap 1,10), mentre non sappiamo se in qualche comunità del Mediterraneo si ricordasse la nascita di Gesù con una festa particolare. Nel IV secolo, dopo l’editto di Costantino e la libertà di culto concessa ai credenti in Cristo, avvenne la cristianizzazione di una festa pagana introdotta poco prima dall’imperatore Aureliano (270 ca.), e celebrata a Roma come festa del Sol invictus, del “Sole vincitore”, che in quel giorno comincia ad allungare il suo tempo di luce sulla terra. Per i cristiani Gesù il Signore era “il sole di giustizia” cantato da Malachia (Ml 3,20; cf. Lc 1,78) era “la luce del mondo” proclamata dal vangelo (Gv 8,12). Ecco allora che in occidente la rinascita del Sol invictus pagano è stata cristianizzata mediante la festa del Natale, della Natività di Gesù Cristo. Parallelamente, in oriente (Egitto e Siria), dove il solstizio d’inverno cade il 6 gennaio, si assunse quella data per celebrare l’Epifania come festa della manifestazione della venuta del Figlio di Dio nella nostra umanità.

Questa l’origine della nostra festa, che da sempre ha al suo centro il vangelo della nascita di Gesù secondo Luca. Nella messa della notte, celebrata nel cuore delle tenebre, rifulge una grande luce: Gesù, partorito da Maria a Betlemme. Questo racconto non è una favola, anche se sembra scritto per i bambini, che significativamente lo ricordano per tutta la vita, ma è una pagina del vangelo, una buona notizia! Per questo Luca vuole innanzitutto situare tale evento nella grande storia del Mediterraneo, contrassegnata dal dominio dell’impero romano. Cesare Augusto decide di contare i cittadini di tutte le terre conquistate da Roma: per questo ordina un censimento, eseguito nella terra di Israele da Quirinio, governatore della Siria. Giuseppe obbedisce a quest’ordine e, insieme alla moglie Maria, lascia la sua città di Nazaret per recarsi a Betlemme, in Giudea, nel sud della terra santa, là dove aveva avuto origine la casa e la discendenza di David, il Messia, l’unto del Signore, il re di Israele.

Mentre questa coppia si trova a Betlemme, in una condizione precaria e di povertà non avendo trovato posto nel caravanserraglio, in una piccola costruzione, appena un riparo nella campagna, Maria che è incinta dà alla luce il suo figlio primogenito, annunciato a lei per rivelazione come generato dallo Spirito di Dio (cf. Lc 1,35), un Figlio che solo Dio poteva dare all’umanità tutta. Qui vi è già una forte contrapposizione, che caratterizzerà tutta la vicenda di questo neonato. Chi domina il mondo è Augusto – chiamato Divus, “Dio”; Sotér, Salvatore; Kýrios, Signore –, ma il vero Salvatore e Signore è un suo suddito, un bambino nato in una situazione povera, per il quale da subito sembra non esserci posto in questo mondo.

Conosciamo tutti bene l’icona della Natività: una capanna o una grotta, e Maria che adagia suo figlio in una mangiatoia, con accanto Giuseppe, testimone e custode di quel mistero nel quale viene coinvolto e al quale presta puntualmente obbedienza. Tutto accade nella notte, nel silenzio, nella condizione umanissima di una madre che partorisce un figlio. Nessuno conosce quella coppia, nessuno l’ha accolta, nessuno si è accorto di nulla. Ma ecco che Dio invia un suo messaggero ai pastori che si trovano sulle alture circostanti Betlemme, per alzare il velo su quell’evento: “un angelo del Signore si presentò a loro e la Gloria del Signore li avvolse di luce”. I pastori sono gente disprezzata, emarginata, neppure ritenuta degna di andare al tempio per incontrare il Signore. Ma proprio a questi ultimi della società di Giudea è rivolto l’annuncio, la buona notizia per eccellenza, che è gioia per tutto Israele, per tutto il popolo di Dio. Per la loro condizione di poveri e ultimi, i pastori sono i primi destinatari di diritto di questa buona notizia:

Oggi, nella città di David, del Messia,
è nato per voi un Salvatore, che è il Messia, il Signore.

In questo annuncio cogliamo come un anticipo della buona notizia pasquale: Gesù è il Kýrios, il Salvatore! Non Augusto, che vantava questi titoli, ma un infante appena nato riceve questi stessi titoli da parte di Dio. Così avviene la rivelazione ai piccoli, agli ultimi, dalla quale sono esclusi quanti credevano di esserne destinatari di diritto: sacerdoti, esperti della Legge, credenti militanti convinti di essere loro soli i veri figli di Abramo.

Ai pastori è dato anche un segno, un’indicazione perché possano vedere e comprendere; nulla di straordinario o di divino ma, di nuovo, una realtà umanissima: “Troverete un neonato avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”. Realtà semplice e umile, senza ornamenti, senza “straordinario”. Eppure questo annuncio è dato da un coro innumerevole di creature invisibili, in una sorta di liturgia cosmica, quella liturgia del cielo che non riusciamo a vedere né ad ascoltare ma che riempie l’universo e canta la santità e la gloria di Dio, cioè proclama chi e come Dio ama. Infatti, ciò che in quel canto corale viene rivelato è la volontà di Dio: “Dio ha peso (kabod, gloria), Dio agisce nel mondo anche se è Santo ed è nel più alto dei cieli, Dio dà la pace all’umanità che egli ama”.

Ecco la buona notizia del Natale: Dio ci ama a tal punto da aver voluto essere uno di noi, tra di noi, uguale a noi, un uomo come noi.

Per gentile concessione dal blog di Enzo Bianchi