Dal sentimento dell’amore alla scelta di amare
Generalmente una relazione è generata da una necessità ed è impostata per ottenere quello di cui si ha bisogno. Quando si raggiunge il fine prefissato la relazione si esaurisce. Questa è una relazione di scopo che nasce dal proprio io bisognoso e termina sempre nel proprio io soddisfatto o deluso. Infatti una relazione di scopo termina o perché si è raggiunto il proprio obbiettivo o perché non si è ottenuto il risultato sperato. Nell’uno e nell’altro caso la conclusione di una relazione di scopo non finisce mai bene, ma sempre con attacchi e accuse. C’è un altro tipo di relazione, che chiamiamo amore, la cui caratteristica è il desiderare il bene dell’altro senza mortificare quello proprio. Questo tipo di relazione comporta una graduale conversione dal vivere solo per se stessi al vivere con e per gli altri. Una relazione, anche quella che nasce da un bisogno personale, ha bisogno di essere guidata in questo processo di conversione affinché diventi amore.
Nella prima lettura si parla della relazione tra Dio e l’uomo, cioè della fede che, come dice s. Paolo, nasce dall’ascolto. Obbedire infatti non significa eseguire meccanicamente degli ordini, ma innanzitutto porsi nei confronti dell’altro in un atteggiamento di accoglienza e disponibilità. Ci sono diversi modi di ascoltare: si ascolta per sapere, per replicare, o per accogliere l’altro, permettendogli di entrare nel nostro mondo e noi nel suo. In un rapporto di amore avviene un cambiamento soprattutto nella capacità di passare dal sentire all’ascolto, dal sentimento dell’amore alla scelta di amare.
Obbedire significa sì ascoltare, ma anche mettere in pratica quello che si è ascoltato. L’ascolto infatti non può fermarsi alla “teoria” ma deve tradursi in gesti concreti. Alla luce di tutto questo si comprende la domanda rivolta a Gesù riguardante la “vita eterna”, cioè l’amore vissuto come relazione. Il dottore della legge non pone a Gesù un semplice quesito teologico, ma è un interrogativo che tocca il senso più profondo della vita. Infatti la domanda non è da intendere banalmente: “cosa devo fare per non morire mai?”, ma “cosa devo fare per vivere felice?” oppure “cosa devo fare perché la vita di Dio fluisca nella mia?”. Gesù rimanda alla legge conosciuta bene dal suo interlocutore il quale enuclea due comandamenti intimamente congiunti tra loro, per cui non si realizza l’uno senza l’altro: amare Dio con tutto se stesso e amare il prossimo come se stesso. Gesù replica che, dimostrato che sul piano concettuale aveva le idee molto chiare, il dottore della Legge deve compiere il passo di metterle in pratica nella vita quotidiana. La dimensione pratica dell’amore totale a Dio è l’amore al prossimo perché “egli è l’immagine visibile del Dio invisibile”. L’apostolo Giovanni afferma: “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede.” (1 Gv 4,20). Il dialogo continua con una seconda domanda del dottore della legge che riguarda il “prossimo” e come riconoscerlo. La risposta di Gesù inizia da una parabola per poi concludersi con una domanda e l’invio finale. “Fa questo e vivrai” … “Va, anche tu fa lo stesso”; Gesù conclude nello stesso modo le due parti del dialogo con il dottore della legge insistendo sul verbo fare. Alle domande rivoltegli dal dottore della legge Gesù rimanda alla legge stessa e all’esperienza storica nella forma di narrazione. La legge e la storia sono un binomio inscindibile attraverso cui Dio si rivela. Attraverso Gesù Dio si fa prossimo all’uomo per donargli la sua parola e la sua cura. Nella storia si riconosce che nei momenti di grande difficoltà, quando si è sulla soglia del baratro, la salvezza non ci viene dalle pratiche religiose ma dalla cura amorevole di chi ha compassione. Alla conclusione della narrazione Gesù ribalta la domanda del dottore della legge: “chi è il mio prossimo” in quest’altra: “chi è stato il prossimo del malcapitato”. Il prossimo, da destinatario dell’amore, diventa il fautore dell’amore compassionevole. C’è un ribaltamento di prospettiva che indica il senso della conversione richiesta, e determina un ordine nuovo di valori al cui vertice non c’è il proprio io ma Dio nel prossimo. Dunque è inutile interrogarsi su chi sia meritevole dell’amore, ma si può mettere in pratica la legge nella misura in cui si riconosce come Dio si è fatto prossimo mostrando la sua compassione e il suo amore gratuito. Il Samaritano è considerato dal giudeo un estraneo e così anche un samaritano vede nel giudeo un nemico. Similmente Dio dimostra il suo amore fedele per l’uomo proprio mentre è abbattuto dal peccato e sulla soglia della morte. Dio vede, ha compassione, si avvicina cura, se ne fa carico, lo conduce in un rifugio, l’affida alle cure della comunità.
La differenza tra il sacerdote e il levita da una parte e il samaritano dall’altra è la compassione e un ruolo fondamentale lo gioca il modo di vedere, il punto di vista, che determina le scelte concrete da compiere. Tutti i passanti scorgono il problema, ma i primi due si fanno prendere dalla paura o dalla fretta o semplicemente dall’indifferenza, il terzo invece ascolta il bisogno dell’altro e sceglie di intervenire. Il samaritano coglie subito l’urgenza del suo aiuto senza valutare prima le condizioni, i meriti o i pericoli. La compassione riconosce nell’altro il prossimo che ha bisogno di me per vivere.
Alla fine è ribaltato anche il senso della domanda iniziale del dottore della legge. La vita eterna non è un bene da possedere e da godere ma una luce da donare. La vita eterna è essere ad immagine di Cristo per essere presenza di Dio nel mondo.
Auguro a tutti una serena domenica e vi benedico di cuore!
Commento a cura di don Pasquale Giordano
La parrocchia Mater Ecclesiae è stata fondata il 2 luglio 1968 dall’Arcivescovo Mons. Giacomo Palombella, che morirà ad Acquaviva delle Fonti, suo paese natale, nel gennaio 1977, ormai dimissionario per superati limiti di età… [Continua sul sito]