Lectio divina
Dopo la parabola del ricco stolto, la cui eredità rischia di andare in fumo a causa della sua avidità, l’evangelista pone sulla bocca di Gesù un discorso rivolto principalmente ai discepoli nel quale li esorta a non lasciarsi dominare dalle paure inutili ma a confidare nella provvidenza di Dio e a cercare la sua volontà. Il discorso di Gesù è di carattere sapienziale e teologico perché tratta della relazione che si instaura tra Dio e il mondo, del quale l’uomo è parte, anzi il vertice. Dio racconta la sua bontà prendendosi cura del mondo. Basta osservare la natura per comprendere che il mondo è mosso dalla forza misteriosa e potente dell’amore di Dio che dà esistenza ad ogni creatura e valore alla vita dell’uomo. Ogni realtà creata porta impressa la sua vocazione di manifestare l’amore di Dio, ma all’uomo è data anche la vocazione più alta di collaborare all’edificazione del Regno di Dio amando. Il successo dell’uomo non si misura sulla quantità delle cose che fa o che ottiene, ma dipende dalla qualità del suo operato e dagli effetti che produce.
L’uomo, povero di meriti personali e ricco della grazia di Dio, è chiamato a trasformare la misericordia che riceve dalle mani del Signore in elemosina posta in quelle dei fratelli. Situato in questo contesto si comprende meglio l’esortazione che Gesù rivolge ai suoi discepoli che, da una parte, devono stare bene attenti alla cupidigia, dall’altra, devono imparare ad abitare il tempo dell’attesa. Gesù è in cammino verso Gerusalemme lì dove celebrerà la Pasqua insieme ai suoi discepoli. Non si tratta di un semplice rito ma di un evento fondamentale perché segna un passaggio cruciale nella vita di Gesù e di coloro che lo seguono. Il momento della morte rappresenta una svolta perché coincide con il giudizio che determina la salvezza o la dannazione, il successo o il fallimento della vita. Sulla croce Gesù rivela la provvidenza del Padre-pastore, ben diverso invece dai padri-padroni accecati dall’avidità e che lasciano come eredità la violenza e il sopruso. Non bisogna temere la morte perché, come rivela la sua risurrezione, essa è un punto di passaggio verso quel destino che dipende da quale eredità abbiamo fatta nostra. Dalla croce Gesù, lo sposo dell’umanità, ci dona il suo Regno e ci fa coeredi insieme con lui della vita eterna (In verità ti dico, oggi sarai in Paradiso con me Lc 23,43).
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Come vivere il tempo dell’attesa della nostra Pasqua? Gesù invita a guardare a lui per imparare a vivere l’attesa in maniera gioiosa e non ansiosa, attiva e non rassegnata, oblativa e non possessiva. Alla tendenza ad accumulare e ad arricchirsi Gesù contrappone l’atteggiamento del distacco affettivo dai beni terreni per utilizzarli come strumento di carità e comunione. Quanto più il cuore è separato dalle cose passeggere di questo mondo tanto più può essere donato interamente alle persone legandosi ad esse con un amore vero ed eterno. È questo il vero tesoro al quale tende il nostro desiderio.
Se una preoccupazione deve assillare non è la quantità di ricchezza che si possiede ma la capacità del cuore ad accogliere la grazia di Dio per farla diventare carità donata ai fratelli. Nella logica della convenienza i ricchi sono guardati come modelli e i poveri sono ignorati con indifferenza o sono oggetto di speculazione. Invece i poveri sono i primi destinatari della nostra responsabilità nei confronti di Dio che ci ha ricolmato di ogni bene e ci propone di essere suoi servi collaboratori. In questo senso, come il Padre-pastore guarda con attenzione il suo piccolo gregge e lo pasce con premura materna, così anche i discepoli si considerano tra loro fratelli e non subalterni, la cui buona fede diventa motivo di ingiusta prevaricazione.
Con la Pasqua di Gesù, in cui Egli si distacca di ogni cosa per donare la sua vita a noi poveri, riceviamo la caparra della sua eredità. Nella sua morte e risurrezione ci viene svelato il progetto di Dio che vuole riunire tutti gli uomini nella gioia della comunione. Nell’ultima cena Gesù è il Padrone di casa che sta in mezzo ai suoi amici come colui che serve. La parabola anticipa gli eventi della Pasqua nella quale Gesù morendo si allontana dai suoi, ma risorgendo si fa nuovamente presente, come il padrone che dopo l’assenza delle nozze fa ritorno a casa sua.
