METTI IN CIRCOLO L’AMORE – V DOMENICA DI PASQUA (ANNO A)
✝️ Commento al brano del Vangelo di: ✝ Gv 14, 1-12
Dagli Atti degli Apostoli (At 6,1-7)
Scelsero sette uomini pieni di Spirito Santo.
In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana, venivano trascurate le loro vedove.
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Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola».
Piacque questa proposta a tutto il gruppo e scelsero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosèlito di Antiòchia. Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani.
E la parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente; anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede.
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Il carisma della sintesi per la sinfonia dei ministeri
La comunità cristiana sin dal principio è stata caratterizzata dal fatto di essere cattolica, cioè avere un respiro universale perché composta da persone provenienti da varie realtà linguistiche, culturali e tradizionali. Nella stessa Gerusalemme erano presenti sia giudei indigeni e che dunque parlavano l’ebraico (aramaico), sia quelli che provenivano dalla “diaspora”, cioè da altri paesi che erano accomunati dal fatto di parlare il greco koiné, che sarebbe l’inglese dell’epoca, cioè la lingua parlata soprattutto per gli scambi commerciali. Tuttavia, come spesso succede, le differenze sono anche motivo d’incomprensione e di contrasto.
In questo caso il malcontento che serpeggia nella comunità viene recepito dagli apostoli che non fanno orecchio da mercante e non si sentono attaccati nella loro autorità, ma colgono il problema e l’affrontano. C’è l’urgenza di offrire la stessa cura che si garantisce alle vedove della comunità di lingua ebraica, anche a quelle provenienti dalla diaspora; tuttavia c’è anche la necessità di essere fedele alla propria missione originaria di essere servi della Parola nella predicazione la cui finalità è quella di generare in chi accoglie la Parola lo spirito del servizio all’uomo più fragile.
Nella misura in cui ci si fa nutrire dalla Parola di Dio, si può vivere la propria vita come un dono nutriente per l’altro. E ancora, nella misura in cui si è a servizio di Dio si è anche a servizio dell’uomo. Gli apostoli diversificando i ministeri non compiono semplicemente un’operazione di organizzazione interna, ma compongono le diversità di servizio all’uomo nell’unità dell’obbedienza della fede a Dio. Gli apostoli, come ogni capo o responsabile di una comunità, non può pretendere di avere la sintesi dei carismi, ma invoca lo Spirito Santo per comporre con la sintesi della Carità e nella sinfonia della Comunione la diversità dei carismi e dei servizi presenti nella Chiesa.
Dalla prima lettera di san Pietro apostolo (1Pt 2,4-9)
Voi siete stirpe eletta, sacerdozio regale.
Carissimi, avvicinandovi al Signore, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo. Si legge infatti nella Scrittura: «Ecco, io pongo in Sion una pietra d’angolo, scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà deluso».
Onore dunque a voi che credete; ma per quelli che non credono la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata pietra d’angolo e sasso d’inciampo, pietra di scandalo.
Essi v’inciampano perché non obbediscono alla Parola. A questo erano destinati. Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa.
Pietre vive
L’apostolo Pietro ricorda ai cristiani che con il Battesimo essi hanno iniziato a partecipare alla morte e alla risurrezione di Cristo e nell’Eucaristia, nutrendosi del «genuino latte spirituale» che è la Parola di Dio, i credenti si conformano al Signore. Infatti, vivendo il comandamento dell’amore fraterno in un contesto sociale ostile, essi annunciano con la loro vita l’opera meravigliosa di Dio che, attraverso Gesù Cristo, viene a salvare. La grazia di Dio, che opera nei sacramenti, fa dei singoli credenti i membri del nuovo Israele che non è destinato all’estinzione ma alla vita eterna. Coloro che ascoltano e mettono in pratica il Vangelo si lasciano plasmare dalla mano di Dio che, come sapiente architetto e costruttore, edifica la Chiesa come tempio santo. In esso il credente offre a Dio la sua vita, come sacrificio di comunione, e Lui gli dona la benedizione grazie alla quale l’uomo di fede diventa fecondo nella carità.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 14,1-12
Io sono la via, la verità e la vita.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via».
Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto».
Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere.
Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.
In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre».
Lectio
Il contesto narrativo nel quale è inserita la nostra pericope è il cosiddetto Testamento di Gesù o Dialogo dell’arrivederci (Gv 13,31- 17,26). Il narratore, dopo aver creato una suspense in crescendo negli episodi dei segni, rallenta il ritmo della narrazione inserendo questo lungo dialogo prima di raccontare gli eventi della Passione. Il “ritardo” narrativo ha la funzione di offrire al lettore la chiave di lettura degli avvenimenti per manifestare la loro importanza e descrivere gli effetti per tutti gli attori del dramma (J. N. Aletti, Gesù Cristo: Unità del nuovo Testamento).
Dopo l’uscita di Giuda dal cenacolo, Gesù annuncia l’inizio del compimento dell’ora della gloria (Gv 13, 31s.). È l’ora nella quale si manifesta l’amore di Dio per l’uomo. Allude alla morte in croce sulla quale egli sarebbe stato intronizzato e incoronato Re. A partire da quel momento Gesù non sarebbe stato con i suoi nello stesso modo con cui essi erano abituati a sentirne la presenza. I discepoli elaborano le sue parole come una preparazione al distacco e provano tristezza perché avvertono già il senso della mancanza del loro Maestro. Questa li spingerà a cercarlo per recuperarlo, come farà Maria Maddalena (Gv 20,15). Gesù è consapevole che sta andando incontro alla morte, la quale, però, non è il destino ultimo né per sé nè per i suoi discepoli. Più che di destino, Gesù parla di destinazione. Essa non è fisica ma spirituale. Come la gloria, che Gesù dà al Padre e che riceve da Lui, non ha nulla a che fare con quella vana e passeggera dei regni umani, così la meta del cammino di Gesù e dei discepoli è l’esperienza dell’amore di Dio, ricevuto e donato. L’obbiettivo di Gesù è raggiungere la misura alta dell’amore («amò i suoi fino al fine» Gv 13,1). Questa meta è impossibile da raggiungere per chi oppone resistenza all’amore di Dio in lui e non si lascia amare e guarire. La medesima resistenza la sperimentano anche i discepoli. Pietro, infatti, si era rifiutato di lasciarsi lavare i piedi da Gesù. Per riuscire ad amare fino alla fine è necessario lasciarsi amare da Dio fino in fondo. È come dire che per salire e raggiungere la vetta della gloria bisogna prima scendere fino a toccare il fondo della miseria. Ed è proprio lì che Gesù raggiunge i suoi, per poi portarli insieme con sé. Il comandamento dell’amore è la mappa per raggiungere la felicità. Il modo come Gesù ama i suoi apre ai discepoli la via per giungere alla gloria. La condotta di vita di Gesù diventa modello per i discepoli.
Dopo una digressione sul rinnegamento di Pietro, Gesù sembra riprendere la risposta all’apostolo che chiedeva conto del fatto di non poterlo accompagnare lì dove il Signore stava per andare (probabilmente non aveva compreso ancora che Gesù stava prospettando la sua morte), inaugurando una nuova pericope (14,1) che è composta di due dialoghi provocati dalla domanda di Tommaso (14,5) e dalla richiesta di Filippo (14,8).
La pericope risulta strutturata in questo modo:
A – Esortazione di Gesù (risposta a Pietro rivolta a tutti i discepoli) (vv. 1-4);
B – Domanda di Tommaso (v. 5) e replica di Gesù a Tommaso (rivolta a tutti i discepoli) (vv. 6-7);
B1 – Richiesta di Filippo (v. 8) e replica di Gesù a Filippo (vv. 9-10);
A1 – Esortazione di Gesù rivolta a tutti (vv. 11-12).
