“Noi speravamo…”
Il racconto dell’incontro tra Gesù risorto e i due discepoli in cammino verso Emmaus è stato sapientemente collocato da Luca nell’ultimo capitolo del suo vangelo, che vuole significare una conclusione e nello stesso tempo un’apertura della narrazione che proseguirà negli Atti degli apostoli. Siamo di fronte a una sintesi di tutto il vangelo, perché questo testo riassume non solo l’intera vicenda di Gesù di Nazaret, ma anche l’intera storia di salvezza che Gesù stesso traccia “spiegando tutte le Scritture” (cf. Lc 24,27). Proprio la seconda parte dell’opera lucana, gli Atti, sarà un’interpretazione, una spiegazione di tutte le Scritture dell’Antico Testamento compiutesi in Gesù e, nel contempo, la narrazione degli eventi avvenuti nel ricordo delle sue parole.
Con il riconoscimento di Gesù “veramente risorto” da parte degli Undici, ossia di quanti lo avevano seguito – come dice Pietro – “per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù ha vissuto tra noi, cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di mezzo a noi assunto in cielo” (At 1,21-22), si chiude l’epoca della testimonianza oculare: coloro che sono stati “testimoni oculari” (Lc 1,2) devono diventare “servi della Parola” (ibid.) e dunque “inviati”, “apostoli” (cf. Lc 24,49) per “annunciare a tutte le genti la conversione e la remissione dei peccati” (cf. Lc 24,47). In quest’ultimo capitolo Luca, narrando eventi racchiusi in un solo giorno, il giorno della resurrezione del Signore, ci rivela che si tratta di un giorno senza fine, un giorno unico, il “giorno uno” (Gen 1,5) della nuova creazione, il “giorno uno che solo il Signore conosce” (Zc 14,7). Ma è anche il giorno “nostro”, il nostro tempo, l’oggi nel quale camminiamo sulle strade del mondo, mentre il Risorto cammina con noi, fino a quando lo riconosceremo definitivamente alla tavola del Regno eterno.
Quanto alla struttura di questo capitolo, esso è evidentemente composto da tre racconti:
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- le donne al sepolcro (vv. 1-12);
- i discepoli di Emmaus (vv. 13-35);
- gli Undici a Gerusalemme (vv. 36-53).
Innanzitutto le donne recatesi al sepolcro il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, trovano la pietra rotolata via dall’ingresso della tomba e, entrate, non trovano il corpo cadavere di Gesù. Mentre sono nell’aporia (cf. Lc 24,4), due uomini si presentano a loro in vesti sfolgoranti e dicono alle donne impaurite e con il volto chinato a terra: “Perché cercate il Vivente tra i morti? Non è qui, è risorto. Ricordatevi di come vi parlò quando era ancora in Galilea e diceva: ‘È necessario che il Figlio dell’uomo sia consegnato nelle mani di uomini peccatori, sia crocifisso e risorga il terzo giorno’” (Lc 24,5-7). Essi chiedono il ricordo delle parole di Gesù, e le donne effettivamente si ricordano e dunque credono. Subito, ritornate dal sepolcro, annunciano la buona notizia agli Undici e agli altri. Ma “quelle parole parvero a loro come un vaneggiamento”, un’allucinazione, una sciocchezza, “e non credevano a esse. Pietro tuttavia, alzatosi, corse al sepolcro e, chinatosi, vide solo le bende. E tornò indietro, pieno di stupore per l’accaduto” (Lc 24,11-12). Al centro di questa prima parte vi è l’annuncio della resurrezione, fondato sulle parole di Gesù: ricordando le sue parole si giunge alla fede pasquale.
Segue il nostro racconto, a cui dedicheremo uno spazio adeguato. Mi limito per ora a evidenziare il tratto fondamentale, che lo rende parallelo agli altri due brani, in una sapiente costruzione narrativa e teologica. I due discepoli in cammino non riconoscono Gesù risorto, ma vedono solo un viandante il quale annuncia loro che, secondo le parole di Mosè e dei Profeti, il Cristo doveva patire e morire per entrare nella sua gloria: egli chiede la fede nelle parole dei Profeti, nelle Scritture (cf. Lc 24,25).
L’ultima parte ci testimonia che Gesù in persona appare in mezzo agli Undici radunati nella camera alta, a Gerusalemme (cf. Lc 22,12; At 1,13). Il Risorto è là, in mezzo a loro, li saluta donando loro la pace, ma essi, “sconvolti e impauriti, credevano di vedere uno spirito” (Lc 24,37). Gesù allora si fa riconoscere nei segni della passione impressi per sempre nella sua carne, chiede ai discepoli di guardarlo e di toccarlo, ma gli Undici restano increduli, tra gioia e stordimento. Gesù dunque annuncia anche a loro – come già aveva fatto nei suoi giorni terreni – la necessità del compimento nella sua vita di quanto era scritto nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi. “Allora aprì loro la mente, perché comprendessero le Scritture” (Lc 24,45), e con questa operazione terapeutica (cf. Lc 24,31-32) dona loro l’intelligenza delle Scritture, li rende credenti, abilitandoli a essere “testimoni” (mártyres: Lc 24,48). Affinché tutto ciò si realizzi pienamente, Gesù dichiara che presto invierà loro “la promessa del Padre” (Lc 24,49), lo Spirito santo (cf. At 2,1-12), poi li conduce a Betania e, benedicendoli, ascende al cielo. Ora finalmente i discepoli, ritornati a Gerusalemme pieni di gioia, possono innalzare a Dio una lode senza fine.