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La morte rappresenta il momento del distacco ma la presenza viva rimane nella memoria della promessa, anima dell’attesa del ritorno, che inaugura il tempo della festa. La beatitudine dei servi inizia sin dal momento in cui devono misurarsi con l’assenza del padrone. La cintura ai fianchi e la lampada accesa sono immagini che richiamano l’abbigliamento e l’equipaggiamento del popolo d’Israele nella notte dell’Esodo. Similmente i discepoli si identificano con gli Israeliti che attraversano in fretta il Mar Rosso (Es 11; Sap 18) e poi il Fiume Giordano (Gs 3, 14s.) per approdare al Monte Sinai e nella Terra promessa.
La santità (beatitudine dei servi) si gioca nel tempo dell’attesa che è anche tempo in cui la fede è messa alla prova. La santità non consiste nell’accumulare meriti grazie ai quali si ottiene il premio, ma è la ordinaria condizione di vita del discepolo di Cristo che è in cammino dietro di Lui verso la Pasqua, passaggio alla Gerusalemme del Cielo e alla Comunione dei Santi. La prontezza richiesta da Gesù sta nel servizio quale risposta alla vocazione di Dio e ai bisogni reali della gente. La veste cinta ai fianchi è l’abito proprio del servo che si prepara al suo lavoro togliendo tutto quello che gli può essere d’impaccio nei movimenti. La vanità delle ambizioni e dei desideri rende incoscienti e indifferenti, lenti o bloccati nei movimenti.
La sobrietà agevola a esercitare il ministero con libertà di spirito e speranza, ovvero il desiderio d’incontrare Dio, prima ancora di ricevere da lui il premio o la punizione. Il servo sveglio e intelligente è colui che si sente corresponsabile della casa nella quale esercita il ministero. Serve non con sentimenti di schiavo ma con la medesima attenzione del padrone a cui sta a cuore l’integrità e la sicurezza della casa contro i ladri che vengono per rapire, uccidere e distruggere (Gv 10,10). La vigilanza del servo trae ispirazione da quella del padrone che non si lascia trovare impreparato all’arrivo del ladro anche se non sa quale sia il momento nel quale si presenterà. Non conoscere l’ora della morte e dell’arrivo del Figlio di Dio non può essere un alibi per ignorarlo con indifferenza. Se così fosse vivremmo da ladri che si intrufolano nella casa per scassinarla e appropriarci di un tesoro che non ci appartiene. Questo accade allorquando ci serviamo della Chiesa, con i suoi spazi, i suoi riti, i suoi aiuti ma senza entrare nello spirito del servizio che la distingue da ogni altra comunità.
La terza parabola si concentra sulla fedeltà richiesta al servo al quale viene affidata l’amministrazione dei suoi beni affinché i servi come lui possano ricevere il necessario per vivere. Il santo è il servo della Provvidenza divina. Egli funge da mediatore di quella cura che ha come unica origine Dio, il Padre-pastore. Chi segue Gesù ha la consapevolezza di essere corresponsabile della vita dei suoi compagni e non può pensare solo a sé disinteressandosi degli altri o addirittura servirsi di loro.
Il discorso si conclude con un ammonimento. Tutti possiamo sbagliare, ma chi pur conoscendo la volontà di Dio e pur professandosi cristiano, agisce in contraddizione con l’incarico ricevuto, va incontro ad una correzione più dura, mentre chi ha sbagliato inconsapevolmente sarà trattato meno duramente.
Dio Creatore dà la vita e l’esistenza a tutte le creature. Ciascuna di esse ha un compito specifico nel mondo. Ognuno nel suo piccolo ha il suo valore che non è dato da ciò che accumula o produce ma dal contributo che offre al bene comune. All’uomo, non viene solo dato qualcosa per la sua sussistenza perché egli non è solo un elemento del ciclo della natura, ma a lui è affidato il compito di custodire il mondo. Dio affida all’uomo il potere regale del servizio mediante il quale si viene costituiti ministri della Provvidenza di Dio. Gesù anticipa il criterio che deve essere usato nel giudizio, soprattutto quello che ognuno è chiamato a fare sulla propria coscienza. La croce diventa la misura del giudizio. La prova si supera se si tende alla misura alta dell’amore, altrimenti si fallisce l’impresa più importante della vita, quella di diventare santi.