Oggetto dell’esortazione (A e A1) è la fede: «Abbiate fede (credete) in Dio e abbiate fede (credete) anche in me» (14,1) e «Non credi che… ?» (14,10), «Credete a me» (14,11). Le repliche a Tommaso e a Filippo sono accomunate dall’autorivelazione di Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita» (14,6) e «Io sono nel Padre e il Padre è in me» (14,11)
V.1 – Attraverso le parole di Gesù viene operata una focalizzazione interna ai personaggi degli apostoli dei quali il lettore viene a sapere che sono turbati nel cuore. Il turbamento era già stato rilevato come stato d’animo di Gesù (11,33; 12,27; 13,21) nel contesto della morte di Lazzaro, nell’imminenza della morte e del tradimento di Giuda. Gesù era turbato nell’anima o interiormente. Gli apostoli sono turbati nel cuore che nell’antropologia biblica è considerato il centro emotivo e volitivo della persona, sede della coscienza e della volontà, il luogo fisico della meditazione e della progettualità, in cui si prendono le decisioni. I discepoli sono confusi e disorientati dalle parole di Gesù che, da una parte anticipa il dramma del tradimento di uno degli apostoli e del rinnegamento di Pietro, e dall’altra, annuncia la sua vittoria con toni trionfalistici. Il turbamento nel cuore dei discepoli nasce dalla distanza sempre più evidente tra le loro attese iniziali e lo scenario che si delinea poco alla volta tra luci e ombre. Il rischio di essere delusi, demotivati e di scoraggiarsi nel continuare a essere discepoli di Gesù è alto. Da qui il rimedio che egli offre: «credete in Dio come credete in me»; bisogna avere fiducia in Gesù per avere fiducia in Dio e così essere stabili (secondo la radice ebraica del verbo credere; Cf. Is 7,9b). Dunque, l’invito di Gesù è di non venir meno e di perseverare nella scelta fatta di seguirlo. Le motivazioni iniziali che hanno portato ad avviare il cammino del discepolato trovano nell’ora della croce un banco di prova e occasione di purificazione e di rafforzamento. I discepoli devono ricordare che i loro padri provarono lo stesso turbamento nel momento del passaggio del Mar Rosso e prima di entrare nella terra promessa. Come i loro padri, anch’essi devono fidarsi di Dio e lasciarsi guidare dalla sua Parola per compiere tutti i passaggi delicati della vita fino a giungere alla meta.
Il v. 2 andrebbe meglio tradotto senza interrogativa retorica: “Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore, altrimenti ve lo avrei detto; infatti, vado a prepararvi un posto”. Rendere in maniera affermativa le parole di Gesù vuol dire leggerle come la rivelazione della verità che getta luce sulla meta del suo cammino e sul fine della sua missione. Gesù parla della Pasqua con termini che richiamano il “nuovo esodo”, ovvero il ritorno al “luogo” da dove era partito (senza peraltro mai abbandonarlo), «la casa del Padre mio». Il profeta Isaia rivolge parole di consolazione a Israele annunciando l’arrivo del Signore che, come fa un pastore col suo gregge, lo avrebbe condotto nuovamente nella sua terra (Is 40,10-11) per ricostruire il tempio, segno della casa di Dio tra gli uomini. Il narratore in 13,3 rivela la consapevolezza di Gesù che è giunta l’ora nella quale la sua missione sta per compiersi ritornando a Dio che lo aveva inviato nel mondo. Sulla bocca di Gesù la «casa del Padre mio» è il tempio di Gerusalemme (Gv 2, 16), ridotto a mercato e destinato a crollare. Quando gli viene chiesto un segno che attesti la sua autorità profetica, egli allude alla morte e alla risurrezione. La prima, causata dalla mano degli uomini, la seconda operata da quella di Dio. La riedificazione del tempio è la risurrezione del corpo di Gesù. Il Risorto è il nuovo e definitivo tempio, Casa del Padre dove ci sono molte dimore.
