Gesù piange sulla città amata
I vangeli ci consegnano quattro racconti della passione di Gesù, narrazioni che si accordano sullo svolgimento dei fatti ma ci appaiono anche differenti tra loro. Nel racconto di Luca, proclamato quest’anno nella liturgia, vi sono episodi assenti dagli altri vangeli e vengono registrati particolari eloquenti, che contribuiscono a presentarci un Christus patiens con caratteristiche che il terzo evangelista vuole mettere in evidenza per i lettori della sua opera.
Nella celebrazione della cena pasquale, Gesù consegna ai Dodici un insegnamento sul suo essere “servo” in mezzo ai discepoli e profetizza una grande tentazione da parte di Satana nei confronti della comunità da cui sta per essere strappato; nello stesso tempo, assicura a Simone una preghiera per lui e per la sua fede vacillante, affidandogli la missione di confermare i suoi fratelli. Nell’agonia del Getsemani Gesù è assalito da una forte angoscia, fino a sudare sangue per quella tensione-paura davanti alla morte. A lui viene però in aiuto un angelo, un messaggero di Dio che appare come un segno dell’interpretazione salvifica di quella passione. Durante il processo presso il procuratore romano Pilato per ben tre volte Gesù è dichiarato innocente e subito dopo incontra il tetrarca Erode, di fronte al quale fa assoluto silenzio. Le donne discepole incontrano Gesù sul cammino verso il Golgota e ricevono da lui una parola. Infine, sulla croce con le sue ultime brevi parole Gesù perdona il malfattore accanto a sé e rimette il suo respiro, il suo spirito, nelle mani del Padre.
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Possiamo notare che quasi un terzo dei versetti del racconto della passione sono redatti da Luca, mentre gli altri sono tratti dalla sua fonte, Marco. Non potendo commentare tutto il racconto lucano, scegliamo dunque di mettere in evidenza solo gli episodi propri a questo evangelista, in modo da comprendere attraverso questa via la ricca diversità dei racconti evangelici, capace di nutrire e approfondire la nostra fede.
Per Luca la passione è innanzitutto l’ora della tentazione che assale Gesù, assale i discepoli e quindi anche la chiesa. Quando il bambino Gesù fu presentato al tempio per essere offerto al Signore, l’anziano Simeone, che attendeva la liberazione messianica, riconoscendolo per rivelazione dello Spirito santo, proclamò: “Egli è posto come segno di contraddizione … affinché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc 2,34-35). Ora, durante la passione, Gesù appare come segno di fronte al quale avviene la caduta nelle tentazioni oppure la resurrezione, la salvezza.
Per Luca l’ora della passione è anche “il tempo fissato” (Lc 4,13), in cui il diavolo sarebbe tornato da lui per tentarlo. Non lo aveva vinto nel deserto (cf. Lc 4,1-12), ma adesso ritorna mettendo in bocca ai persecutori di Gesù le sue stesse parole: “Se tu sei il Cristo, salva te stesso…”. Soprattutto al monte degli Ulivi Gesù, proprio per non cadere in tentazione, prega, addirittura prostrandosi in ginocchio, e chiede: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà”. Ecco l’agonia, il combattimento che avviene all’interno di una preghiera più intensa. La paura della morte vissuta da Gesù attesta senza equivoci la sua appartenenza in tutto alla condizione umana. Gesù non ha una volontà diversa o contraria a quella del Padre e fino alla fine cerca soltanto di realizzare tale volontà; ma come uomo uguale a noi in tutto eccetto che nel peccato (cf. Eb 4,15) prova angoscia di fronte alla morte, nonostante l’avesse annunciata come esito necessario della sua vita conforme all’amore di Dio (cf. Lc 9,22.43-45; 18,31-34).
