Deformati dal peccato, trasformati dalla Grazia, conformati a Cristo
TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE (ANNO A) – Lectio divina
Dal libro del profeta Danièle Dn 7,9-10.13-14
La sua veste era candida come la neve.
Io continuavo a guardare,
quand’ecco furono collocati troni
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e un vegliardo si assise.
La sua veste era candida come la neve
e i capelli del suo capo erano candidi come la lana;
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il suo trono era come vampe di fuoco
con le ruote come fuoco ardente.
Un fiume di fuoco scorreva
e usciva dinanzi a lui,
mille migliaia lo servivano
e diecimila miriadi lo assistevano.
La corte sedette e i libri furono aperti.
Guardando ancora nelle visioni notturne,
ecco venire con le nubi del cielo
uno simile a un figlio d’uomo;
giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui.
Gli furono dati potere, gloria e regno;
tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano:
il suo potere è un potere eterno,
che non finirà mai,
e il suo regno non sarà mai distrutto.
Il regno dell’amore eterno
La pericope è composta da due visioni i cui protagonisti sono il vegliardo e il «figlio dell’uomo». Questi due personaggi si contrappongono alle quattro figure dalle fattezze animalesche che rappresentano le quattro dominazioni caratterizzate dalla violenza tipica delle bestie feroci. Esse escono dal mare che simboleggia il male mentre il Vegliardo e il figlio dell’uomo vengono dal cielo che invece sta ad indicare la sfera divina. La visione di Daniele annuncia l’avvento del regno di Dio davanti al quale tutti gli altri domini scompaiono perché la giustizia viene stabilita in maniera definitiva e stabile. Essa si realizza grazie al «figlio dell’uomo» il quale riceve da Dio il potere, la gloria e il regno. La signoria esercitata da Dio nel cielo si estende alla terra dove gli uomini, non più schiavi del male, che li contrappone gli uni agli altri, possono servire Colui che non s’impone con la potenza delle armi ma viene con la stessa grazia e delicatezza con cui scendono dal cielo la pioggia e la neve. L’angelo, annunciando a Maria la nascita del Messia, afferma che il «suo regno non avrà fine». È una citazione della visione di Daniele che identifica il «figlio dell’uomo» in Gesù. Egli stesso confermerà questa identificazione davanti al Sinedrio nella notte in cui fu tradito. Il regno di Dio non è inaugurato con la violenza inflitta agli altri ma con la sofferenza subita dal Messia. Questa sconfitta rivela che il regno di Dio non si fonda sull’amore al potere ma sul potere dell’amore.
Dalla seconda lettera di san Pietro apostolo (2Pt 1,16-19)
Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo.
Carissimi, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza.
Egli infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: «Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento». Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte.
E abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino.
La fede cristiana non è un’idea ma un fatto
La fede, trasmessa dagli apostoli, non si basa su racconti inventati per giustificare l’esistenza della Chiesa, quale comunità di credenti in Cristo, ma è fondata sull’evento della Pasqua di cui i testimoni oculari sono i narratori. L’identità di Gesù si rivela in tutta la sua gloria nella sua morte e risurrezione, la quale conferma e sancisce la verità della parola di Dio, sia quella ascoltata dalle Scritture sia accolta direttamente dalla voce celeste sul monte della trasfigurazione.
Pietro esorta a credere, pur non avendo visto, all’annuncio della Chiesa la cui luce, riflesso dell’evento pasquale, accompagna il credente nel suo cammino di fede e ne sostiene la speranza fino al giorno in cui Dio sarà possibile incontrarlo faccia a faccia.
+ Dal Vangelo secondo Matteo Mt 17, 1-9
Il suo volto brillò come il sole.
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.
Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».
All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo.
Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».
Lectio
Nella trama narrativa del primo vangelo il racconto della trasfigurazione si colloca nel tempo del viaggio da Cesarea di Filippo, che si trova nell’ alta Galilea, a Gerusalemme, dove si consumerà il dramma della Pasqua che culminerà con la risurrezione. L’episodio della trasfigurazione si pone tra il primo e il secondo dei tre annunci della Pasqua e nel contesto dell’insegnamento riguardante il vero volto del Messia e della Chiesa.