L’immagine delle «molte dimore» allude al Tempio escatologico, cioè quello che non è costruito da mani d’uomo ma è il luogo della dimora di Dio con gli uomini (Cf. Ap 21, 2-3), il corpo del Risorto. In questo spazio aperto alla universalità, contro la tendenza al settarismo esclusivista, tutti sono invitati ad entrarvi per trovare salvezza.
L’immagine della casa traduce la relazione familiare che unisce Gesù, il Figlio di Dio, al Padre. Non è una relazione esclusiva ed escludente, ma inclusiva, ospitale, aperta e accogliente. La casa del Padre e il corpo del Risorto sono due immagini che si sovrappongono illuminandosi a vicenda per essere una trasparenza dell’altra.
Nel v. 3 si riprende la metafora del viaggio che inserisce gli eventi della Pasqua nel cammino pellegrinante dell’esodo di Gesù e dei credenti. Al ritorno di Gesù al Padre, per preparare le dimore e allargare gli spazi dell’ospitalità, corrisponde l’esodo dei discepoli (vedi anche 14,28; 16,16-22) verso il Tempio escatologico. Nella Pasqua si compie il viaggio di Gesù verso il Padre perché la sua dimora sia aperta a tutti. Quindi, il viaggio di Gesù continua al fianco dei discepoli che con fatica perseverano nella scelta di seguirlo sulla via della croce. Notiamo una forzatura nel tempo del verbo “venire” nella consecutio temporum. Infatti, il verbo venire è al presente e non al futuro, per indicare una dimensione sovratemporale come il presente del verbo “essere” successivo. Il presente indica un’azione continuata: Gesù è sempre col Padre e continua “nuovamente” (avverbio “palin”) a venire perché i discepoli siano con Lui e, in Lui, con il Padre. Gesù continuamente viene a prendere i suoi per guidarli nell’esodo e portarli con sé nella casa Padre. Chiarito il fatto che la Pasqua di Gesù è finalizzata a donarci la dignità di figli di Dio, la sua missione continua con una promessa che diventa il fine della Pasqua dei suoi discepoli: abitare con Lui nella casa del Padre.
Essa però non è da intendere come una realtà fuori del mondo e della storia, ma come il corpo glorioso di Cristo che è la Chiesa, comunità dei credenti. Sicché, la volontà di Dio consiste nel farci figli nel Figlio e fratelli in Gesù, residenti della Casa del Padre e membra del Corpo di Cristo.
Dalle parole di Gesù emerge che la verità è il principio da cui nasce la nostra fede, intesa come cammino esistenziale, è il fondamento sul quale si basa ed è meta verso cui tende. Gesù è la verità perché è origine e compimento della nostra fede. La verità non è un concetto astratto ma è la relazione di amore tra il Padre e il Figlio, che forma la «Casa del Padre», “dimora di dimore”, aperta perché generativa e accogliente come il grembo della donna.
La rivelazione è l’opera con la quale Dio, per mezzo di Gesù, fa verità, ovvero fa luce sul “mistero” della salvezza. Gesù, infatti, non è venuto per condannare, cioè per denunciare e svelare il male (compito della Legge), ma per salvare, ossia generare nuove creature che siano figli di Dio e fratelli tra loro (cf. Gv 3,17).
Il v. 4 conclude il monologo di Gesù e provoca la domanda di Tommaso. Gesù interpreta l’ora della croce come viaggio verso il Padre. Tutta la vicenda evangelica narrata da Giovanni ha lo scopo di rendere noto ai discepoli che Gesù è la «via» per giungere alla meta verso cui il maestro e i suoi seguaci sono incamminati. Il discepolo che ha seguito Gesù nel suo itinerario lo ha conosciuto come via di accesso alla meta che fin dal principio gli è stata indicata. La «via» di cui parla Gesù è la stessa del profeta Isaia 40,3, “la via del Signore”, il cammino di Dio verso il popolo e al tempo stesso la via del nuovo esodo che riporta l’uomo a riconciliarsi con Dio. Gesù mostra la via del nuovo esodo, che ha come patria definitiva la relazione comunionale col Padre, mediante i segni da lui compiuti. La via tracciata da Gesù è quella del comandamento dell’amore che trova il suo massimo compimento nel dono di sé sulla croce. In tal modo egli diventa «pontefice» perché pone in comunicazione il mondo degli uomini con la dimensione di Dio; la meta a cui approda questa via è la conoscenza del Padre. È una via apocalittica perché rivela, rendendo finalmente accessibile, la comunicazione-comunione col Padre.