Se Gesù vince ogni tentazione, non riescono a fare lo stesso i suoi discepoli e, tra di loro, in particolare Pietro. Uno dei Dodici, Giuda, tradisce Gesù fino a consegnarlo nelle mani dei suoi avversari, i capi dei sacerdoti del tempio che ne avevano decretato la morte. Gli altri discepoli, proprio mentre Gesù annuncia il tradimento da parte di un membro della sua comunità, si mettono a discutere su chi tra loro fosse il più grande. E Pietro, quando gli viene annunciata la prova da parte di Satana, il loro essere passati al vaglio come il grano, in modo presuntuoso promette una fedeltà a Gesù che poche ore dopo smentirà, dichiarando di non averlo mai conosciuto. Questa la caduta nell’ora della tentazione: i Dodici non hanno saputo pregare per entrare nella tentazione e risultarne vincitori, a differenza di Gesù che, proprio in quel combattimento, proprio in quell’ascolto della parola del Padre e in quell’invocazione ripetuta, è riuscito a leggere (l’angelo interprete di Lc 22,43!) il senso di quella sua morte e dunque a farne un atto preciso, una donazione nelle mani del Padre: “Padre, nelle tue mani consegno il mio respiro!”, significativa citazione delle parole di un salmo (31,6) da lui tante volte pregato.
In Luca, oltre al tema della tentazione e della preghiera per combatterla e vincerla, possiamo scorgere un accento particolare posto sul perdono che Gesù sa dare anche in quest’ora, l’ora dei suoi nemici, l’ora che egli stesso definisce come quella delle tenebre. Quando avviene la sua cattura e uno dei discepoli sfodera la spada per difenderlo, ferendo all’orecchio un servo del sommo sacerdote, non solo Gesù si oppone a tale comportamento ma subito tocca l’orecchio sanguinante e lo guarisce, con un gesto che è molto più di una dichiarazione di perdono.
Colpisce anche un’annotazione solo lucana sullo sguardo indirizzato da Gesù a Pietro dopo il suo triplice rinnegamento. L’apostolo che aveva voluto rassicurare Gesù sulla sua sequela fedele, in realtà per ben tre volte nega di averlo conosciuto e lo fa davanti a una serva e ad altri due anonimi presenti nel cortile del sommo sacerdote. Allora il gallo canta e nello stesso istante Gesù si volta, cerca Pietro con il suo sguardo di misericordia e causa in lui un pianto di pentimento, un pianto amaro che nasce dalla consapevolezza di non essere stato capace di rimanere saldo come una Roccia, saldo come la sua vocazione gli avrebbe richiesto.
Ma è soprattutto sulla croce che Gesù rivela la sua misericordia e rende epifanico il suo perdono. Mentre è ormai innalzato tra due malfattori, uno a destra e uno a sinistra, guardando i suoi carnefici, i suoi nemici e la folla che assiste a quell’esecuzione, Gesù prega dicendo: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Mentre gli umani lo stanno uccidendo, Gesù invoca su di loro il perdono di Dio, si fa strumento di riconciliazione. Non scusa i malfattori ma denuncia la loro ignoranza, il loro non sapere ciò che fanno né ciò che dicono contro di lui e contro il Padre, che lo ha inviato e lo ha dichiarato Figlio eletto e amato. Uno dei delinquenti crocifissi insieme a Gesù lo insulta, lo provoca, lo tenta allo stesso modo dei capi del popolo e dei soldati: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!”. Ma l’altro malfattore, che sa riconoscere il proprio peccato contrapposto alla giustizia di Gesù, grida: “Gesù, ricordati di me quando verrai nel tuo regno”. Gesù allora gli risponde: “In verità ti dico: oggi con me sarai nel paradiso”. Non alla fine dei tempi, non nell’ora della parousía, ma oggi, nell’ora della morte costui potrà seguire il Signore e Messia nel suo regno. In tal modo, Gesù non ha preservato né se stesso né il malfattore dalla morte, ma ha fatto di questa morte un passaggio alla vera vita, quella in Dio.
Se questi sono i tratti specifici di Luca nel consegnarci l’icona del Christus patiens, è soltanto questo evangelista che osa parlare della crocifissione come theoría, contemplazione. Questa la contemplazione cristiana: il crocifisso! Guardando a lui, si può passare dalla contemplazione al pentimento e alla conversione, che è sempre un ritorno sulle sue tracce. Le folle che si erano radunate per quello spettacolo-visione, avendo visto come Gesù aveva vissuto la sua morte violenta e avendo constatato il suo amore mitissimo capace di invocare su tutti il perdono, se ne ritornano battendosi il petto. Da parte sua, un centurione pagano – e noi siamo invitati a farlo con lui! – riconosce la gloria di Dio in questo evento che dava la morte a “un uomo giusto”, senza peccato quale Figlio di Dio (cf. Sap 1,16-2,20).
Per gentile concessione dal blog di Enzo Bianchi