Enzo Bianchi – Commento al Vangelo del 23 Luglio 2023

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Buoni e malvagi entrambi presenti

Continuiamo la lettura del discorso parabolico di Gesù nel vangelo secondo Matteo. Dopo la parabola del seminatore e la sua spiegazione, eccone un’altra riguardante sempre la semina. Ma se nella prima l’accento cadeva sui diversi terreni nei quali cadeva il buon grano, qui invece l’attenzione va all’oggetto della semina: buon seme o cattivo seme.

Ascoltiamo dunque la narrazione:

Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania.

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Così accade nella vita degli umani e nella storia del mondo. C’è una semina di grano buono, che viene fatta di giorno dal contadino nel suo campo per ottenere frutto, un frutto abbondante e buono. A volte però accade che qualcuno faccia un’altra semina: la fa di notte, di nascosto, perché sa di compiere un’azione malefica. Egli semina zizzania, erba che non dà frutto ma sfrutta il terreno e finisce per soffocare il buon seme. Così, a un certo momento della crescita del grano, appare anche quest’erba infestante… Allora il campo non è più una speranza di buon raccolto, ma appare minacciato, sicché il faticoso lavoro non darà il frutto previsto.

Questa scoperta sorprende e rattrista il contadino. Come mai? Perché? Cosa è avvenuto e cosa il contadino non ha visto, osservato? Sono domande che riguardano il male presente accanto al bene. A un certo punto della nostra esistenza anche noi scopriamo la presenza del male: chi lo ha introdotto in noi e intorno a noi? Perché non ce ne siamo accorti? È un’esperienza anche dolorosa, che richiede un discernimento su di noi e sulla nostra vita: abbiamo accolto la parola di Dio, l’abbiamo meditata e custodita, abbiamo anche tentato di realizzarla (cf. Mt 13,22-23), ma ecco apparire il male come opera delle nostre mani. È anche l’esperienza della comunità cristiana, della chiesa, che è un corpus mixtum, poiché di essa fanno parte forti e deboli, semplici ed eruditi, giusti e peccatori, fedeli e infedeli. Non è stata così anche la piccola comunità di Gesù? Al suo interno vi è chi ha tradito, chi ha rinnegato, chi era pauroso e vile, chi è fuggito…

Chi legge situazioni come queste assomiglia ai servi della parabola i quali, vista la situazione del campo, interrogano il padrone sul grano seminato; e saputo che un nemico ha compiuto l’operazione di semina della zizzania, propongono di estirpare quest’erba infestante. Ai loro occhi tale separazione è necessaria affinché il grano possa crescere senza venire privato di sostanze vitali e di spazio. Ma il padrone ha un’altra ottica: quella della pazienza, dell’attesa paziente di un tempo in cui si possa separare l’erbaccia dal buon grano senza nuocere a quest’ultimo. Egli sa che nel desiderio di sradicare il male c’è il rischio di sradicare, o per lo meno di destabilizzare, anche il bene. Occorre da parte del padrone pazienza e da parte del grano buono un esercizio di mitezza, che accetta accanto a sé la presenza di piante cattive.

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Certo, verrà l’ora della mietitura, del giudizio – come Gesù chiarisce meglio nella spiegazione della parabola richiestagli dai discepoli –, e allora vi sarà la separazione, perché il pane sarà prodotto con il buon grano, mentre la zizzania sarà bruciata: ma nel frattempo c’è bisogno di attesa paziente e di mitezza. L’intransigenza, il cercare la purezza a tutti i costi, la rigidità di volere una comunità composta tutta di giusti è pericolosa, perché i confini tra bene e male, tra giustizia e ingiustizia a volte non sono così netti. Questa prima parabola è un ammonimento sul nostro stile di vita ecclesiale, chiedendo quella pazienza che sa rinviare un atto legittimo anche da parte di chi ne è competente, come i mietitori, e rinviarlo all’ora che non ci appartiene, quella del giudizio. Sì, per i credenti ci sono tentazioni al male proprio quando “vedono” il bene: intolleranza, partigianeria, integralismi, militanza contro… È la tentazione del catarismo: solo puri!