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Ecco il riassunto dell’ultimo capitolo del vangelo secondo Luca, nel quale è rivelato a ogni lettore, a ciascuno di noi, il cammino della fede del discepolo. Occorre ascoltare e comprendere le Scritture dell’Antico Testamento, occorre ricordare le parole di Gesù raccolte nel Nuovo Testamento, e allora sarà possibile credere alla sua resurrezione.
Ma veniamo al brano liturgico, centro del nostro capitolo e sintesi dossologica dell’intero vangelo. Quando Gesù fu catturato, i discepoli fuggirono tutti per la paura, lo scoramento, e qualcuno tra di loro fu anche tentato di abbandonare la comunità. Ecco, infatti, che due di loro partono da Gerusalemme, lasciano gli altri e vanno verso il villaggio di Emmaus, dove quasi sicuramente vi era la loro casa. Sono delusi, pieni di tristezza – sentimento che traspare anche sui loro volti –, ma conversano, dialogano, scambiano parole, riandando agli eventi di cui erano stati testimoni: cattura, condanna e crocifissione di Gesù. Tutto sembra loro un fallimento e grande è la frustrazione delle loro speranze riposte in Gesù: l’avevano seguito credendo in lui, ascoltandolo, ma la sua morte è stata veramente la fine per lui, per la sua comunità, per l’attesa di ogni discepolo. Era un profeta, aveva una parola performativa, compiva azioni significative, ma i capi dei sacerdoti lo hanno consegnato ai romani ed egli è stato crocifisso. Sono passati ormai tre giorni, dunque Gesù è morto per sempre, e la loro vita sembra non avere più senso, direzione, fondamento. È la condizione in cui spesso veniamo a trovarci anche noi, e per questo l’anonimato di uno dei due discepoli ci aiuta a collocarci all’interno del racconto…
Ma su quel cammino ecco apparire un altro viandante che si accosta ai due e pone loro delle domande. Non si avvicina con un messaggio da proclamare, ma con il desiderio di ascoltare quel dialogo, di comprendere cosa i due hanno nel cuore, di accompagnarli. Innanzitutto chiede loro: “Che cosa sono questi discorsi che fate camminando, pensosi?”. In risposta, Gesù – di cui per il momento solo il lettore conosce l’identità – ascolta un racconto pieno di affetto per il loro rabbi: ascolta quello che è successo, ascolta ciò che dicono su di lui, ascolta le loro speranze deluse, e solo alla fine li interroga con molta delicatezza sulla loro fede, sul loro affidamento alle Scritture. Perché non sono capaci di credere ai profeti? Perché non sono capaci di leggere le Scritture?
Allora Gesù, come tante volte aveva fatto con i suoi discepoli, rilegge la Torah di Mosè e i profeti, e attraverso le Scritture fa comprendere ai due la necessitas della sua morte. Attenzione, non il destino ma la necessitas illumina la morte di Gesù: in un mondo ingiusto, il giusto viene rifiutato, osteggiato e tolto di mezzo, perché “è insopportabile al solo vederlo” (Sap 2,14); e se il giusto, il Servo del Signore, resta fedele a Dio e alla sua volontà, rifiutando le tentazioni del potere, della ricchezza e del successo, allora è condotto alla morte rigettato da tutti. Quegli eventi che a una lettura umana significano solo fallimento e vuoto, possono anche essere compresi diversamente, se Dio lo concede, con i suoi doni. Ma proprio perché quei discepoli non credono alle Scritture, non possono neppure riconoscere Gesù nel viandante che cammina con loro.
Giunti a casa, il misterioso viandante sembra voler proseguire da solo, ma i due, che stando accanto a Gesù hanno imparato da lui almeno l’attenzione per gli altri, si mostrano ospitali. Per questo insistono: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno ormai è al tramonto”. E così il viandante rimane con loro, entra nella loro casa. Quando sono a tavola, dopo le parole, egli compie dei gesti sul pane, soprattutto lo spezza per darlo loro. A questo gesto, il più eloquente compiuto da Gesù nell’ultima cena (cf. Lc 22,19), segno di un’intera vita offerta e donata per amore, “si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”: ma subito il viandante, il forestiero, il pellegrino scompare dalla loro vista. Presenza elusiva ma sufficiente per i due discepoli, i quali riconoscono che alla sua parola il cuore ardeva nel loro petto e che con la sua vita eterna egli poteva farsi presente e spezzare il pane.
In questo mirabile racconto si parla di camminare insieme, di ricordare e pensare, di rispondere a chi chiede conto e quindi di celebrare la presenza vivente di Gesù, il Risorto per sempre. Ma ciò può avvenire in pienezza solo nella comunità cristiana, nella chiesa: per questo i due “fanno ritorno a Gerusalemme, dove trovano riuniti gli Undici e gli altri”, che li precedono e annunciano loro la resurrezione. È ciò che avviene anche a noi ogni domenica, giorno pasquale; è ciò che avviene anche oggi, nella comunità radunata dal Signore: la Parola contenuta nelle Scritture, l’Eucaristia e la comunità sono i segni privilegiati della presenza del Risorto, il quale non si stanca di donarsi a noi, “stolti e lenti di cuore”, ma da lui amati, perdonati, riuniti nella sua comunione.
Per gentile concessione dal blog di Enzo Bianchi