La cornice del racconto è data dal v.1 e dal v. 9 che fungono da introduzione e conclusione. Nel primo versetto del capitolo 17 l’evangelista indica il tempo di «sei giorni dopo» per collegare la narrazione a ciò che lo precede e per creare un collegamento con Es 24 in cui si parla di Mosè che sale sul Sinay insieme a tre compagni. Infatti, come Mosè anche Gesù prese con sé tre dei suoi apostoli e salì con loro su un monte alto. Il v. 9 parla della discesa dal monte e la consegna di Gesù di non rivelare a nessuno quanto avevano visto prima della risurrezione dai morti del Figlio dell’uomo.
«Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello». Questi tre apostoli sono accomunati dalla reazione che hanno alla rivelazione fatta da Gesù circa la sua passione, che si sarebbe compiuta da lì a poco a Gerusalemme (16, 21-23. 20, 17-23). Pietro rimprovera Gesù segretamente (16,22) e i figli di Zebedeo con la loro madre si raccomandano per ricevere i posti di comando migliori. Due reazioni di segno opposto ma complementari che denotano un approccio sbagliato a Gesù. Pietro, che pur vuole dimostrare a Gesù di essergli amico, rifiuta la prospettiva della sofferenza e la scelta di lottare, mentre da parte loro, Giacomo e Giovanni l’accettano come strumento per millantare la loro fedeltà e raggiungere gli obbiettivi. In entrambi i casi l’equivoco diventa occasione di un insegnamento importante sul Figlio dell’uomo e sui suoi discepoli. Quelli che vogliono seguire Gesù lo possono fare a patto di rinnegare sé stessi e prendere la propria croce. Il cammino del discepolato prepara a dare la propria vita a Dio per riceverla dalle mani del Figlio dell’uomo che «sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli … con il suo regno» (16, 24-26.27.28). La visione del Figlio dell’uomo richiama la profezia di Daniele 7,13-14 che parla dell’avvento del Messia e l’inizio del suo regno. Questa immagine la riprende Gesù stesso nel processo davanti al sinedrio allorquando, rispondendo al sommo sacerdote che lo scongiurava di dire se era lui il Cristo, il Figlio di Dio, afferma: «Tu l’hai detto; anzi io vi dico: «d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo» (Mt 26, 64). Il secondo insegnamento importante Gesù lo dà agli apostoli indignati del fatto che i due fratelli, figli di Zebedeo si erano raccomandati per assicurarsi i posti di potere più alti. Coloro che seguono Gesù e partecipano fino in fondo alla sua passione (bere il calice Mt 20, 22.23) sperimentano il potere del vero amore e sono abilitati all’esercizio di tale autorità. «Il Figlio dell’uomo che non è venuto per farsi servire ma per servire e dare la vita in riscatto per molti» è il modello da seguire per diventare grande ed essere il primo. La via del servizio, ovvero del dono di sé, è la strada che Dio ha percorso per scendere verso gli uomini e incontrarli al fine di condurli in alto a partecipare della sua gloria ed essere per tutti gli uomini segno luminoso di speranza (Mt 5, 16).