La comunione piena di Gesù con il Padre è il dato di fatto, il punto di partenza. È il già per Gesù e il non ancora per il discepolo, il quale, però, già conosce la via per giungere al «luogo» che Gesù già abita.
Nel v.5 Tommaso contesta l’ultima affermazione di Gesù. Il ragionamento dell’apostolo parte dalla considerazione del fatto che lui e gli altri discepoli sono allo scuro di “dove voglia andare a parare” e, di conseguenza, è impossibile conoscerne la via. Le parole di Tommaso confermano il turbamento del cuore dei discepoli rivelato da Gesù. «Non sappiamo» è la dichiarazione di totale confusione. Questo tono polemico era emerso precedentemente nella reazione di Tommaso alla decisione di Gesù di andare a Betania, benché Lazzaro fosse già morto, nonostante il pericolo rappresentato dai Giudei che volevano eliminarlo (cf. Gv 11, 16). In altri termini, Tommaso denuncia il fatto che in assenza di una visione chiara, che determini l’obbiettivo preciso, è impossibile definire un metodo. La via è l’immagine per indicare il pensiero-progetto. Appare difficile seguire il filo del pensiero di Gesù, soprattutto quando si ha la percezione che i propri progetti non collimano con la prospettiva da lui offerta. Tommaso ritorna in scena allorquando contesta la parola degli altri apostoli che hanno visto Gesù vivo nel cenacolo. Per credere a quello che essi attestavano esige di vedere e toccare con mano. L’esperienza del cenacolo segna il vertice del cammino di fede di Tommaso, e di ogni credente, perché egli vede Dio ed entra in contatto con lui (cf. Gv 20, 24s.). Ma non è propriamente questo quello che dice Gesù quando promette che i suoi discepoli saranno nella Casa del Padre dove ha preso dimora e l’ha preparata anche per loro? Gesù entra a porte chiuse ed apre il cuore alla fede (Gv 20,19-29).
Essi in realtà non hanno compreso ancora il cuore della vicenda di Gesù e la sua identità legata alla missione ricevuta dal Padre. Per questo Tommaso, prima di incontrare il Risorto, giustamente può affermare di non conoscere dove Gesù stia andando e dove li stia veramente conducendo.
Nei vv. 6-7 Gesù risponde alla questione posta da Tommaso auto rivelandosi come «la via, la verità e la vita». Cosa vuole intendere Gesù con questa definizione di sé? Possiamo enucleare quattro interpretazioni: 1: “Io sono la Via che conduce alla Verità e alla Vita”; 2: Io sono la Via che, attraverso la Verità, porta alla Vita”; 3: “Io sono la Via, perché sono la Verità e anche la Vita”; 4: “Io sono la Via perché rivelo la Verità che dona la Vita”.
