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don Pasquale Giordano – Commento al Vangelo del giorno – 21 Aprile 2024

Domenica 21 Aprile 2024
Commento al brano del Vangelo di: Gv 10, 11-18

Diffidare dalle false imitazioni – IV DOMENICA DI PASQUA (ANNO B)

Dagli Atti degli Apostoli At 4,8-12

In nessun altro c’è salvezza.

In quei giorni, Pietro, colmato di Spirito Santo, disse loro:

«Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo, e cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato, sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato.

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Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo.

In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati».

Gesù Cristo unico fondamento della nostra salvezza

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Mentre Pietro e Giovanni erano nel tempio spiegando alla folla che si era radunata come la guarigione del paralitico fosse stata operata da Gesù, il Crocifisso Risorto, per mezzo loro, suoi testimoni, i sommi sacerdoti fanno irruzione e fanno arrestare i due apostoli. Essi, infatti, stavano annunciando la risurrezione dai morti, cosa che la casta dei sadducei, composta dalla classe dei sacerdoti del tempio, non credeva.

Nello stesso scenario i sadducei si erano scontrati con Gesù su questo punto. Il tema della risurrezione dei morti doveva essere un argomento particolarmente importante se, come si evince dal racconto, le autorità religiose sono fortemente irritate fino al punto di far arrestare gli apostoli. È evidente l’importanza che riveste la risurrezione dai morti perché mette al centro la questione della giustificazione o della salvezza.

I sadducei erano della classe aristocratica d’Israele quindi essi erano benestanti e consideravano il benessere una sorta di segno di benedizione di Dio per le loro opere sacre. I sadducei godendo già del benessere non attendono nessun cambiamento, anzi l’osteggiano per non perdere le posizioni di privilegio. Annunciare la risurrezione dei morti significa proclamare l’intervento di Dio che sovverte i calcoli degli uomini di potere. Essi sono i costruttori di cui parla il salmo 118, 22 che hanno scartato quella pietra che invece è stata scelta da Dio come fondamento.

Come Gesù, anche gli apostoli sono vittima dello scarto, ma essi non temono nulla perché la risurrezione dai morti assicura loro che Dio interverrà come è intervenuto per Gesù. L’esperienza della crisi, dell’ingiustizia, dell’essere vittima dello scarto, diventa occasione di risurrezione, di salvezza. Essa consiste nell’essere guariti interiormente per essere persone libere, capaci cioè di essere veramente costruttori di comunità secondo il progetto di Dio, il grande architetto.

Gli apostoli affermano che il paralitico è stato guarito non per loro merito, ma per pura grazia di Dio. Essa è stata efficace perchè è stata accolta con umiltà dall’infermo in un contesto di relazione con la Chiesa. Nessuno si salva da sé, con i propri meriti! Nessuno può scegliere il posto in cui servire; ciascuno, soprattutto in contesti di opposizione e tra tante resistenze, permette a Dio di rafforzarlo e confermarlo, collocandolo come sostegno e conforto per i fratelli nella fede.

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo 1Gv 3,1-2

Vedremo Dio così come egli è.

Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.

Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.

L’autoritratto di Dio

Il contrario della giustizia è l’iniquità che non consiste solo nella sperequazione sociale tra le persone ma soprattutto nella disuguaglianza da Dio. Il peccato, infatti, è deturpare l’immagine che Dio forma di sé in noi, sicché diventiamo il Suo autoritratto. Il modello è Gesù Cristo e la mano che opera è quella dello Spirito. Se si lascia operare Dio in noi allora siamo capaci di amare e, amando, l’immagine di Dio appare sempre più chiara nei tratti della nostra vita. Le opere di Dio, ovvero il modo con cui Egli ama, non sono riconosciute da chi ferma la Sua mano e rifiuta di lasciarsi educare dal Vangelo: antepone la logica mondana a quella di Dio.