«e li fece salire su un monte alto, in disparte». Il monte è la cifra simbolica che indica il luogo di un insegnamento importante. È il luogo-culmine della scena delle tentazioni (Mt 4,8), Sul monte Gesù tiene il primo discorso (Mt 5,1), infine sul monte della Galilea (Mt 28, 16-20) il Messia, Gesù risorto, raduna gli apostoli e li invia in missione assicurando loro il suo costante accompagnamento. L’essere sul monte in disparte richiama un clima d’intimità nel quale comunicare cose veramente importanti. I destinatari dell’insegnamento sono i discepoli in crisi di fede e d’identità perché sono perseguitati da quelli di fuori (Mt 5, 11-12.14-16) ma che vivono anche problemi di gestione dei conflitti all’interno della comunità (Mt 5, 20-48). Nel racconto delle tentazioni Gesù insegna anche a Satana. Questo è l’epiteto affibbiato a Pietro quando si era opposto alla volontà di Gesù di andare a Gerusalemme per compiere il tragico e misterioso destino preannunciato (Mt 16,23). Anche sul monte della Galilea Gesù insegna agli Undici che «dubitano» (Mt 28, 17) rivelando loro che Dio, risorgendolo dai morti, gli ha dato ogni potere, in cielo e in terra. Nell’Antico Testamento il monte rappresenta il luogo dell’incontro con Dio. Anche Mosè ed Elia salgono sul monte allorquando sperimentano il fallimento della loro missione profetica e cadono nel buio dell’indecisione e della confusione in seguito al rifiuto e all’incomprensione del popolo al quale erano stati inviati. Mosè sul monte Sinay chiede a Dio di vedere la sua gloria e Lui si mostra, ma di spalle perché nessuno può vedere il volto di Dio; Elia riconosce la presenza di Dio sul monte Oreb nella «voce del silenzio» (cf. Es 24.33-34; 1Re 19, 9-18). Nessuno dei due rimane sul monte ma devono scendere per proseguire la loro missione mettendo in atto le indicazioni ricevute da Dio. Dunque, il monte è Gerusalemme verso cui Gesù si dirige per vivere la Pasqua ed è anche il punto nel quale il Pastore raduna il suo gregge (Mt 26, 31-32. 28,16).
«E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce». Il verbo «trasfigurare» è al passivo di cui però non si fa menzione del soggetto. Si tratta di un “passivo teologico” che indica l’agente in Dio. Letteralmente dovremmo tradurre il verbo greco con trasformare perché nella radice del verbo c’è il senso del cambiamento di forma che va intesa nel senso greco del termine. La forma è il modo con il quale si rivela la sua identità. San Paolo nella Lettera ai Filippesi parla della «forma di Dio», che faceva di Gesù uno «uguale a Dio», e della «forma di servo», che lo ha reso uguale agli uomini (Fil 2, 6.7). L’apostolo afferma che la spoliazione della condizione divina ha reso visibile la sua condizione di servo obbediente fino alla morte di croce. Per questa umiliazione e obbedienza Gesù ha ricevuto da Dio un nome, ovvero un potere, che lo ha costituito Signore davanti a tutti perché ogni creatura possa riconoscerlo come tale con la professione di fede fatta con la bocca e la confessione fatta con la vita.
L’inno della Lettera ai Filippesi riporta il cuore dell’annuncio cristiano con il quale Gesù aveva iniziato la sua predicazione: Beati. Coloro che sono nella condizione di servo vedono in Gesù la condizione di Dio a cui sono chiamati e condotti da Lui. Come Dio trasforma il disonore e la morte di Gesù in gloria e vita, così cambia la condizione dei discepoli che lo seguono fino alla fine. La trasfigurazione anticipa non solo la risurrezione di Gesù ma anche dei suoi discepoli. Nella Trasfigurazione Dio Padre “svela” il volto di Gesù ma toglie il velo anche da quello dei suoi seguaci per cui essi sono chiamati ad essere nel mondo il riflesso della gloria di Dio.
L’evangelista Matteo punta la sua attenzione sul volto e sulla veste che sono fonte di luce. Il volto brillò come il sole che splende in pieno giorno e la veste divenne bianca come la luce. I richiami all’Antico Testamento, riletti dalla tradizione giudaica, fungono da chiave di lettura del racconto. Il volto di Gesù è come quello di Mosè descritto nel libro dell’Esodo (34, 29-35). Quando Mosè parlava con Dio sul Sinay la sua pelle era raggiante come il sole e doveva mettere un velo sul suo viso quando ridiscendeva verso il popolo. Sul monte della trasfigurazione, prefigurazione del Golgota, viene tolto il velo che nasconde la realtà più profonda di Gesù. Il volto “sfigurato” del Crocifisso diventerà il volto trasfigurato del Risorto. Con la risurrezione si compie l’oracolo profetico di Isaia 25, 6-9[1] che annuncia la salvezza di Dio con la quale egli toglierà il velo della morte dalla faccia di tutti i popoli.
