La Trinità, icona e modello della famiglia, comunità d’amore – SANTISSIMA TRINITA’ (ANNO B) – Lectio divina
Dal libro del Deuteronòmio Dt 4,32-34.39-40
Il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra; e non ve n’è altro.
Mosè parlò al popolo dicendo:
«Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità all’altra dei cieli, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo?
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O ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un’altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore, vostro Dio, in Egitto, sotto i tuoi occhi?
Sappi dunque oggi e medita bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n’è altro.
Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre».
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Memoria grata
Il Libro del Deuteronomio è composto in gran parte dall’ultimo discorso che Mosè tiene davanti al popolo d’Israele giunto, dopo quarant’anni di pellegrinaggio nel deserto, sul monte Nebo dal quale intravede la terra promessa. Mosè non vi entrerà ma comunque compirà un passaggio, quello da questo mondo a Dio.
Il suo corpo non sarà mai più trovato, ad indicare il fatto che la morte ha coinciso con l’ingresso nella vita eterna. Prima del passaggio attraverso il Giordano, guidato da Giosuè, e l’inizio dell’insediamento nella terra promessa, Mosè invita il popolo a fare memoria e a interrogare i padri per prendere consapevolezza della grandezza del dono ricevuto da parte di Dio.
La trama della storia, sebbene intessuta di vicende spesso dolorose e complicate, rivela il volto di Dio la cui identità si è andata rivelandosi a poco alla volta. Il Dio d’Israele non è uno degli dei, ma l’unico e vero Dio. A differenza degli idoli, Dio non è un manufatto degli uomini, né un’idea che raccoglie e sintetizza le aspirazioni mondane.
Non si identifica con nessuno degli elementi della natura ma Egli parla attraverso la creazione, gli eventi della storia e i suoi ministri da Lui scelti per prendersi cura del popolo che si è scelto. La singolarità e l’unicità del Dio d’Israele consiste nel fatto che è Lui a prendere l’iniziativa, giacché tutto nasce dal suo cuore che non può non amare e che sceglie i più piccoli perché il suo amore è gratuito. La storia rivela che Dio è unico, in senso qualitativo più che quantitativo.
Infatti, né prima c’è stato né dopo ci sarà un Dio che ama nel modo con cui lo ha dimostrato al suo popolo. È unico nel suo genere perché è il solo liberatore, salvatore e Signore. Questo significa che la fede dell’Israelita non può che essere riposta unicamente nel Dio che gli ha dimostrato il suo amore elettivo, gratuito e fedele.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani Rm 8,14-17
Avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!».
Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!».
Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.
La preghiera dei figli liberi
«Non si possono servire due padroni contemporaneamente» (cf. Lc 16,13), ricorda Gesù. Gli fa eco Paolo, il quale afferma che Cristo Gesù col suo sacrificio sulla croce ci ha riscattato dal peccato e ci ha resi liberi. Questa condizione non ci rende debitori verso le nostre forze ma riconoscenti nei confronti di Dio che, donando agli uomini Suo Figlio ci ha resi in Lui Figli. Attraverso di Gesù abbiamo ricevuto lo Spirito Santo che ci fa rivolgere a Dio chiamandolo Padre. Non dobbiamo avere paura di Dio ma, al contrario, fidarci di Lui, amarlo e desiderare sempre di più corrispondere al suo amore. Il desiderio iscritto nella nostra carne è quello dell’io possessivo che brama di avere e controllare. Invece, il desiderio di Dio consiste nell’amare e dare la vita. L’amore possessivo distrugge le relazioni e porta alla morte, mentre quello oblativo, che sgorga dal cuore di Dio ed è riversato nel nostro, genera continuamente alla vita. La preghiera dei figli è diversa dalla supplica degli schiavi. I primi lodano il Signore e si rendono disponibili all’obbedienza gioiosa e generosa, e invocano il dono della pace. I secondi invece chiedono di essere lasciati stare in pace e obbediscono perché si sentono costretti e minacciati. La preghiera dei figli non è una richiesta rivendicativa ma innanzitutto un’invocazione al Padre fatta con fiducia e gratitudine, e dunque, un appello di salvezza a Lui rivolto con umiltà e speranza. La preghiera è già un’esperienza di comunione trinitaria perché grazie allo Spirito Santo siamo inseriti nella relazione d’amore che unisce il Padre al Figlio.