In tal modo disprezza la verità e la croce che è la forma più alta con la quale Dio ama l’uomo e lo salva. Con la prima venuta del Cristo, il quale nella sua Pasqua ha donato lo Spirito Santo, è iniziato per ogni uomo un processo di rinascita e di trasformazione del corpo mortale che culmina con la nostra Pasqua nella quale la nostra adozione a figli di Dio diventa totale e definitiva. Allora la nostra vita non sarà opacizzata dall’ombra della morte ma sarà resa totalmente trasparente e capace di mostrare senza filtri lo splendore della gloria di Dio.

Nella misura in cui riconosciamo l’amore di Dio che ci precede e previene, possiamo essere docili alla forza della grazia e lasciarci conformare nella mente e nel cuore alla sua volontà. La visione di Dio segna il culmine della nostra vita tutta protesa all’incontro con Lui per condividerne l’amore nell’intimità familiare del cielo. Questa speranza sostiene il cammino costellato di prove nelle quali spesso siamo tentati di fermarci o di ritornare indietro perché vinti dal senso di abbandono d parte di Dio.

+ Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 10,11-18

Il buon pastore dà la propria vita per le pecore.

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.

Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

LECTIO

Il cap.10 del vangelo di Giovanni riporta un discorso di Gesù di seguito al segno compiuto su un cieco, tale sin dalla nascita. Aveva fatto del fango e spalmato sugli occhi, poi gli aveva detto di andare alla piscina di Sìloe e lavarsi. Una volta fatto quanto detto, il cieco aveva acquistato la vista. In seguito a questo fatto si era accesa una discussione su Gesù perché l’uomo guarito testimoniava che grazie a lui vedeva con i propri occhi. Per cui alcuni, stupiti dell’accaduto, affermavano che Gesù fosse un profeta, altri invece non credevano perché aveva operato una guarigione in giorno di sabato nel quale bisogna astenersi dal lavoro, come comanda la Legge. Altri poi non credevano alla testimonianza del cieco guarito. Chiamati in causa i suoi genitori si erano limitati a dire che effettivamente il loro figlio era nato cieco ma non si erano sbilanciati sull’attribuire a Gesù quel miracolo perché avrebbe significato riconoscerlo come Messia. Essi avevano preferito rimanere nella comunità piuttosto che essere espulsi come avevano minacciato i capi nel caso qualcuno avesse avallato l’idea che Gesù era il Cristo. L’uomo guarito, al contrario dei suoi genitori, ha il coraggio di contraddire gli accusatori di Gesù e di testimoniare a partire dall’esperienza fatta e da un semplice ragionamento che Gesù non può essere un peccatore perché quello che gli è accaduto è il segno dell’intervento di Dio e non di un semplice uomo. Espulso dalla sinagoga il cieco guarito incontra Gesù davanti al quale si prostra e fa la sua professione di fede: «Credo, Signore». Gesù, dice qualcosa di sé stesso e della sua missione. Afferma che la sua venuta nel mondo sortisce una separazione tra coloro che passano dalle tenebre alla luce e coloro che, pur presumendo di vedere, in realtà sono ciechi e rimangono nella condizione di tenebra, perché non riconoscono l’occasione per convertirsi ed essere salvati.

Subito dopo inizia il discorso del «Buon pastore» che è diviso in tre parti. Nella prima Gesù racconta una parabola in cui parla del pastore, il quale entra nel recinto delle pecore attraverso la porta che il guardiano gli apre, contrariamente al ladro e al brigante che invece salgono da un’altra parte. C’è un rapporto di fiducia che lega il pastore e le pecore perché si conoscono reciprocamente. Le pecore sanno riconoscere la differenza tra il pastore e un estraneo con il quale non c’è alcuna relazione. Nella seconda parte del discorso Gesù spiega la similitudine. Ripete due volte: «Io sono la porta». È necessario passare attraverso di lui per essere salvati. Le autorità che non riconoscono Gesù come il Cristo rimangono nella loro cecità che li porta ad essere come ladri e briganti, nemici del gregge. Per diventare pastore secondo il cuore di Dio bisogna essere pecorella che riconosce la voce del pastore e lo segue lì dove la conduce. Il pastore guida verso la vita in abbondanza come il pastore conduce le pecore ai pascoli.