Le vesti “bianche come la luce” ricordano quelle del primo Adamo ricevute da Dio (cf. Targum Pseudo Gionata a Gen 3, 7.21). La tradizione rabbinica gioca sui termini “pelle” e “luce”, che in ebraico si pronunciano nello stesso modo anche se si scrivono in maniera diversa. In origine l’uomo e la donna erano nudi e non provavano vergogna, ma dopo il peccato Dio diede loro l’abito di pelle per permettere ad essi di proteggersi dalla volontà di dominarsi l’un l’altro. La veste bianca come la luce è propria del Messia che restituirà agli uomini la “trasparenza” nelle relazioni con Dio e tra loro. La veste bianca come luce supera anche la visione di Daniele che parla dell’apparizione di un vegliardo la cui veste «era bianca come la neve» (Dn 7,9). Il biancore come quello della neve richiama l’oracolo di Isaia che, rivolgendosi ai capi del popolo i cui peccati lo fanno assomigliare a Sodoma e Gomorra, li invita alla conversione, assicurando che anche se i peccati fossero tali da far diventare il loro volto rosso scarlatto come la porpora, sarebbe diventato bianco come la lana. Le vesti e il corpo insanguinato del Crocifisso si trasformano nel corpo glorioso rivestito di una veste candida come la neve e bianca come la lana dell’agnello. La luce della veste di Gesù è la misericordia che perdona e riconcilia.
La voce celeste incute paura, come quella di Dio sul Sinai, tanto che il popolo chiede a Mosè di parlare al posto suo. Gesù è la Parola di Dio che, sebbene possa suscitare paura come quando annuncia la sua passione, tuttavia consola e conferma i suoi discepoli che il suo amore è più forte della morte.
«Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui». Oggetto della visione è anche Mosè ed Elia. Il verbo, aoristo passivo di “vedere”, è al singolare. Letteralmente dovremmo tradurre con «fu fatto vedere a loro Mosè ed Elia che conversavano con lui». Il soggetto dell’azione è ancora Dio. Lui trasforma Gesù e lo mostra insieme a Mosè ed Elia. I due personaggi biblici sono accomunati dal fatto di aver provato l’esperienza del fallimento nella loro missione verso il popolo che, nel primo caso, ha peccato d’idolatria costruendosi un vitello d’oro e nel secondo, ha sostenuto i profeti di Baal contro cui Elia doveva lottare. Entrambi, colti dallo scoraggiamento chiedono di morire ma Dio li consola con la visione della sua gloria e l’ascolto della sua voce. L’incontro con il Signore consentirà ad essi di portare a termine la missione loro affidata. Mosè ed Elia hanno conversato con Dio sul monte Sinay e Oreb. Sul monte della trasfigurazione essi conversano con Gesù. è chiara la sovrapposizione delle immagini per cui Gesù è il volto di Dio che può essere contemplato senza paura ed è la Parola che ora è udibile da ogni uomo. Nella figura di Mosè ed Elia possono identificarsi i tre apostoli, i quali, come i profeti, sperimentano la difficoltà a seguire Dio perché le resistenze del popolo sono anche le loro. Il superbo rifiuto della croce e l’orgogliosa pretesa di sostituirsi a Dio sono gli ostacoli più duri che rendono ciechi davanti ai segni dei tempi e sordi alla voce del Signore.
La visione della conversazione a tre suggerisce anche il fatto che Gesù trova nella Scrittura la conferma della decisione di andare a Gerusalemme, consapevole del fatto di dover affrontare la morte ma al contempo certo di compiere la volontà di Dio che non abbandona nella fossa il suo consacrato (Sal 16).
«Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: “Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”». Pietro si sente interpellato davanti alla visione e s’intromette nella conversazione domandando il permesso di fare tre tende, una per ognuno di loro. L’apostolo si permette di suggerire a Gesù di prolungare la loro conversazione rendendosi disponibile a fare le tre tende nelle quali far dimorare lui e i suoi ospiti. Perché solo tre tende? S’intuisce che l’apostolo guardi i personaggi con ammirazione ma ha la consapevolezza di non poterli raggiungere. Egli si rende disponibile a costruire le tende che diventano il simbolo della santità inaccessibile all’uomo, soprattutto a chi ha coscienza della propria impurità. Pietro è come Isaia che nel tempio vede la gloria di Dio che lo riempie e si allarma perché ha visto ciò che per l’uomo è insostenibile vedere. Dio lo rassicura purificandolo con il carbone ardente che il serafino prende dal braciere e poggia sulle labbra del profeta (Is 6). Nelle parole di Pietro sembra riecheggiare l’intenzione di Davide di costruire una casa per il Signore dove far dimorare la sua Presenza. Il tentativo dell’apostolo, sebbene mosso dall’entusiasmo suscitato dalla visione, è un goffo tentativo di chiudere nei propri schemi la grandezza dell’evento. È la pretesa di ridurre la Verità a formule dogmatiche o in slogan e la potenza di Dio in gesti rituali che rasentano la magia.
«Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo”». La risposta a Pietro viene direttamente da Dio. La nube luminosa è un ossimoro; allude alla nube dell’Esodo (cf. Es 14) che accompagnava Israele e che segnalava la presenza di Dio sul Sinay (cf. Es 34,5), e nella tenda del convegno (cf. Es 40, 34-38). La nube che accompagnava Israele nell’attraversare il Mar Rosso era luminosa per gli Ebrei e tenebrosa per gli Egiziani. La nube luminosa è la presenza di Dio che avvolge i tre apostoli che così sono introdotti non solo alla presenza di Dio ma nella Presenza. Il verbo adombrare traduce quello ebraico usato per indicare che la nube divina riempiva la tenda del convegno. La tradizione rabbinica usa il termine Shekinà per indicare la Presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Nel vangelo di Matteo questa idea ritorna in 18,20 dove la comunità di due o tre persone riunite nel nome di Gesù diventa la sua Shekinà.
Sul monte, dove è bello stare insieme con il Signore e con i fratelli (cf. Sal 133), coloro che sono saliti con Gesù non sono solo spettatori ma sono coinvolti nell’evento. Dio parla direttamente a loro indicando in Gesù il suo Figlio, l’amato nel quale Egli ha riposto la pienezza della sua benevolenza, di cui è possibile beneficiarne ascoltandolo. Dio davanti a Mosè proclama il suo nome (cf. Es 34, 5-9) e ad Elia rivela la sua presenza nella voce del silenzio (tradotto con il sussurro di una brezza leggera; cf. 1Re 19, 12). Nella tradizione rabbinica Dio interviene con la sua voce per accreditare uno dei contendenti e dirimere la questione tra loro. Similmente qui la voce di Dio Padre accredita la parola di Gesù che indica nella croce la via per giungere alla salvezza.
«All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo». La reazione degli apostoli richiama quella del popolo d’Israele alle falde del Sinay quando udiva la voce di Dio come tuono e ne ebbe paura (cf. Es 20, 18-19). Cadere con la faccia a terra è il segno di difesa. La paura induce gli uomini a coprirsi il volto. In questo gesto degli apostoli si intravede un atteggiamento di umiltà. Essi, infatti, hanno paura ma sentono anche il timore che è la consapevolezza di essere piccoli davanti alla grandezza di Dio, come Elia che si copre il volto alla presenza di Dio e Mosè gli occhi al Suo passaggio. Attendono il contatto con Gesù e la sua parola che li rincuora per risollevarsi e aprire gli occhi. Davanti a loro adesso c’è solo Gesù. Essi non si svegliano da un sogno ma sono invitati ad alzarsi per continuare il cammino. Esso non è una scalata di potere per dominare sui popoli ma una immersione nel mondo per farsi prossimo ad ogni uomo che attende la guarigione e la liberazione dal male.
«Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: “Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti”». La conclusione del racconto è affidata alle parole di Gesù che comanda il silenzio, come qualche giorno prima aveva ordinato di non dire a nessuno che era il Cristo (cf. Mt 16, 20). Il tempo del cammino verso Gerusalemme deve essere impiegato non per progettare grandi cose ma per stare in silenzio e ascoltare Gesù e il suo insegnamento, soprattutto quello che darà dalla cattedra della croce.