La definizione che Gesù dà della vita in Gv 17,3 aiuta a comprendere la sua autorivelazione: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo». Stando a queste parole la vita eterna non è semplicemente una condizione futura di immortalità o incorruttibilità. Essa è, per usare il linguaggio di Giovanni, conoscenza, che è da intendersi, secondo la Scrittura, come esperienza di intima relazione personale di Dio Padre e di suo Figlio, Gesù Cristo. La vita eterna è la vita dell’Eterno, ovvero l’amore di Dio donato al Figlio e che Lui stesso ridona al Padre. L’amore è vita perché c’è un continuo dinamismo del dono. Il sangue, simbolo della vita, richiama la verità per la quale c’è vita quando il sangue circola. Similmente quando circola l’amore c’è vita eterna. L’amore circolare è il contenuto del comandamento nuovo lasciato da Gesù: «Che vi amiate gli uni gli altri» (Gv 13,34). I discepoli di Gesù sono tali quando mettono in circolo l’amore che ha dato loro. Il modo di vivere amandosi reciprocamente diventa l’elemento identitario nel mondo, cosicché tutti possano conoscere che c’è una sola via che porta alla verità e alla vita. Il comandamento dell’amore rivela la volontà di Dio e la vocazione dell’uomo: vivere in comunione amandosi reciprocamente.
Amare significa riconoscere che l’altro è il dono di Dio offertomi perché io possa essere dono per lui. Conoscere Gesù vuol dire riconoscerlo come l’inviato di Dio e accoglierlo come il dono del Suo amore, come Gesù riconosce i discepoli come i fratelli che il Padre gli ha donato. Il vertice della conoscenza di Gesù sta nel sapere «che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani» (Gv 13, 3). Questo vuol dire che per Gesù quelli che il Padre gli ha affidato (Gv 17,6) sono tutta la sua vita. Per loro, infatti, egli consacra sé stesso (Gv 17,19) perché l’amore, con il quale il Padre l’ha amato, sia nei suoi fratelli che, amandosi reciprocamente, possono manifestare al mondo il volto di Dio.
L’amore fraterno, come quello che Gesù ha mostrato agli uomini, è la via maestra per giungere alla comunione piena con il Padre che già si è manifestato nei segni compiuti dal Figlio (narrati nel «libro dei Segni» Gv 1-12). Nell’evento della croce Dio mostra tutta la sua gloria, lo splendore del suo amore. «Così Dio ha amato il mondo: ha dato il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui… abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Il Crocifisso è il segno perenne dell’amore eterno di Dio. Come tale, la sua visione è accessibile a tutti: «volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37). A partire da quell’ora la Gloria di Dio è visibile e accessibile a tutti.
v. 8 – Filippo chiede a Gesù di mostrare loro il Padre perché comprende che l’unica cosa che conta è vedere Dio. Nella richiesta di Filippo riecheggia la tradizione spirituale d’Israele per la quale la vita è un pellegrinaggio per andare alla Casa del Signore e contemplare il suo volto.
vv. 9-10 – Gesù ribadisce che i segni compiuti hanno mostrato l’opera di Dio il quale, facendosi carne ha posto la sua tenda in mezzo agli uomini. Inviando nel mondo suo Figlio Egli stesso si è fatto pellegrino per dimorare in mezzo a noi. In tal modo ha insegnato, con le parole e le opere, a credere per essere salvati.
vv. 11-12 – La pericope era stata introdotta dall’esortazione di Gesù, rivolta ai discepoli dal cuore turbato, a credere in Dio e in lui. La conclusione è affidata ad una esortazione simile: «credete a me» ovvero alla sua parola: «Io sono nel Padre e il Padre e in me» (Gv 14,11). Credere a Gesù vuol dire riconoscere che è il volto visibile del Dio invisibile. Gesù pone a Filippo una domanda la cui risposta non può che essere affermativa. I discepoli hanno iniziato a credere quando Gesù alle nozze di Cana di Galilea aveva anticipato l’«ora» compiendo il primo dei segni. (Gv 2,11). Ma fu solo dopo la risurrezione dai morti che essi poterono credere alla Scrittura e alla parola di Gesù, come attesta l’evangelista in Gv 2,21). Per cui, dirsi credente significa accettare come vera la Parola di Gesù e, come tale aderire al suo progetto di vita mettendo in pratica il comandamento dell’amore. Mettendo in circolo l’amore si mantiene vivo il dono della fede che, a sua volta, alimenta la speranza grazie alla quale si orienta la propria vita verso la Casa del Padre e si diviene membra del Corpo di Cristo che è la Chiesa.