+ Dal Vangelo secondo Matteo Mt 28,16-20
Battezzate tutti i popoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.
Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono.
Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
Lectio
Il giorno di Pasqua le donne, andate al sepolcro, incontrano un angelo del Signore che annuncia la risurrezione di Gesù. Ad esse è anche affidato il compito di avvisare i discepoli e riferire loro l’appuntamento con Gesù in Galilea. Mentre sono in cammino Gesù stesso va loro incontro ed esse gli si avvicinano, s’inginocchiano abbracciandogli i piedi e lo adorano. Si tratta non solo di una visione ma di un incontro reale in cui avviene un contatto corporeo. Gesù ribadisce il messaggio affidato alle donne dall’angelo. In Galilea non sarà solo una visione ma un incontro reale che inaugurerà la missione dei discepoli di Gesù nel mondo. A conclusione dell’ultima cena Gesù, citando un passo del profeta Zaccaria annuncia la sua passione e morte. L’effetto delle percosse che colpiscono il pastore sarà la dispersione del gregge. Ma Gesù rassicura che, una volta risorto, precederà i discepoli in Galilea. Gli Undici, accogliendo la testimonianza delle donne e l’invito di Gesù, di cui esse erano state latrici, si recano sul monte da lui indicato. Il monte della Galilea non è specificato con un nome proprio ad indicare che esso ha un valore simbolico che si desume dalle indicazioni offerte dall’evangelista lungo la narrazione. Il monte è il luogo dove Gesù aveva subito l’ultima prova (4,8), dove si era manifestato trasfigurato e la voce del Padre lo aveva indicato come il Figlio prediletto (17,1.5). Come aveva fatto nel primo discorso (5,1-7,27) Gesù parla di sè, unito al Padre dallo Spirito.
Nella terza tentazione il Demonio aveva promesso a Gesù i regni se lui si fosse prostrato ad adorarlo. Il monte fa da sfondo al primo insegnamento di Gesù. A conclusione del vangelo Gesù viene adorato dai suoi discepoli verso i quali si avvicina; dice che il Padre gli ha dato ogni potere e li invia ad ammaestrare tutte le genti insegnando loro ad osservare le sue parole.
Sia dopo la trasfigurazione (17,7) che nell’ultimo incontro (28,18) Gesù si avvicina ai discepoli. Il verbo avvicinarsi richiama l’annuncio e la promessa del vangelo: «Dio con noi» (1,23). Dio si rende presente e si accosta all’uomo nella sua condizione di infermità fisica e spirituale. Gesù si lascia avvicinare da chi è afflitto dall’ignoranza, dalla malattia, dalla sofferenza, dal peccato, dagli avversari ricordando che lui è l’Emmanuel, Dio con noi.
L’adorazione, segno di riconoscimento del Cristo, convive con il dubbio (28,17) come quello di Pietro mentre cammina sulle acque (14,31). La poca fede caratterizza tutti i discepoli, rappresentati da Pietro. Per Gesù questo non è un motivo per allontanarsi o per punire, ma per confermare la sua fiducia verso di loro. La poca fede dei discepoli e la fiducia di Dio sono il nuovo punto di partenza per la Chiesa nascente.
Il dubbio è una crepa nelle nostre certezze e presunte perfezioni. Questi spazi d’incertezza sono quelli in cui c’è posto per Dio e senza i quali Lui rimarrebbe fuori dalla nostra vita. L’ossessione per la perfezione è una forma di ateismo pratico.