Provocati dall’amore di Dio e protesi verso i bisogni dei poveri
Il padre-padrone non pensa che a sé e ciò che lascia diventa oggetto di contesa tra i suoi figli. Gesù, invece, ci rivela che Dio è Padre-pastore che ci dona suo Figlio perché, credendo in Lui, ereditiamo la sua vita. La fede, come quella dei testimoni citati dalla Lettera agli Ebrei, non si riduce a sapere che Dio ci ama ma è fondamentalmente un’esperienza di preghiera nella quale, lasciandoci illuminare dalla Parola e confortare dal nutrimento dell’Eucaristia, scopriamo la novità che dà gioia e speranza al nostro cuore, soprattutto nei momenti più bui. Sappiamo che l’attesa, a lungo andare, mette alla prova la nostra tenuta psicologica e l’equilibrio spirituale. Gesù invita a leggere la nostra vita terrena come tempo dell’attesa nella quale bisogna esercitarsi nelle virtù (cingere la veste ai fianchi) guidati dalla Parola di Dio (tenere le lampade accese). Per il discepolo di Cristo la Pasqua è la chiave di volta e il punto di svolta della propria vita.
La Pasqua di Cristo anticipa la Pasqua di ciascuno di noi. La risurrezione di Gesù rivela che la morte è vinta e da abisso in cui precipitare inesorabilmente è diventata ponte verso il Paradiso, meta ultima del nostro pellegrinaggio. Siamo un popolo in cammino verso la Pasqua. Non ci è dato sapere quanto lungo sia il tempo dell’attesa e del nostro cammino sulla terra, se alcuni giorni oppure anni; ma è in nostro potere vivere preparandoci all’incontro con Dio, il Signore della vita. Perché l’attesa sia gioiosa e non ansiosa, attiva e non passiva, oblativa e non possessiva, è necessario guardare e ispirarsi a Gesù, servo di Dio e dell’umanità. Egli «ha venduto e dato in elemosina ai poveri» tutto sé stesso. Non ha amato per convenienza e a tempo, ma ha dato il suo cuore al Padre per la nostra salvezza. Noi siamo quei poveri per i quali il Signore si è fatto servo, garantendo a ciascuno il nutrimento per la vita eterna.
Nei passaggi cruciali della vita e nella notte della fede la preghiera è il vero servizio sacerdotale che possiamo offrire come Gesù ha fatto nell’orto degli ulivi e sulla croce. Senza la compagnia di Gesù nella preghiera l’indecisione diventa indifferenza e l’attivismo, scambiato per ministero, cede il posto all’apatia e all’accidia da cui provengono soprusi e ingiustizie. Solo la preghiera, e in particolare l’Eucaristia vissuta con gioia e desiderio per l’incontro con Dio, ci permette di mantenere nel tempo l’attenzione e il rispetto per le persone, a partire da quelle a noi più vicine. La fede non è né un analgesico per non sentire dolore, né un energizzante per tenerci su di morale. La fede è stile di vita di chi, custodendo nel cuore il desiderio dell’incontro con Dio, come gli innamorati, e scoprendo giorno per giorno di essere amato da Lui, avverte il bisogno interiore di restituire l’amore che riceve con gesti concreti di servizio per il bene della comunità in cui vive.
Signore Gesù, Tu che nei momenti cruciali della tua vita hai cercato e trovato nella preghiera luce, conforto, verità, svegliaci dal torpore di una routine che non regala gioia ma a malapena ci fa vivacchiare giorno per giorno. Liberaci dal dramma della rassegnazione che ci rende miopi, dall’accidia che ci fa degli eterni insoddisfatti, dalla superficialità egoistica che alimenta la lamentela e il giudizio contro gli altri. Il tuo Spirito accenda in noi il desiderio d’incontrarti come Tu ti fai prossimo a ciascuno di noi per aiutarlo a diventare più maturo nella fede e maggiormente responsabile nel servizio ai fratelli. Fa che possiamo uscire dalla preghiera rafforzati nelle intenzioni delle buone opere, incoraggiati dal tuo perdono, carichi di gioia per lasciare il profumo della santità in ogni persona con la quale incrociamo gli sguardi e la cui anima è accarezzata dall’attenzione e rispetto nei suoi confronti.
Commento a cura di don Pasquale Giordano
La parrocchia Mater Ecclesiae è stata fondata il 2 luglio 1968 dall’Arcivescovo Mons. Giacomo Palombella, che morirà ad Acquaviva delle Fonti, suo paese natale, nel gennaio 1977, ormai dimissionario per superati limiti di età… [Continua sul sito]