Meditatio
La fede, cammino della vita, tra consolazioni e prove
La prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, descrive un tempo che, per la prima comunità cristiana di Gerusalemme, è di grazia e al contempo di crisi. Da una parte Dio aggiunge alla comunità nuovi credenti, ma dall’altra sorgono malumori e mormorazioni. Quanto più numerosa, diversa e composita è una comunità tanto più frequenti sono le occasioni di scontro e la convivenza di persone diverse tra loro è difficile da gestire. Il conflitto, come quello creatosi a Gerusalemme tra «quelli di lingua greca» e «quelli di lingua ebraica», si risolve solo se si abbandona l’idea che l’altro debba parlare la propria lingua e insieme si ha l’umiltà di imparare il linguaggio comune dell’amore. In questo modo non si concepisce la propria opera come una semplice funzione da espletare ma come un servizio d’amore. I problemi, e le crisi che ne conseguono, sono inevitabili, ma si possono affrontare e risolvere avendo lo sguardo fisso su Gesù e in ascolto dello Spirito.
In tal modo non ci si lascia prendere dall’ansia della prestazione e dalla tentazione di misurare la bontà della propria opera dal gradimento riscosso o dalla mancanza di critiche e opposizioni. Chi si lascia prendere dalla paura del fallimento o entra in crisi per il calo di consensi più facilmente perde di vista lo scopo della propria missione. Pietro invece ascolta ed elabora i malumori e le critiche, non per lacerarsi in vittimistici complessi di colpa, ma per trovare strade nuove per venire incontro alle esigenze dei poveri, conciliare gli animi agitati e rimanere fedeli alla missione apostolica di pregare e annunciare il Vangelo. La soluzione si trova nel lasciarsi guidare dallo Spirito che arricchisce la chiesa di altri ministeri e servizi per il raggiungimento dello stesso fine. La gestione delle mense è un servizio prezioso che la chiesa ha curato da sempre perché avere attenzione alle persone significa prendersi cura soprattutto dei poveri e dei loro bisogni. Le opere di carità fraterna nella Chiesa rendono visibile il volto di Dio-Misericordia che si piega sulle ferite dell’umanità per curarle.
Questa vicenda delle origini della Chiesa conforta anche oggi noi discepoli di Gesù che pur facendo il bene siamo il bersaglio di mormorazioni, discussioni, illazioni. Chi fa opere di bene, chi fa sacrifici e s’impegna per gli altri si espone più facilmente alle critiche, alle accuse o ai giudizi sommari e spesso deve fare i conti con la rabbia e il malumore della gente. Queste sono esperienze che inevitabilmente segnano il cuore di chiunque, ma in particolare colpiscono chi ha intrapreso la via della fede e cerchi di tradurla in servizio di carità.
«Non sia turbato il vostro cuore», dice Gesù a chi è scosso dalla delusione e dalla paura. Queste parole le possiamo sentire rivolte a ciascuno di noi perché chi non ha fatto esperienza della fiducia tradita, delle aspettative deluse, del fallimento di progetti, dei cambiamenti di programmi, di capovolgimenti delle situazioni economiche, della perdita di persone care o della propria salute? Le ferite possono essere molto profonde quanto le lacerazioni provocate dai contrasti e dalla distanza affettiva che si viene a creare. In queste situazioni più nitidamente emergono le nostre strutturali fragilità e debolezze, soprattutto quelle legate al cuore luogo ideale dei desideri, dei progetti e della volontà. Per quanto possiamo essere volitivi e determinati, ambiziosi e caparbi, alla prova dei fatti le opere di bene che rendono bella la nostra vita, non possono poggiarsi sul terreno friabile della nostra umanità. Da qui l’esortazione di Gesù: «Abbiate fede in Dio e … in me, … credete in me».