La Galilea, periferia d’Israele da dove tutto era iniziato e da cui era partita la missione di Gesù, culminata a Gerusalemme con la passione, la morte e la risurrezione, ora diventa il luogo da cui inizia la missione del Risorto insieme ai suoi discepoli rivolta a tutti i popoli. L’evangelista Matteo introduce l’attività missionaria di Gesù con una citazione di compimento tratta dal profeta Isaia che parla della «Galilea delle genti» e della «grande luce» sorta per illuminare «il popolo che abitava nelle tenebre» e «quelli che abitavano in regione e ombra di morte» (4, 12-16). Gesù è erede di Abramo perché egli è la discendenza promessa da Dio al patriarca, ma è anche la benedizione che, dal popolo ebraico, deve raggiungere tutti gli altri popoli. Il ritorno in Galilea non è un passo indietro ma è l’inizio di una nuova missione in continuità con quella inaugurata da Gesù. In un primo momento Gesù aveva vietato di andare ai pagani e di concentrarsi alle pecore perdute della casa d’Israele. Dopo la Pasqua questo limite decade e si aprono orizzonti universali. Cosa è cambiato tra il prima e il dopo la Pasqua? L’evento della croce, realizzatosi a Gerusalemme, fa della salvezza promessa un’esperienza concreta e attuale che abilita i discepoli ad andare in tutto il mondo per annunciarla. La morte di Gesù è una ferita aperta nell’animo dei discepoli che si ritrovano anche incompleti e mancanti di un loro fratello. Non solo Gesù viene colpito ma anche i discepoli sono traumatizzati. È lì che si rivela la natura della Chiesa che dal punto di vista umano appare sempre imperfetta e incompleta. Le «pecore disperse della casa d’Israele» sono rappresentati dai discepoli che, radunati dal Pastore, sono inviati a tutti i popoli per fare di essi un unico gregge e un’unica Chiesa. Discepoli di Gesù si diventa attraverso il rito del battesimo e l’ammaestramento che li abilita a mettere in pratica gli insegnamenti di Gesù che sono illustrati nei cinque grandi discorsi. Il Battesimo è un rito che introduce nel mistero di Dio Trinità. Non si tratta di un concetto da capire ma dell’esperienza di un graduale inserimento e una progressiva appartenenza a Dio il cui nome – non nomi – è Padre, Figlio e Spirito Santo. Il rito del battesimo non è specifico del cristianesimo perché troviamo testimonianze nella tradizione ebraica di cui il Battista è un rappresentante. Il suo significato pre-cristiano è da rintracciare nella scelta di allontanarsi dalla vita precedente per abbracciare una nuova e iniziare un cammino di rinnovamento e conversione. Il Battesimo cristiano richiama la tradizione precedente ma la novità sta nel nome di chi si viene battezzati, ovvero del soggetto primo che opera il battesimo. Esso è partecipazione all’evento della Pasqua di Cristo che, crocifisso a causa di una ingiusta condanna, è passato dalla morte alla vita grazie alla mano del Padre che lo ha risuscitato, dandogli la vita che non muore più. È Dio Padre, Figlio e Spirito Santo ad andare incontro agli uomini, ad accoglierli e unirli a sé, partecipando loro il potere dell’amore che dà la vita. Come la risurrezione anche il battesimo è l’atto generativo di Dio che fa dell’uomo una nuova creatura perché lo fa uscire dal sepolcro del proprio peccato per camminare nella via nuova dell’amore fraterno. L’insegnamento dei discepoli aiuta i destinatari del vangelo a vivere a pieno l’esperienza del dono gratuito di Dio, assimilarlo facendone il proprio progetto di vita e traducendolo in azione missionaria. Mediante Gesù, Dio Trinità è presente nella storia degli uomini segnata da conflitti laceranti; tale presenza diventa visibile nella missione della Chiesa, anch’essa ferita e non autosufficiente, attraverso la quale ogni uomo è abitato dalla Trinità e al tempo stesso la abita. Come Dio si china sugli uomini per curare i loro traumi, così i discepoli sono nel mondo non per alimentare guerre di quartiere, ma per alleviare le ferite del peccato e trasformarle in esperienza di comunione fraterna. In questa Chiesa ferita, ma curata dalla grazia di Dio, tutti gli uomini possono riconoscersi mendicanti di amore e trovare la risposta all’inquietudine del cuore. La Chiesa