C’è chi è cieco ma dice di vedere
Nel cammino verso la Pasqua, dopo il tema dell’acqua viva che Gesù Cristo dona al credente in lui, la chiesa ci fa meditare sulla luce, o meglio, sull’illuminazione, azione compiuta da Gesù affinché noi vediamo e siamo strappati dalle tenebre.
Il lungo racconto della guarigione di un uomo cieco dalla nascita in realtà è la narrazione di un processo in diverse tappe intentato a Gesù. Un processo a colui che è “la luce del mondo” (Gv 8,12), la luce venuta nel mondo, quella che illumina ogni essere umano, eppure luce non riconosciuta e non accolta da coloro ai quali era stata inviata (cf. Gv 1,4-5.9-12). Questo racconto è paradossale, perché ci testimonia che chi è cieco, non vedente, incontrando colui che è la luce del mondo diventa “capace di vedere”, mentre quelli che vedono, incontrando Gesù restano abbagliati fino a rivelarsi ciechi, incapaci di vedere. Questo brano, inoltre, è altamente cristologico, presenta molti titoli attribuiti a Gesù, titoli che ritmano la progressione dalla cecità al vedere, dalle tenebre alla luce, dall’ignoranza alla fede testimoniata. Ma come sempre ascoltiamo il testo con umile obbedienza.
Uscito dal tempio di Gerusalemme, dove ha celebrato la festa di Sukkot, delle Capanne, festa autunnale nella quale si invocava l’acqua come dono di Dio per la vita piena, Gesù vede nei pressi della piscina di Siloe un uomo colpito dalla cecità fin dalla sua nascita. Non avviene, come in tanti altri racconti di miracolo, che il malato invochi Gesù e gli chieda la guarigione, ma è Gesù che, passando, vede, discerne un uomo bisognoso di salvezza. Anche i discepoli che sono con Gesù vedono questo cieco, ma con uno sguardo diverso. Conoscono la dottrina tradizionale che lega in modo automatico malattia e peccato, non sanno vedere innanzitutto la sofferenza di un uomo ma cercano di spiarne il peccato. Per questo domandano subito a Gesù: “Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”.
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Gesù, che non vede il peccato ma piuttosto la sofferenza e il grido di aiuto in essa presente, dichiara che quella malattia è l’occasione per il manifestarsi del Dio che interviene e salva. Il suo è uno sguardo diametralmente opposto a quello colpevolizzante dei discepoli, uno sguardo che dice interesse per la sofferenza umana e volontà di cura conforme al desiderio di Dio. Di fronte al male noi umani, soprattutto noi credenti, cerchiamo una spiegazione, vogliamo individuare la colpa e il colpevole. Gesù invece rifiuta questo sguardo, lo sguardo dei discepoli, non propone alcuna spiegazione a quella cecità, al male sofferto dal cieco, e con una reazione di umanissima compassione si avvicina al cieco e si mette a operare per sopprimere il male e far trionfare la vita.
Gesù si dice “inviato” per compiere le opere di Dio, e ciò è possibile “finché è giorno”, finché è nel mondo, tra gli uomini, quale luce che le tenebre non possono sopraffare (cf. Gv 1,5). Dette queste parole, fa un gesto di cura, terapeutico: impasta della polvere con la sua saliva e la spalma sugli occhi del cieco. In tal modo ripete il gesto con cui Dio ha creato Adam, il terrestre, plasmandolo dalla polvere del suolo (cf. Gen 2,7). Non è un gesto di magia, ma un gesto umanissimo: l’uomo non vedente si sente toccato da Gesù, sente le sue dita e il fango sui propri occhi, sente di poter mettere fiducia in chi lo ha “visto” e lo ha riconosciuto come una persona nel bisogno. E non appena Gesù gli dice di andarsi a lavare nella piscina adiacente – detta di Siloe, cioè dell’Inviato di Dio –, egli obbedisce, va, poi torna da Gesù capace di vedere. A differenza di Naaman con Eliseo (cf. 2Re 5,10-12), egli crede alle parole di Gesù come parole potenti, efficaci, e così trova quella vista che mai aveva avuto. Il quarto vangelo descrive in appena due versetti la guarigione, senza indugiare sui particolari. Questo infatti è un “segno” (semeîon), più che un miracolo (dýnamis): non è il fatto in sé che deve trattenere la nostra attenzione, ma ciò che va cercato è il suo significato e soprattutto chi è all’origine del segno.
