Enzo Bianchi – Commento al Vangelo del 20 Novembre 2022

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Lo sguardo di Gesù per un delinquente

Gesù Cristo è Re perché regna sulla croce; è un Re al contrario dei re di questo mondo, crocifisso tra malfattori; è un Re condannato dai poteri religioso e politico; è un Re che salva gli altri e non se stesso. È un Re paradossale! Gesù non ci salva ora come vorremmo noi, ma ci salva se noi, che non siamo mai né giusti né buoni, sappiamo accogliere il perdono che Dio ci offre, che Gesù ci offre, dicendogli semplicemente: “Gesù, ricordati di me quando verrai nel tuo Regno”.

La festa per eccellenza di Cristo Re dell’universo è l’ascensione, la glorificazione di Gesù da parte del Padre che lo intronizza accanto a sé quale Kýrios, Signore vivente per sempre. Nel 1925 si è aggiunta la festa odierna per ricordare tale regalità ai re di questo mondo. La riforma liturgica del concilio Vaticano II, in verità, l’ha mutata in profondità: Gesù Cristo è Re perché regna sulla croce; è un Re al contrario dei re di questo mondo, crocifisso tra malfattori; è un Re condannato dai poteri religioso e politico; è un Re che salva gli altri e non se stesso. Insomma, è un Re paradossale!

Il brano evangelico di Luca previsto per questa festa nell’annata liturgica C è il racconto della crocifissione di Gesù. Dopo la condanna chiesta dai sacerdoti e inflitta da Pilato (cf. Lc 23,13-26), il corteo che scorta Gesù e i due delinquenti condannati insieme a lui giunge a una piccola collina fuori della città di Gerusalemme, al di là della porta di Efraim, altura che i giudei chiamavano Golgota, o Cranio, o monte Calvo, dove secondo una leggenda era stato sepolto Adamo. Proprio qui i tre vengono crocifissi, con il terribile supplizio riservato agli scarti della società, ai peggiori delinquenti. Tra due criminali, “annoverato tra quelli che hanno commesso il male” (Is 53,12; Lc 22,37), viene crocifisso il nuovo Adamo (cf. Lc 23,32-33), o meglio il vero Adamo, l’uomo totalmente a immagine e somiglianza di Dio (cf. Col 1,15).

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È una scena crudele, carica di violenza e di orrore, eppure il popolo (laós), quel popolo che aveva seguito Gesù, che l’aveva acclamato (cf. Lc 19,38), che pochi giorni prima pendeva dalle sue labbra mentre insegnava nel tempio (cf. Lc 19,48), ebbene quel popolo “sta a vedere”. Non sta più dalla parte di Gesù, non lo segue più, non lo difende: appare deluso dall’esito della sua vicenda, incapace di comprendere ciò che si sta consumando. Luca ricorda che, dopo la morte di Gesù, “tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo (theoría), ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto” (Lc 23,48), iniziando cioè un cammino di conversione, ma per ora no: Gesù muore abbandonato veramente da tutti, solo, perché i discepoli sono fuggiti e l’uditorio che prima lo applaudiva è muto e non sta più dalla sua parte. Avevano atteso un Messia vittorioso, potente, un vero Re, più forte dei re di questo mondo, e invece hanno visto uno che non è neppure capace di salvarsi…

Guardando il popolo e gli aguzzini dall’alto della croce, Gesù può solo affermare: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34), ma neanche questa parola lo rende comprensibile al popolo. E proprio in quella solitudine, in quell’abbandono, ecco riapparire la tentazione, come all’inizio della sua missione, quando aveva sostato nel deserto (cf. Lc 4,1-12). Luca allora aveva avvertito i lettori del vangelo: “Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al tempo opportuno” (Lc 4,13). Ed eccolo, puntuale, riapparire nell’ora estrema. Come allora la tentazione verteva per Gesù sulla sua capacità di provare di essere Figlio di Dio mediante segni eclatanti, non nella possibilità di un umano ma nella potenza divina, lo stesso avviene ora.

Il primo strumento demoniaco sono i capi religiosi, quei sacerdoti presenti alla croce perché avevano chiesto ai romani la condanna a morte di Gesù. Da veri esperti delle Scritture, essi proclamano con precisione teologica: “Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Messia di Dio, l’Eletto!”. Se Gesù è l’Unto del Signore, il Figlio di David, il Re di Gerusalemme, l’Eletto inviato da Dio (cf. Is 42,1), salvi innanzitutto se stesso, mostri la sua potenza liberandosi dal supplizio che lo porta alla morte! Ma Gesù resta sulla croce: ascolta e tace, si lascia accusare di impotenza, non si difende, non cede a comportamenti frutto dell’inimicizia. Fino alla fine vive nella logica di amore di Dio, un Dio che ha un amore misericordioso anche verso i suoi nemici; anzi, simultaneamente all’odio che riceve da loro, continua ad amarli (cf. Rm 5,6-10).