La fede non è un pacchetto di verità che si apprendono da un libro ma è un viaggio, è il cammino della Pasqua. La fede è la risposta del cristiano al dolore. Se la paura blocca, la fede mette in cammino per andare incontro al Signore che viene seguendo le sue orme e imitando il suo esempio. La fede non si poggia sulle nostre forze ma solamente sulla parola di Gesù che ci consola indicando la meta del comune viaggio della vita: il Padre. È lì che approda la vita di ciascun uomo. Gesù non indica solo la meta ma ha mostrato anche la via per raggiungerla.
Scorrendo tutti gli incontri di Gesù, narrati nei primi 12 capitoli del vangelo di Giovanni, ci rendiamo conto che ciascun personaggio o situazione rivela qualcosa della fatica nel riconoscere, nell’intraprendere e nel rimanere sul cammino della fede. Il tema della crisi attraversa tutta la prima parte del racconto che idealmente prende le mosse dall’invito di Gesù rivolto ai primi due discepoli: «Venite e vedete». Si parte dalla mancanza di vino in una festa di nozze, per poi passare alla malattia che minaccia la vita del figlio del funzionario del re, quindi ai dubbi di Nicodemo, alla solitudine della Samaritana, alla rassegnazione del paralitico, all’invadenza e al tentativo di strumentalizzazione ad opera della folla che era stata sfamata, al giudizio che pende sull’adultera, al pregiudizio e alla persecuzione che colpisce il cieco nato, per concludere con la morte dell’amico Lazzaro. Sono tutte situazioni in cui il cuore è turbato ma nelle quali s’incontra Gesù. Tommaso e Filippo, intervenendo con le loro obiezioni, rappresentano tutti i discepoli che, pur stando con Gesù da tanto tempo, devono ammettere di non conoscerlo ancora per quello che è veramente. Le domande e i dubbi di fede non sono il segno di una fede debole, ma di una fede in cammino. Chi si arrende non fa più domande perché non cerca più nulla. Anche nella notte del dolore, quando la speranza è ridotta al lumicino e ci sentiamo persi, bisogna ricordare, cioè portare al cuore, le parole di Gesù: «Verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi».
Pietro dice che nella sofferenza c’è chi inciampa e si ferma nel suo cammino di fede perché il dolore lo scandalizza e non lo accetta. L’ostacolo più grande alla fede è legarsi ad una mentalità materialista per la quale non c’è futuro oltre la croce, come se la vita ha senso solamente all’interno dell’orizzonte terreno.
La sofferenza ci permette di verificare la staticità della nostra fede. Se essa si poggiasse sulle sole speranze terrene la nostra vita, come un ponte, non reggerebbe al peso della prova. Gesù è il ponte sul quale camminare per attraversare le crisi, perché esse possono essere una grande occasione di progresso e di rinascita. Viaggiando con Gesù impariamo a conoscere noi stessi, vedendo i nostri limiti, le nostre fragilità, i nostri fallimenti come i momenti in cui Gesù si fa prossimo per prenderci con Lui e tirarci fuori dalle sabbie mobili dei sensi di colpa e delle colpevolizzazioni. Nella tristezza, povertà, miseria del peccato, nel fango, nel carcere, nel letto del dolore, Lui viene a visitarci mostrandoci il volto del Padre misericordioso. Egli non solo si fa vicino ma ci prende per mano e ci guida tra le consolazioni di Dio e le desolazioni del mondo sulla via dell’amore che conduce alla vita. Gesù è la via attraverso la quale Dio si fa prossimo e diventa uno di noi ed è l’unica strada, percorrendo la quale noi possiamo giungere alla vera meta del nostro pellegrinaggio terreno: vivere amando come Dio ama.
🙏 LEGGI LA PREGHIERA DEL GIORNO
Commento a cura di don Pasquale Giordano
Vicario episcopale per l’evangelizzazione e la catechesi e direttore del Centro di Spiritualità biblica a Matera
Fonte – il blog di don Pasquale “Tu hai Parole di vita eterna“