Ma questo fatto, questa azione scatena un processo contro Gesù, un processo in contumacia, perché egli non è più presente accanto all’uomo guarito. Il processo è articolato in quattro scene, ma alla fine è Gesù ad annunciare il vero processo in corso, nel quale si rivela chi vede e chi è cieco. La prima scena (vv. 8-12) ha come protagonisti i vicini, quelli che incontravano abitualmente il non vedente, i quali si rivolgono a lui, ora guarito. Essi si interrogano tra loro su cosa sia accaduto al cieco, se è veramente la stessa persona. Ed egli rivendica con forza la propria identità: “Sono io, che prima ero cieco e ora ci vedo”. I suoi interlocutori gli domandano cosa sia accaduto ed egli racconta loro ciò che l’uomo chiamato Gesù ha fatto e detto. Essi allora, presi dalla curiosità, gli chiedono dove sia questo Gesù, per poterlo incontrare, ma egli non sa rispondere.
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Altri uomini, attenti alla Legge, portano il cieco dai farisei, gli osservanti esperti della Torah, affinché giudichino l’operato di Gesù (vv. 13-17). Infatti, precisa l’autore, “era un sabato il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e aveva aperto gli occhi al cieco”. Segue dunque la domanda: “Può un uomo che infrange il divieto di lavorare in giorno di sabato, dunque un peccatore, fare un’azione buona?”. La risposta sembra ovvia: “No, egli non viene da Dio!”. Questo i farisei vorrebbero sentirsi dire dall’uomo guarito, che invece risponde: “È un profeta”, passo ulteriore verso la scoperta dell’identità di Gesù. Egli sta progredendo nella fede…
Segue la terza scena (vv. 18-23): non accettando la dichiarazione dell’uomo guarito, questi uomini religiosi fanno chiamare i suoi genitori e li interrogano sulla cecità del loro figlio. Costoro, colti da paura, preferiscono non leggere, non interpretare ciò che è accaduto al loro figlio. Dicono che egli era cieco dalla nascita, che ora ci vede, ma non sanno come ciò sia potuto accadere. Per questo scaricano su di lui la responsabilità: “Chiedetelo a lui. Ha l’età, parlerà lui di sé”.
Ed ecco la quarta e ultima scena (vv. 24-34). Quei farisei chiamano nuovamente l’uomo guarito e lo invitano ad ascoltare la solidità della loro dottrina. Cercano di convincerlo, perché loro “sanno”, hanno l’autorità di discernere che Gesù è un peccatore, dunque non può fare nulla di buono. Ma l’uomo guarito conferma, con buon senso: “Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo”. Ma queste parole non bastano, per cui essi insistono nell’interrogarlo, chiedendogli di raccontare per l’ennesima volta l’accaduto. In risposta, egli ironizza: “Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?”. Segue la reazione sdegnata di quegli uomini religiosi, che disprezzano e insultano il malcapitato. La pretesa di questi farisei, esperti delle Scritture, è quella di “sapere”, di conoscere la tradizione alla quale vogliono restare fedeli: non possono dunque ammettere che una buona azione possa essere compiuta mediante una violazione del sabato. Questo sapere, questa conoscenza che pretendono di possedere, impedisce loro di riconoscere una “novità”, che pure si manifesta mediante l’emergere del bene. Solo il passato per loro è normativo, ed essi lo qualificano come tradizione autorevole: per questo non sanno né vogliono sapere l’origine di Gesù. L’uomo che era cieco, invece, ora vede, cioè sa: sa di essere stato guarito da Gesù, sa che Dio non ascolta il peccatore ma chi fa la sua volontà. Egli viene dunque cacciato fuori, fuori dalla comunità degli osservanti fedeli alla Legge, fuori come tutti quelli che riconoscevano Gesù quale Messia (cf. v. 22).
A questo punto ecco che si svela il vero processo in corso. Saputo che quell’uomo è stato espulso dalla sinagoga, Gesù lo va a cercare e, trovatolo, gli pone una domanda, da cui nasce il dialogo che costituisce il vertice di questa pagina:
- “Tu, credi nel Figlio dell’uomo?”.
- “E chi è, Signore, perché io creda in lui?”.
- “Lo hai visto: è colui che parla con te”.
- “Credo, Signore!”. E si prostrò davanti a lui.
Ecco l’approdo alla fede: l’uomo chiamato Gesù (v. 11), il profeta (v. 17), uno che viene da Dio (v. 33), il Figlio dell’uomo (v. 35), è il Kýrios (v. 38), il Signore. Gesù allora, conosciuta questa fede, dice ad alta voce: “Io sono venuto in questo mondo per un giudizio, del quale è in corso il processo. Sono venuto perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi”. La reazione di quei farisei mostra che hanno capito la posta in gioco. Gli chiedono infatti: “Siamo ciechi anche noi?”. E Gesù conclude, con autorevolezza: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: ‘Noi vediamo’, il vostro peccato rimane”. Vedere un segno compiuto da Gesù e non riconoscere il bene che esso rappresenta, non riconoscere che Dio è all’origine del suo agire, significa essere gettati fuori, essere nelle tenebre, non vedere.
Non resta che chiederci se anche noi siamo dei ciechi nella fede: crediamo forse di vedere e invece non riconosciamo chi è la luce, Gesù Cristo?
Per gentile concessione dal blog di Enzo Bianchi