Enzo Bianchi – Commento al Vangelo del 2 Aprile 2023

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“per che cosa mi hai abbandonato?”

La liturgia di questa domenica della Passione del Signore, detta anche delle Palme, prevede la lettura del racconto della passione secondo Matteo. L’evangelista non ci consegna innanzitutto una “cronaca”, ma ci fornisce l’interpretazione, scaturita dalla fede della chiesa, di quei fatti che hanno costituito la fine della vita di Gesù il Cristo. Il vangelo è scritto da chi confessa la resurrezione di Gesù e dunque legge gli eventi antecedenti nella luce di quell’evento che spiega, dà senso, illumina la passione e la morte. Per questo Matteo insiste sul “compimento delle Scritture”, ritmando il racconto con questo adagio: “come sta scritto…”, “ciò è avvenuto perché si compissero le Scritture…”. Leggendo la passione secondo Matteo assistiamo, come folla convocata, al processo di Gesù, nel quale si affrontano la volontà di Dio e quella degli uomini, in un dramma che è pasquale non solo per la sua collocazione temporale, ma anche per la sua dinamica.

Possiamo distinguere il racconto in tre grandi parti:

  • il preludio (Mt 26,1-46);
  • il processo religioso (Mt 26,47-75);
  • il processo politico, la morte e la sepoltura (Mt 27,1-66).

Nel preludio, dopo il complotto (cf. Mt 26,1-5), leggiamo come apertura l’unzione di Gesù da parte di una donna anonima a Betania (casa del povero), vera introduzione alla passione (cf. Mt 26,6-13). Versando sul capo di Gesù olio profumato, la donna profetizza quell’unzione regale e sacerdotale che Gesù riceverà sulla croce. Ella “discerne” Gesù come “il Povero”, colui che va alla morte nella solitudine, nell’abbandono e senza difesa; Gesù approva il suo gesto, che non è spreco, ma vero dono fatto al Povero. Non comprendere questo, significa – come farà Giuda (cf. Mt 26,14-16) – vendere Gesù a prezzo di denaro, perché si stima il valore del denaro più importante dell’attenzione da dedicare a Gesù stesso. Per questo, come Gesù afferma con solennità: “Amen, io vi dico: dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che ella ha fatto” (Mt 26,13), il suo gesto d’amore.

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Segue il racconto della cena (cf. Mt 26,17-35), che secondo l’evangelista è una cena pasquale, e proprio in essa la denuncia del peccato del traditore: uno dei Dodici consegna Gesù, gli altri fuggiranno tutti e Pietro, la roccia, tremando come un fuscello dirà di non conoscere Gesù. Questa è la comunità di Gesù, alla quale egli dona il suo corpo e il suo sangue, la sua stessa vita. Sì, i convitati di quella cena sono dei peccatori, degli infedeli, un’assemblea che noi giudichiamo indegna di ricevere in dono la vita stessa del Signore. Ma quel dono è per la remissione dei peccati, il calice è sangue dell’alleanza versato per la remissione dei peccati, a cominciare da quelli dei Dodici.

Dopo la cena, Gesù discende con la sua comunità al Getsemani, al di là del torrente Cedron, nella valle sotto il tempio, dove in un’intensa preghiera assume fino in fondo quegli eventi che ormai stavano precipitando (cf. Mt 26,36-46). Egli sarebbe potuto fuggire, rinnegando ciò che aveva fatto e detto; avrebbe potuto assumere lo stile di chi combatte anche con la violenza, facendo resistenza: sceglie invece di vivere fino alla fine facendo il bene, accogliendo su di sé il male piuttosto che farlo. Questa è la volontà di Dio per tutti, per ogni essere umano! Dunque Gesù è pronto, fa degli eventi che sopraggiungono un atto nella sua libertà e a causa del suo amore. C’è stata una lotta, possiamo dire che Gesù ha subito nuovamente la tentazione (cf. Mt 4,1-11), ma ancora una volta, come sempre, ha rimesso il suo destino nelle mani del Padre.

Segue la cattura nella tenebra, su indicazione di Giuda, attraverso un bacio, e la ferma confessione da parte di Gesù che quanto sta accadendo è conforme a ciò che le Scritture avevano annunciato: ora più che mai egli compie la vocazione ricevuta (cf. Mt 26,47-56). Poi Gesù viene condotto dal sommo sacerdote Caifa per il processo religioso (cf. Mt 26,57-68): là si erano riuniti alcuni scribi e alcuni anziani del popolo, convocati frettolosamente nella notte da Caifa. Con questo processo si vuole condannare Gesù, individuando nelle sue azioni e nelle sue parole contraddizioni alla Legge, bestemmie contro Dio, tradimento della comunità di Israele. Testimoni prezzolati intervengono per riferire parole di Gesù contro il tempio, la dimora di Dio.

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Anche se Matteo non ci fornisce un resoconto preciso, un verbale, capiamo che la causa di quel processo sta tutta nell’identità di Gesù in rapporto a Dio. Così il sommo sacerdote gli chiede di confessare se è lui il Cristo, il Messia, il Figlio di Dio. E Gesù risponde rinviando Caifa alle sue parole e alla sua coscienza (“Tu l’hai detto”: Mt 26,64), ma svelando anche che, proprio in quella morte ormai prossima, ci sarebbe stato lo svelamento del Figlio dell’uomo seduto come Giudice alla destra di Dio nella gloria. Parole che indignano e spaventano Caifa, portandolo anche a strappare le sue vesti, segno che il sommo sacerdozio che giudica Gesù è ormai finito, svuotato.