Nella terza parte del discorso Gesù per due volte dice di sé: «Io sono il buon pastore» (vv. 11.14). Come riconoscere il buon pastore dal mercenario, che non è neanche pastore? Dall’atteggiamento davanti al pericolo. Al mercenario interessa il suo guadagno e la sua vita, mentre al buon pastore sta a cuore la vita del gregge per il quale affronta tutti i pericoli per proteggerlo anche mettendo in pericolo la propria vita.

C’è una similitudine tra la relazione che unisce Gesù al Padre e quella lega le pecore del suo gregge a lui. Si tratta di un legame di appartenenza che non si traduce in possessività ma in oblatività: il buon pastore dà la vita per le pecore. Le pecore, anche se sono divisi in più recinti, potranno diventare un solo gregge quando si uniranno per seguire l’unico pastore. Il pastore non guida il gregge verso un recinto, ma verso i pascoli, ovvero verso il Padre.

Questo è il comando che ha ricevuto Gesù dal Padre. Questo è il progetto del Padre per il mondo: che gli uomini possano entrare nella stessa familiarità che caratterizza il rapporto tra Lui e il Figlio. È un rapporto d’amore grazie al quale Gesù offre la sua vita nella morte per riprenderla di nuovo con la risurrezione. Il rapporto di amore e di obbedienza al Padre fa di Gesù il pastore buono e coraggioso che davanti al pericolo della morte non fugge, abbandonando il gregge al suo destino, ma va incontro alla morte liberamente facendo di essa un atto di amore per il gregge e per il Padre. Gesù sa che per proteggere e salvare il gregge deve affrontare la morte. Lo fa con la fede nel Padre sapendo che la libertà di donare la sua vita gli conferisce anche il potere di riprenderla per sempre.

La parabola offre i criteri per discernere quale sia la voce che ci guida. Gesù è la voce di Dio che ci raduna per condurci alla salvezza. Bisogna passare attraverso la porta che è Cristo. Ladri e briganti ci offrono scorciatoie che solo in apparenza sono favorevoli. In realtà sono vie che ci fanno cadere nella schiavitù del male.

Dio viene a visitarci e a chiamarci. Dobbiamo imparare a conoscere la sua voce e a cogliere in essa l’amore che lo lega a noi. È importante saper leggere i segni che Dio ci offre attraverso i quali si fa riconoscere e ci chiama a seguirlo.

Gesù è il pastore che spinge fuori le pecore e poi si mette a capo del gregge per guidarli. Piegandosi ai nostri piedi egli si pone ultimo tra gli ultimi per liberarci da ogni forma di chiusura e risorgendo dai morti è posto a capo della Chiesa, il suo gregge, il suo popolo in cammino.

Le pecore che seguono Gesù, l’agnello di Dio, diventano pastori anche loro verso gli altri. Anch’esse si fanno compagne delle altre.

MEDITATIO

Diffidare dalle false imitazioni

Gesù sembra invitare a diffidare dalle false imitazioni. Ci sono quelli che appaiono «pastori» ma sono nient’altro che «mercenari». Il mercenario è vestito come il pastore e sembra svolgere la medesima funzione, ma non lo è, perché, limitandosi a ricoprire solo un ruolo senza coinvolgersi con il gregge, non si sente parte di esso. A lui non importa il destino delle pecore ma il proprio interesse. La funzione del mercenario, il falso pastore, è a tempo determinato non perché la missione che si assume ha una data di scadenza, ma perché egli stesso la interrompe quando non ha più interesse a portarla avanti. Alla prova dei fatti il falso pastore invece di essere alleato del gregge lo è del lupo che viene per rapire e disperdere. Per non compromettersi con il lupo volta le spalle a chi è nel pericolo e fugge dalle sue responsabilità che invece lo avrebbero dovuto portare ad affrontare.

