Video-Commento al vangelo della 28a domenica tempo ordinario anno B, a cura di don Vinicio Carminati, Parroco di Cepino e Selino Basso e Rettore del Santuario della Cornabusa.
Trascrizione generata automaticamente da YouTube e rivista tramite IA.
Domenica scorsa abbiamo iniziato a leggere il capitolo 10 del Vangelo di Marco. Il capitolo 10 di Marco è presentato dalla liturgia in tre parti, che ci aiutano a riflettere su come il cristiano è chiamato a vivere la dimensione sponsale, il matrimonio, la ricchezza e l’autorità, il potere. Ecco, penso che il Vangelo di oggi sia davvero provocante proprio per la situazione sociale che viviamo.
Nell’antica cultura ebraica, nella società in cui cresce Gesù, la ricchezza era considerata un segno della benedizione di Dio. Pensiamo alle figure di Abramo, di Giuseppe, di Davide, di Giobbe. Insomma, chi è ricco è benedetto da Dio, e ancora oggi, in fondo, sopravvive questa mentalità. Dopo la venuta di Gesù la prospettiva cambia. Basta leggere la lettera di San Paolo a Timoteo: Paolo dice: “Non abbiamo portato nulla in questo mondo e nulla possiamo portarne via. Quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci, accontentiamoci di questo. Al contrario, coloro che vogliono arricchire cadono nella tentazione, nel laccio e in molte bramosie insensate e funeste, che fanno affogare gli uomini in rovina e perdizione. L’attaccamento al denaro, infatti, è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio, alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da sé stessi tormentati con molti dolori.”
Ecco, vedete? Il Vangelo non dice che il denaro è cattivo in sé o che non serve, tutt’altro. Il denaro è necessario, serve per vivere, per vivere bene, e, se usato bene, serve per diffondere il bene, oltre che il benessere nostro e altrui. Il Vangelo non dice che essere ricchi è una colpa, ma la radice di tutti i mali è l’attaccamento al denaro. “Non potete servire a Dio e al denaro contemporaneamente”, dice Gesù. Ciò che è male non è il denaro, ma l’avidità, cioè l’atteggiamento possessivo ed egoistico che coinvolge sia le cose che le persone.
Ecco, bisogna fare in modo che la ricchezza non diventi un motivo di paragone, di competizione, di ostacolo all’incontro, ma diventi una possibilità di incontro, una possibilità di impiegare bene la vita. La miseria non è un valore, perché toglie dignità e porta sofferenza. La miseria è una piaga da sconfiggere, e il primo modo è la condivisione, che non significa spendere per far girare il mercato, ma trovare delle forme per garantire il necessario per tutti. E questa responsabilità ce l’ha innanzitutto chi possiede molti beni.
Perché allora Gesù dice: “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno di Dio”? Gesù ce l’ha forse con i ricchi? Oppure Gesù ce l’ha forse con la ricchezza? Evidentemente no. La parola di Dio mette in guardia dal potere seduttivo che ha la ricchezza, che ha il denaro. Il denaro promette una cosa che in realtà non mantiene: la felicità. Noi pensiamo che la felicità sia possedere molte cose; in realtà è una grande illusione. L’abbondanza fa dimenticare l’essenziale. L’abbondanza ti fa dimenticare che niente ti è dovuto, anche se è sudato. L’abbondanza ti dà una falsa sicurezza, ti fa pensare che la tua vita possa correre via liscia e senza problemi, ti fa pensare che tu possa avere sempre la soluzione per tutto, ti fa pensare di non avere bisogno di niente e di nessuno.
L’abbondanza ti fa sentire autosufficiente, ti fa pensare di essere padrone di te stesso, ti fa dimenticare, in fondo, che sei solo terra e polvere, e non sei Dio. Alla fine scopriamo che, invece di essere possessori di ricchezze, siamo posseduti dalle ricchezze, che ci incatenano il cuore. È facile capirlo: siamo disposti a spendere magari molti soldi, senza troppi problemi, per ciò che ci piace, ma facciamo fatica a donare gli spiccioli se sono per gli altri. Sarebbe interessante vedere se nel nostro bilancio di vita, nel nostro bilancio economico familiare, c’è anche la voce “dono per i poveri”, “dono per qualcuno”.
Questo è il guaio da cui Gesù ci mette in guardia: l’avidità. L’avidità rovina qualsiasi cosa. L’avidità rovina le famiglie, rovina le comunità, rovina i rapporti, rovina gli ambienti di lavoro, rovina lo sport, rovina la Chiesa, che se troppo ricca si adagia su sé stessa e non confida più in Dio, nella sua provvidenza, ma solo nella forza illusoria delle sue strutture. La grande ricchezza, se non è sapientemente gestita, porta al delirio di onnipotenza, porta a squilibri, porta alla disumanità, alla solitudine e alla tristezza del cuore. Questo ricco alla fine trova nei beni materiali che cosa? Non la gioia, ma una zavorra paralizzante. Quest’uomo si tiene i suoi beni, la sua religiosità fatta di pura osservanza della legge, ma in realtà perde la gioia, il gusto della vita. Perde la gioia che crede di scoprire nei beni materiali, ma non la trova. Perde, in fondo, la relazione con Dio, che è datore di ogni bene, che è la vera ricchezza, che dà senso anche a quella materiale e che dà pienezza di vita.
Capiamo allora il senso della chiamata di Gesù a questa persona: “Va’, vendi i tuoi averi, dagli ai poveri, poi vieni e seguimi.” Cioè: liberati da ciò che ti appesantisce il cammino, svuotati il cuore dalle cose ed io lo riempirò di vita vera. Gesù non ci chiede di diventare poveri, ma di diventare ricchi di lui, ricchi di amore. Il distacco materiale non è una premessa per incontrare Gesù, ma è una conseguenza. Cioè, più conosci Dio, più ti importa di lui e meno ti importa di quello che hai, poco o tanto che sia, perché ciò che ci fa profondamente felici è l’amore donato, l’amore nelle nostre famiglie, le buone relazioni che si costruiscono, le amicizie vere. Di questo dobbiamo essere ricchi.
Ecco, a noi la scelta: il tale del Vangelo, ricco sì, rimane ricco, ma se ne va triste. Dipende cosa vogliamo nella vita. Io voglio essere felice. Allora, per questo preghiamo: “Donaci, o Dio, la sapienza del cuore”.