L’indisponibilità a lasciarsi “lavorare” dentro dallo Spirito di Dio
Sabato della XXV settimana del Tempo Ordinario (Anno dispari)
Scendendo dal monte, dove Gesù era stato trasfigurato e gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni avevano visto la sua gloria, essi sono accolti dalla folla, tra la quale si fa spazio un uomo che implora il Maestro di prendersi cura del suo unico figlio vittima di uno spirito impuro. Il tale si era rivolto ai discepoli di Gesù ma essi non erano riusciti a guarire il ragazzo. Gesù redarguisce i suoi interlocutori nello stesso modo in cui minaccia lo spirito impuro quasi a dire che anche chi lo segue può essere affetto dallo spirito della perversione e dell’incredulità. Questo spirito impuro, facendo rimanere le persone nell’ambito della superficialità e dell’apparenza, impedisce che essi veramente incontrino Gesù e siano guariti.
Gesù guarisce il giovinetto e lo restituisce al padre e la reazione della folla è entusiasta nel riconoscere l’opera di Dio. Tutti erano ammirati di quello che Gesù faceva e dei miracoli che compiva. Ma l’ammirazione e il riconoscimento dell’intervento divino nella storia non sono ancora indice di fede. La fede è sì fuoco, ma non come quello di paglia proprio delle emozioni. La fede è il fuoco che Dio accende nel cuore dell’uomo quando lo accoglie come un dono fragile e vitale al contempo.
La fede in un Dio onnipotente che risolve tutti i problemi assomiglia più ad un’utopia che alla verità solida. Infatti in questo caso si tratta di fideismo nel quale trasferiamo in Dio le nostre frustrazioni e deleghiamo a Lui quello che non riusciamo a fare noi.
Si giunge a Gesù quando si sono provate tutte le strade per risolvere i problemi della vita credendo che la soluzione delle crisi e la sanazione delle situazioni o relazioni dipenda dagli altri. Quando sperimentiamo il fallimento delle nostre attese-proiezioni rimane l’ultima spiaggia. Il problema è approcciare Dio con la stessa mentalità con la quale chiediamo agli altri di risolvere problemi che invece riguardano la nostra interiorità.
La grandezza di Dio non consiste nel fare le cose al posto nostro, ma consegnandosi nelle nostre mani, ci rende responsabili del nostro destino. Esso dipende da come ci relazioniamo con Lui; se preferiamo servircene all’occorrenza e poi riporlo come un utensile, oppure permettergli di cambiarci dentro per poterci relazionare in maniera sana con noi stessi e con gli altri.
Il non voler interrogare Gesù per comprendere meglio cosa sta dicendo è indice dell’indisponibilità a lasciarsi “lavorare” dentro. È dunque necessario soffermarci con Gesù senza temere di toccare nel dialogo con Lui anche le corde più sensibili delle nostre debolezze di cui ci vergogniamo. Solo alla luce della preghiera, intesa come relazione dialogica col Padre con Gesù e per mezzo di Lui, veniamo alla luce.
Auguro a tutti una serena giornata e vi benedico di cuore.
Commento a cura di don Pasquale Giordano
La parrocchia Mater Ecclesiae è stata fondata il 2 luglio 1968 dall’Arcivescovo Mons. Giacomo Palombella, che morirà ad Acquaviva delle Fonti, suo paese natale, nel gennaio 1977, ormai dimissionario per superati limiti di età… [Continua sul sito]
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Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato. Avevano timore di interrogarlo su questo argomento.
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 9, 43b-45
In quel giorno, mentre tutti erano ammirati di tutte le cose che faceva, Gesù disse ai suoi discepoli: «Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini».
Essi però non capivano queste parole: restavano per loro così misteriose che non ne coglievano il senso, e avevano timore di interrogarlo su questo argomento.
Parola del Signore