Enzo Bianchi – Commento al Vangelo del 23 Gennaio 2022

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I destinatari della buona notizia

Nel dare forma alla buona notizia, il Vangelo, attraverso il racconto, Luca ha la consapevolezza di una propria responsabilità davanti a Dio e agli uomini. Davanti a Dio deve essere un “servo della Parola”, capace di tenere conto di altri scrittori precedenti a lui e più autorevoli di lui: “i testimoni oculari”, quelli che hanno vissuto nell’intimità e nella vita pubblica con Gesù (cf. At 1,21-22); davanti agli uomini sente il dovere di rispondere a quei primi cristiani della sua comunità, dando loro una parola come cibo capace di nutrire e confermare la loro fede. Per questo ha composto quello che chiamiamo il terzo vangelo, attingendo con cura alla tradizione apostolica ma nello stesso tempo scrivendo con le sue capacità e la sua sensibilità a dei cristiani di lingua greca negli anni 70-80 della nostra era. Il Vangelo è un canto a quattro voci, quattro racconti, quattro memorie: ma il canto polifonico resta un solo canto, e uno solo è il Vangelo fatto carne, uomo (cf. Gv 1,14), Gesù di Nazaret.

Luca è molto attento a testimoniare la presenza dello Spirito di Dio in Gesù. Gesù – che è la Parola di Dio (cf. Gv 1,1) – e lo Spirito santo sono “compagni inseparabili” (Basilio di Cesarea), dunque dove Gesù parla e agisce là c’è anche lo Spirito. Nei capitoli precedenti del vangelo, quelli riguardanti la venuta nel mondo del Figlio di Dio, Luca ha mostrato che egli è stato concepito nell’utero di Maria grazie alla potenza dello Spirito santo (cf. Lc 1,35), e la sua apparizione pubblica quale discepolo di Giovanni il Battista, che lo ha immerso nel Giordano, è stata sigillata dalla discesa su di lui dello Spirito santo (cf. Lc 3,22). Proprio questo Spirito conduce Gesù nel deserto, dove viene tentato dal demonio (cf. Lc 4,1-2a), e lo accompagna – è l’inizio del nostro brano liturgico – quando ritorna in Galilea, la sua terra, dalla quale si era allontanato per andare nel deserto e mettersi alla sequela del profeta battezzatore. Con questa insistenza Luca è intenzionato a far comprendere al lettore che Gesù è “ispirato”, che la sua sorgente interiore, il suo respiro profondo è lo Spirito di Dio, il Soffio del Padre. Non è un profeta come gli altri, sui quali lo Spirito scendeva momentaneamente, perché in lui lo Spirito riposava, sostava, dimorava (cf. Gv 1,32), lo riempiva di quella forza (dýnamis) che non è potere, ma partecipazione all’azione e allo stile di Dio.

E cosa fa Gesù nel suo ritorno alla “Galilea delle genti” (Mt 4,15; Is 8,23), terra periferica e impura? Va a “insegnare nelle sinagoghe”. Per iniziare la sua missione non ha scelto né Gerusalemme né il tempio, ma quelle umili sale in cui si riunivano i credenti per ascoltare le sante Scritture e offrire il loro servizio liturgico al Signore. Nelle sinagoghe di sabato si facevano preghiere, poi si leggeva la Torah (una pericope, una parashah del Pentateuco), la Legge, quindi si pregavano Salmi e, a commento della Torah, si proclamava un brano (haftarah) tratto dai Profeti. Non era una liturgia diversa da quella che ancora oggi noi cristiani compiamo ogni domenica. Gesù è ormai un uomo di circa trent’anni, non appartiene alla stirpe sacerdotale, quindi non è un sacerdote, è un semplice credente figlio di Israele ma, diventato a dodici anni “figlio del comandamento” (cf. Lc 2,41-42), è abilitato a leggere pubblicamente le sante Scritture e a commentarle, facendo l’omelia.

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E così accade che quel sabato, proprio nella sinagoga in cui la sua fede era stata nutrita fin dall’infanzia, quando abitava a Nazaret, mediante le liturgie comunitarie, Gesù sale sull’ambone e, aperto il rotolo che gli viene dato, legge la seconda lettura il brano previsto per quel sabato: il capitolo 61 del profeta Isaia. Questo testo è l’autopresentazione di un profeta anonimo che testimonia la sua vocazione e la sua missione:

Lo Spirito del Signore è sopra di me,
per questo mi ha unto (échrisen)
e mi ha inviato per annunciare la buona notizia ai poveri,
per proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista,
per rimandare in libertà gli oppressi,
per proclamare l’anno di grazia del Signore (Is 61,1-2a).