allora diventa icona della Trinità, ovvero la sua presenza viva e attiva perché nei suoi limiti è possibile intravedere l’eccedenza dell’amore di Dio che da essi deborda. Questa Chiesa, abitata dalla Trinità è educata a guardare oltre i propri confini e al di là dei propri limiti. Come accade per Abramo e Sara visitati dalla Trinità e guidati ad uscire dalla loro tenda, che rappresenta il piccolo mondo autoreferenziale nel quale si erano rinchiusi, per diventare fecondi e generativi, così succede a chiunque si lascia raggiungere da Gesù e crede nell’amore che unisce il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
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La Trinità, icona e modello della famiglia, comunità d’amore
La Trinità non è una verità di fede astratta, ma è l’esperienza di Dio che non rimane chiuso nel suo Paradiso ma ci chiama per incontrarlo «sul monte della Galilea», lì dove il Creatore si è fatto creatura, il Tutto è diventato una parte, Cielo e terra s’incontrano, divinità e umanità s’intrecciano e i confini si aprono perché ci sia comunione. L’incontro finale con Gesù Risorto sintetizza tutto il cammino fatto nel vangelo di Matteo che sin dall’inizio ha presentato Gesù come «l’Emmanuele, il Dio-con-noi». Dio si è battezzato, ovvero si è immerso nella nostra umanità, inserendosi nella catena delle generazioni per fare del popolo d’Israele, di cui i Dodici apostoli sono segno, il seme della Chiesa, comunità dei salvati, la famiglia di Dio.
La Chiesa, come dice l’origine ebraica e l’etimologia greca del termine, è convocata dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo. La prima lettura spiega molto bene che la particolarità del Dio d’Israele, e nostro, consiste nel cercare, chiamare e scegliere il più piccolo tra i popoli perché in esso si riveli il suo vero nome: amore misericordioso. Dio non è «ventre» che prende per soddisfare le sue voglie, ma è «grembo» che genera e dà vita. Dio ci chiama, ci convoca, per venire alla luce, per avere la vita, per diventare comunità d’amore, figli della famiglia divina. Il Cristo risorto ci incontra in ogni sacramento, soprattutto nell’Eucaristia, per donarci il suo Spirito, attraverso il quale possiamo pregare Dio da figli e chiamarlo «Papà».
Lo Spirito Santo ci fa figli del Padre, come Gesù, e ci rende partecipi della sua stessa missione. Lui, battezzato nella nostra umanità per diventare uno come noi, uno con noi, uno per noi, ci affida la missione di allargare i confini della Chiesa non per aumentare il numero degli adepti, ma per fare discepoli, portare figli nel grembo di Dio. Battezzare nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo altro non significa che farsi voce della Parola che chiama, purifica, rigenera. La Trinità è la comunità divina che anima, vivifica e trasforma non solo le singole persone ma soprattutto la famiglia in cui esse vivono perché le relazioni dei loro membri portino l’impronta della Trinità, il sigillo dell’amore vero.
Introdotti nella Trinità, la famiglia divina, siamo chiamati ad appartenerle assimilando il suo stile di vita e il suo modo di amare. L’amore, che unisce le persone della Trinità in un unico vincolo divino, ha caratteristiche ben precise ben espresse nell’inno alla Carità di s. Paolo (1Cor 13) in cui è delineata la legge che vige nella Comunità divina. La Chiesa, con i gesti sacramentali e il suo insegnamento, in opere e parole, è il «grembo materno» in cui si cresce e s’impara a vivere, si apprende l’arte dell’amore. Lo Spirito Santo, nella comunità ecclesiale, ci educa ad amare e trasforma il nostro amore in Carità.
Come la Carità non avrà mai fine, così sarà anche di quei legami d’amore nelle cui vene scorre lo Spirito Santo. Come la Trinità è il Tempio della Carità, così la Chiesa, famiglia di famiglie, è chiamata ad essere la Casa dell’Amore nella quale c’è posto per tutti e tutti si sentono amati. Solo così l’amore eterno è un desiderio realizzato e vissuto.
Commento a cura di don Pasquale Giordano
Vicario episcopale per l’evangelizzazione e la catechesi e direttore del Centro di Spiritualità biblica a Matera
Fonte – il blog di don Pasquale “Tu hai Parole di vita eterna“