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La seconda tentazione viene espressa dal potere politico e militare dei soldati pagani che lo uccidono. Lo deridono dando da bere dell’aceto a lui che ha la gola riarsa, bruciante, e nella loro ottica politica lo scherniscono così: “Se tu sei il Re dei giudei, salva te stesso!”. Un re che non è in grado di salvare se stesso, come potrà salvare gli altri? E allora che re è mai? Come può un re tanto impotente opporsi a Cesare e insidiare il suo potere? No, egli merita solo disprezzo! Eppure Gesù è Re, come proclama l’iscrizione posta sulla croce, più in alto del suo capo; iscrizione che nell’intenzione dei suoi autori vorrebbe essere dileggiante, causa di commiserazione, e invece dice una verità ben diversa, per chi sa vederla… Gesù è veramente l’Unto del Signore, il Messia promesso da Dio a Israele, ma questa regalità è sorprendente, perché non è modellata su quella dei re di questo mondo, dove i governanti opprimono, comandano e si fanno applaudire come autori del bene comune (cf. Lc 22,25). La regalità di Gesù, invece, è altra e sta nello spazio dell’amore: chi ama regna, chi ama fino alla fine (cf. Gv 13,1) è vero re! Gesù accoglie in silenzio anche questa seconda tentazione, come se continuasse a ripetere: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”…

La terza tentazione gli viene da chi è solidale con lui nel supplizio, nella tortura e nella morte, uno dei “compagni” di Gesù, uno dei due banditi condannati insieme a lui. Gesù aveva iniziato il suo mistero mettendosi in una fila di peccatori per andare da Giovanni il Battista a chiedere il battesimo (cf. Lc 3,21), per tutta la vita è stato tra i peccatori (cf. Lc 15,1-2; 19,7) e ora muore tra peccatori. Anche qui Gesù resta quello che è sempre stato: “un amico dei peccatori” (Lc 7,34). Uno dei due crocifissi con lui, dunque, gli dice: “Non sei tu il Messia? Salva te stesso e noi!”. È un grido di disperazione: “Salva anche noi perché, se sei il Messia inviato da Dio, puoi farlo!”. Ma Gesù tace, comprendendolo nella sua protesta e nella sua sfida. È l’altro condannato che interviene osservando: “Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male”.

Diciamo la verità: abbiamo fatto del primo “il cattivo ladrone” e del secondo “il buon ladrone”, ma in realtà erano entrambi malfattori, omicidi secondo gli altri vangeli. Dunque sono tutti e due cattivi, e se c’è una differenza va cercata solo nel fatto che il secondo arriva a fare questa invocazione confidente: “Gesù, ricordati di me quando verrai nel tuo Regno”, ovvero chiede a Gesù di essere salvato non qui, perché questo a Gesù non è possibile, ma quando verrà nel suo Regno; anzi, neanche di essere salvato, ma di essere ricordato, che sarebbe già molto… Gesù può forse rifiutarsi di salvare il primo ladrone che gli chiede: “Salva anche noi”? Egli in verità può mostrare il suo potere solo salvando, ma non facendoli scendere dalla croce, bensì non abbandonandoli nell’ora della venuta del suo Regno.

Salvare un altro non è preservarlo dalla morte ma rendere la sua morte un passaggio, un esodo per la vita eterna, per il Regno! Gesù non ci salva ora come vorremmo noi, ma ci salva se noi, che non siamo mai né giusti né buoni, sappiamo accogliere il perdono che Dio ci offre, che Gesù ci offre. Entrambi i malfattori hanno capito che essere buoni e giusti è secondo la volontà di Dio ma che, se questo non è avvenuto nella propria vita, ciò che conta alla fine è accogliere il suo perdono, dicendo semplicemente: “Gesù, ricordati di me quando verrai nel tuo Regno”.

In questo brano evangelico risuona veramente come buona notizia, sia per il malfattore sia per ciascuno di noi, la semplice affermazione di Gesù in risposta a un’invocazione di ricordo: “Già oggi, già nella tua morte, e non alla fine dei tempi, nell’ora della manifestazione gloriosa del Signore, già oggi tu entri in paradiso, il luogo dell’albero della vita (cf. Gen 2,8-9), il luogo dove non vi saranno più né morte, né sofferenza, né peccato (cf. Ap 21,4)”. La morte diventa un passaggio alla vita, alla pienezza della felicità, perché – come scriveva sant’Ambrogio – “dove c’è Cristo, là c’è il Regno”, la vita!

Non è possibile concludere questo commento senza evocare le parole con cui sant’Agostino commenta il nostro brano. Egli è stupito e si chiede come questo malfattore, che non conosceva né la Legge né i Profeti, che non aveva pregato molto, abbia potuto riconoscere in un crocifisso il Messia. Interroga dunque il ladrone, che risponde: “Gesù mi ha guardato, e in questo suo sguardo ho capito tutto!”.

Per gentile concessione dal blog di Enzo Bianchi