Poi Gesù propone un’altra piccola parabola: “Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo”. Qui egli richiama l’attenzione sulla piccolezza del seme di senape: una pianta dell’orto, un arbusto il cui seme è piccolissimo, minuscolo. Eppure, se è seminato nel campo, esso cresce, cresce fino a diventare una pianta con rami sui quali gli uccelli possono fare i loro nidi. L’attenzione è posta sul momento iniziale e su quello finale, e dunque il messaggio va colto nell’opposizione “il più piccolo/il più grande”. È sorprendente, in un certo senso anche scandaloso, ma è così: il regno dei cieli appartiene a realtà che non s’impongono per grandezza, quasi non si vedono, come il seme di senape. All’inizio la realtà è veramente piccola, e gli uomini non sembrano tenerne conto né avere la possibilità di apprezzarla. Eppure piccole realtà hanno inscritta dentro di loro la capacità di essere una forza, di instaurare una dinamica che si manifesta in una crescita apparentemente prodigiosa, soprattutto se si considera la piccolezza iniziale del seme.

Gesù mostra di essere consapevole che quell’inizio della predicazione del Regno quasi non era osservabile, ma sa anche che ci sarà una crescita e la presenza del Regno si farà sentire quando, cresciuto come un albero, offrirà i suoi rami alle genti, ai non ebrei, ai pagani, perché anch’essi possano dimorare sui rami del Regno. E si faccia attenzione: la dýnamis (cf. Rm 1,16), la potenza impercettibile del seme di senape, che lo fa diventare un albero, non si identifica con i cristiani, ma con il Regno, sicché l’albero non è la chiesa ma il Regno. E ancora, non è l’albero che dà la forza al seme, ma è il seme che con la sua forza si sviluppa in albero! Così accade per il regno dei cieli: nell’oggi dei credenti appare sempre una realtà piccola, ma nel futuro sarà manifestata la sua grandezza. Il discepolo deve guardare al contrasto tra l’oggi e il futuro, ma deve anche capire che il futuro dipende proprio dalla piccolezza dell’oggi. La parabola è dunque rivelazione, alza il velo sulla vicenda del Regno e dichiara che i criteri di grandezza e dell’apparire, criteri mondani, non devono essere applicati alla storia del regno di Dio: la forza del Regno non va confusa con il fascino della grandezza, declinabile volta per volta come numero, prestigio, potere…

Nella stessa prospettiva segue la parabola, o meglio la similitudine del lievito, tesa nuovamente a mostrare il rapporto piccolo/grande: un pizzico di lievito fa gonfiare “tre misure”, cioè circa quaranta chilogrammi di pasta! Nelle lettere paoline c’è un’immagine negativa del lievito (cf. 1Cor 5,6-8; Gal 5,9), ma qui la similitudine rovescia, capovolge tale concezione, e così l’attenzione del discepolo è catturata ancor più efficacemente: anche il bene è contagioso, non solo il male.

D’altra parte, se nella parabola precedente l’albero cresciuto a partire dal seme era visibile, qui il lievito scompare nella farina, quasi a dire che quella forza entrata nella pasta la fa lievitare proprio scomparendo in essa. Conosciamo bene questa immagine, sovente citata anche nelle omelie e nella catechesi, ma occorre essere vigilanti e intelligenti: non si ceda alla facile metafora dei cristiani come lievito del mondo, perché il lievito è il Regno, è lui la forza che fa fermentare il mondo, non i cristiani. Questi non sono né il lievito né la pasta, ma sono quelli che il lievito ha già fatto fermentare per essere “pane cotto” (come si legge nel Martirio di san Policarpo 15,2), spezzato per il mondo e offerto al Signore.

A conclusione delle due parabole e della similitudine ecco l’annotazione del narratore, l’evangelista Matteo: 

Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava a esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: “Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” (Sal 78,2).

Questa citazione si trova nel salmo 78, attribuito ad Asaf (cf. Sal 78,1), profeta cantore che medita sulla venuta di David (cf. 2Cr 29,30), il servo di Dio pastore di Israele. Egli dice di proclamare, alla lettera “gli enigmi dei tempi antichi” (Sal 78,2). Matteo preferisce parlare di “cose nascoste fin dalla fondazione del mondo”, ma l’idea espressa è simile. Dio ha nascosto realtà prima della fondazione del mondo, per rivelarle al tempo opportuno: infatti, se si nasconde qualcosa (proprio come il lievito, alla lettera, “è nascosto” nella farina), è per ritrovarlo più tardi!

E così siamo posti di fronte alla rivelazione di Gesù, mistero inesauribile nel quale ci sono realtà nascoste da scoprire, da accogliere, da invocare da parte del Signore come rivelazione piena, alzata del velo. E tutto ciò affinché possiamo conoscere di più lui, il Signore Gesù Cristo (cf. Fil 3,10), e conoscendolo amarlo di più, in un’intima comunione di vita, capace di trasformarci senza che sappiamo come (cf. Mc 4,27).

Per gentile concessione dal blog di Enzo Bianchi