In parallelo al processo religioso di Gesù da parte del sommo sacerdote, vi è l’interrogatorio di Pietro da parte di alcune serve, di persone anonime e senza potere. Pietro rinnega, non riconosce Gesù come Messia sofferente e non riesce neppure a riconoscerlo colui del quale era stato discepolo (cf. Mt 26,69-75). E Giuda? Avendo preferito il denaro a Gesù, non riesce a dare senso alla propria vita e decide quindi di suicidarsi (cf. Mt 27,3-10).

Il processo religioso poteva emettere condanne, ma non infliggere a Gesù una pena. Per questo egli è rinviato all’autorità politica romana, a Ponzio Pilato, in quegli anni governatore della Giudea (cf. Mt 27,1-3.11-26). Per Pilato Gesù è un caso interessante solo se rappresenta una minaccia al potere politico di Cesare. Per questo gli chiede: “Sei tu il Re dei giudei?” (Mt 27,11). Ovvero: “Sei tu un concorrente al potere imperiale? Riconosci il potere politico di Roma o lo vuoi per te?”. Ancora una volta, però, Gesù non risponde con un “sì” o con un “no”, ma rimanda Pilato alle sue parole: “Tu lo dici, tu fai questa affermazione, io non l’ho mai fatta!” (ibid.). Pilato comprende allora che Gesù non è un pericolo, ma fa appello alle accuse che le autorità religiose giudaiche muovevano contro di lui. Gesù però non risponde, tace (cf. Mt 26,14), con un silenzio che, se fosse ascoltato, griderebbe la verità con più forza di qualsiasi parola.

Pilato tenta poi uno scambio tra Gesù e un prigioniero famoso, un sedizioso, Barabba, ma la gente, sobillata dai capi religiosi, preferisce la morte di Gesù, e giunge a gridare: “Sia crocifisso!” (Mt 27,22). Qui il potere totalitario mostra il suo volto: vedendo che il tumulto cresce, avendo compreso che Gesù non conta nulla e non è difeso da nessuno, Pilato preferisce acconsentire alla volontà della massa, alla maggioranza in preda alla vertigine della rabbia, del rancore e della violenza (cf. Mt 27,20-26). Ma prima dell’esecuzione della condanna, la violenza trova la possibilità di sfogarsi contro un giusto inerme, fino al disprezzo e alla tortura. Gesù è incoronato Re dei giudei, secondo l’accusa presentata, e viene celebrato in una parodia: è rivestito di un mantello scarlatto, incoronato di spine e gli viene data una canna come scettro, icona che i cristiani mai dimenticheranno. “Fino a quel punto” hanno trattato Gesù, il Figlio dell’uomo, l’uomo vittima dell’ingiustizia e del sopruso… Il processo politico si chiude con la consegna di Gesù ai soldati da parte di Pilato, affinché eseguano la crocifissione fuori della città, nel luogo detto Golgota (cf. Mt 27,27-37).

Gesù è crocifisso tra due delinquenti (cf. Mt 27,38), annoverato anche nella morte tra i peccatori, i malfattori, e la parodia continua con un cartello che lo disprezza: “Costui è Gesù, il Re dei giudei” (Mt 27,37), un Messia fallito, condannato dall’autorità religiosa come bestemmiatore e da quella politica come malfattore, posto su una croce, il supplizio ignominioso riservato agli schiavi e ai maledetti da Dio e dagli uomini (cf. Dt 21,23; Gal 3,13). Sulla croce Gesù continua ad ascoltare oltraggi, nonché l’ultima eco delle tentazioni vissute all’inizio e poi sempre nella sua missione (cf. Mt 27,39-44). Scendere dalla croce manifestando la sua onnipotenza divina? Salvare se stesso come ha salvato tanti altri? Avere fede in Dio solo se lo libera da quella fine? No, Gesù resta fedele alla sua missione fino alla fine, per questo pone al Padre un’ultima domanda: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46; Sal 22,2). Non è una contestazione, ma una preghiera, una richiesta di luce nella tenebra, una confessione: “O Dio, ti resto fedele anche in ciò che vivo come abbandono, tuo silenzio, lontananza da te!”. Nessuno tra i presenti può comprendere, ma solo un centurione pagano, sotto la croce, vedendo quella morte arriva a confessare: “Davvero costui era Figlio di Dio!” (Mt 27,54).

Così, mentre scende la sera e il corpo di Gesù viene deposto in un sepolcro da discepoli e discepole (cf. Mt 27,57-61), in un pagano è generata la fede in Gesù: in quella morte così atroce, il centurione vede che Gesù ha speranza, che resta fedele a Dio, che vive quella fine come dono, come amore per tutti gli uomini. Quella morte comincia ormai a manifestarsi come resurrezione, come vita, finché il terzo giorno si manifesterà in pienezza il grande mistero della Pasqua di Gesù (cf. Mt 28,1-10).

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Per gentile concessione dal blog di Enzo Bianchi