Chi è questo profeta senza nome, presentato da Isaia? Quale la sua identità? Quale sarà la sua missione? Quando la sua venuta tanto attesa? Queste certamente le domande che sorgevano alla lettura di quel testo.

Gesù, dopo aver letto il brano tralasciando i versetti finali che annunciavano “un giorno di vendetta per il nostro Dio” (Is 62,2b), lo commenta con pochissime parole, così riassunte da Luca:

Oggi si è realizzata questa Scrittura
(ascoltata) nei vostri orecchi.

Oggi, oggi (sémeron) Dio ha parlato e ha realizzato la sua Parola. Oggi, perché quando un ascoltatore accoglie la parola di Dio, è sempre oggi: è qui e adesso che la parola di Dio ci interpella e si realizza. Non c’è spazio alla dilazione: oggi! È proprio Luca a forgiare questa teologia dell’“oggi di Dio”. Per ben dodici volte nel suo vangelo risuona questo avverbio, “oggi”, di cui queste le più significative:

per la rivelazione fatta dagli angeli a Betlemme (cf. Lc 2,11);
per la rivelazione ad opera dalla voce celeste nel battesimo (cf. Lc 3,22; variante che cita Sal 2,7);
nel nostro brano, come affermazione programmatica (cf. Lc 4,21);
durante il viaggio di Gesù verso Gerusalemme (cf. Lc 13,32.33);
come annuncio della salvezza fatto da Gesù a Zaccheo (cf. Lc 19,5.9);
come parola rivolta a Pietro quale annuncio del suo rinnegamento (cf. Lc 22,34.61);
come salvezza donata addirittura sulla croce, a uno dei due malfattori (cf. Lc 23,43).

Oggi è per ciascuno di noi sempre l’ora per ascoltare la voce di Dio (cf. Sal 95,7d), per non indurire il cuore (cf. Sal 95,8) e poter così cogliere la realizzazione delle sue promesse. La parola di Dio nella sua potenza risuona sempre oggi, e “chi ha orecchi per ascoltare, ascolti” (Lc 8,8; cf. Mc 4,9; Mt 13,9). Oggi si ascolta e si obbedisce alla Parola o la si rigetta; oggi si decide il giudizio per la vita o per la morte delle nostre vicende; oggi è sempre parola che possiamo dire come ascoltatori autentici di Gesù: “Oggi abbiamo visto cose prodigiose” (Lc 5,26). E possiamo dirla anche dopo un passato di peccato: “Oggi ricomincio”, perché la vita cristiana è andare “di inizio in inizio attraverso inizi che non hanno mai fine” (Gregorio di Nissa).

Gesù è dunque il profeta atteso e annunciato dalle sante Scritture, il profeta ultimo e definitivo, ma questo non lo proclama apertamente, bensì lascia ai suoi ascoltatori di comprendere la sua identità facendo discernimento sulle azioni che egli compie, accogliendo la novità della buona notizia da lui annunciata. Gesù è il Cristo, il Messia unto da Dio (échrisen), non con un’unzione di olio ma attraverso lo Spirito santo; è l’inviato per portare ai poveri, sempre in attesa della giustizia, il Vangelo; per proclamare ai prigionieri di ogni potere la liberazione; per dare la vista ai ciechi; per liberare gli oppressi da ogni forma di male; per annunciare l’anno di grazia del Signore, il tempo della misericordia, dell’amore gratuito di Dio.

Missione profetica questa, che Gesù ha inaugurato con segni e parole, ma missione affidata ai discepoli nel loro abitare la storia nella compagnia degli uomini. Sì, queste parole di Gesù ci possono sembrare una promessa mai realizzata, perché i poveri continuano a gridare, gli oppressi e i prigionieri continuano a gemere e neppure i cristiani sanno vivere la misericordia di Dio annunciata da Gesù. Eppure questa liturgia della Parola, che ha avuto in Gesù non solo il lettore e l’interprete, ma soprattutto colui che l’ha compiuta e realizzata, illumina tutto il suo ministero: da Nazaret, dove egli l’ha inaugurata nella sinagoga, a Gerusalemme, dove in croce porterà a compimento la sua missione.

Per gentile concessione dal blog di Enzo Bianchi