Questa metafora non deve indurre a giudicare gli altri, ma a discernere nella propria coscienza quali sono i sentimenti e le intenzioni che determinano i comportamenti. Le piccole azioni della vita quotidiana danno la forma allo stile di vita che scegliamo di assumere che comunque si ispira nei fatti ad un modello di comportamento: quello del «Buon Pastore» o del «mercenario». Il primo è fondato sull’essere a servizio degli altri e il secondo basato sulla funzione e sul ruolo che si incarna. La domanda che suscita la parabola del Buon Pastore è la seguente: «Quale modello di vita seguo?». Questo interrogativo è fondamentale soprattutto nei momenti di crisi nei quali è messa in discussione la relazione con gli altri. In definitiva, nella crisi delle relazioni ci si trova ad un bivio nel quale bisogna scegliere chi si vuole essere, quale modello di vita incarnare, prima ancora di capire cosa fare e come comportarsi. Il «mercenario» è la persona profondamente sola che instaura relazioni di convenienza e che svolge una funzione attraverso la quale vuole dimostrare a sé stesso e agli altri ciò di cui è capace. Ma quando si presentano situazioni nelle quali ci si deve esporre mostrando la parte più vera di sé il «mercenario» scappa. Questo accade in ciascuno di noi nel momento in cui ci siamo assunti l’onere del servizio pensando più a quello che avremmo potuto guadagnare piuttosto che al lavoro su noi stessi da fare per vivere quel compito con responsabilità e fino in fondo. I ruoli sono importanti, come lo sono anche le funzioni ad essi collegati, ma essi rimarrebbero contenitori senza contenuto, titoli senza significato, se non fossero espressione di relazioni umane attraverso le quali passa la cura di cui tutti abbiamo bisogno. Nella vita non è importante il nome del ruolo che si ricopre ma il modo con cui lo si interpreta. Il «Pastore» non è il nome di una funzione ma quello di chi offre, attraverso un servizio, sé stesso. Di «Buon Pastore» ce n’è solo uno, Gesù Cristo, al quale tutti gli altri «pastori», se vogliono essere veramente tali, devono ispirarsi.

Il «Buon Pastore» entra nel recinto dalla porta, cioè attraverso l’accesso aperto dalle relazioni con gli altri. La voce di Gesù è quella del Buon Pastore che conosce le sue pecore, le conosce per nome, perché il nome lo ha dato lui stesso. Gesù ci conosce più di noi stessi. Da lui riceviamo un nome che dice ciò che siamo ai suoi occhi. Come il Padre ama il Figlio così Gesù ama noi donando la sua vita. Il «Buon Pastore» non è un titolo che definisce una funzione da svolgere, ma è il nome che rivela la vocazione da vivere e realizzare progressivamente. Gesù ci propone di conoscerlo e di condividere con lui la sua vocazione: fare della propria vita un dono all’altro. Fare della propria vita un dono è il progetto di tutta una vita che si realizza passo dopo passo seguendo la voce del Buon Pastore e imitandone gli atteggiamenti.

Attraverso Gesù, Dio ci dà il nome, dà il suo nome, ovvero ci adotta come figli, si assume la responsabilità di Padre. Non si tratta di una formalità giuridica ma di una realtà concreta che determina il modo con il quale Dio si relaziona con noi. Conoscere è una scelta di vita caratterizzata dal prendersi cura dell’altro facendosi carico delle sue fragilità e condividendole.

A noi il compito di ricevere questo nome e interpretarne il suo significato nelle nostre scelte di vita. Abbiamo ricevuto un nome, ossia ci è stata data la vita senza che noi lo sapessimo e senza che noi ne fossimo consapevoli; la vita che noi ci ritroviamo è frutto della cura che qualcuno ci ha donato. Conoscere il nostro nome significa riconoscere che c’è un amore che ci ha preceduto e ci ha generato, che è previdente anticipando i nostri bisogni ed è provvidente perché ci viene incontro in ogni nostra necessità, soprattutto quella di ritrovarci dopo esserci persi.

Conoscere è cosa diversa dal comprendere. La conoscenza che caratterizza la relazione di Gesù con il Padre e con noi, suo gregge, non è un puro esercizio della mente che pensa, ma è un’esperienza del cuore che sente con gli altri, sogna insieme agli altri, collabora con gli altri e finalmente si dona agli altri.

Commento a cura di don Pasquale Giordano
Vicario episcopale per l’evangelizzazione e la catechesi e direttore del Centro di Spiritualità biblica a Matera

Fonte – il blog di don Pasquale “Tu hai Parole di vita eterna

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