Meditatio
La più grande tentazione dell’uomo è quella del “farsi da sé”. “Farsi una famiglia” o “farsi un nome” sono obbiettivi apparentemente legittimi se non fosse per il fatto che in essi potrebbe nascondersi quella forma di despotismo per il quale si vorrebbe piegare la realtà alla propria idea. La gloria dei regni del mondo, mostrata da Satana a Gesù, altro non è che l’esercizio del potere incarnato dai governati e dai capi delle nazioni, la cui finalità è quella di dominare, controllare, sottomettere e reprimere. Ciò che Satana mostra è come l’immagine di specchio che proietta le intenzioni negative presenti nel cuore dell’uomo. Esse illudono e ingannano l’uomo facendolo cadere nel peccato; al contrario, la Parola di Dio chiama ad elevarci. Gesù conduce in alto i tre apostoli, che rappresentano tutti i discepoli che con fatica seguono il Maestro, non per mostrare dall’alto ciò che potrebbe essere sottomesso al loro potere ma per far vedere la vocazione a cui sono chiamati e la realtà di ciò che Dio sta operando in lui e in loro, per lui e per loro. Sul monte avviene un evento rivelativo: non è Gesù a “trasformarsi” ma “si lascia trasformare” da Dio Padre perché dalla sua Parola si lascia condurre. Il cammino che fa di Gesù e gli apostoli dei compagni di strada li vede accomunati dalla stessa chiamata. L’annuncio della passione fatta da Gesù sfigura l’immagine che gli apostoli avevano iniziato a farsi di lui e demolisce anche i loro sogni di gloria. Essi, insieme a Gesù, devono rinunciare allo specchio e ascoltare la Parola che apre davanti a loro una realtà più grande della loro immaginazione. La scelta da fare è se andare dietro alle favole, frutto della propria immaginazione, oppure seguire la voce narrante di Dio che attraverso Gesù guida ad una meta che supera di gran lunga le aspettative umane.
L’insegnamento dato nell’esperienza della trasfigurazione, nella quale risuona la parola della Croce, mira a far scoprire piuttosto che a far comprendere. Gli apostoli non sono chiamati semplicemente ad assistere come spettatori privilegiati ma anche ad essere introdotti come figli nella gloria di Dio. Dio non rivela un segreto arcano che è appannaggio di pochi eletti. Nei tre apostoli si intravede l’immagine della Chiesa, piccolo gregge, testimone della rivelazione di Dio che in Gesù Cristo non si presenta solamente come l’ “Io sono” detto a Mosé, ma come l’ “Io sono per te Padre e tu sei per me Figlio”. Gesù, pur essendo della condizione di Dio, si è spogliato del suo essere come Dio per condividere con l’uomo sofferente la sua condizione di servo fino a morire crocifisso. Per questo Dio lo ha «sovraesaltato» (risuscitato) per farlo diventare il Signore del cielo e della terra (Fil 2). In questo cammino di abbassamento e innalzamento Gesù è stato discepolo del Padre e ministro della sua volontà. Egli è la guida non verso vie di fuga (tentazioni del demonio) ma per introdurre l’uomo nell’intimità familiare di Dio. Come la Parola del Padre, ascoltata e messa in pratica da Gesù lo ha trasformato da servo a Figlio, così la Parola, ascoltata e messa in pratica dagli apostoli, trasforma la loro vita non più sfigurata dal peccato ma trasfigurata dalla grazia. Da schiavi della paura si diventa servi della gioia. Da inventori di storie a ministri della Parola.
Gesù accompagna la Chiesa tra le sue tribolazioni, cadute, incomprensioni, ottusità, confusioni, alla Presenza di Dio per introdurre nell’intimità familiare con Lui. La conversazione spirituale è lo stile che deve caratterizzare il cristiano e che assimila alla scuola di Gesù. La preghiera, quale conversazione con Dio, diventa anche scuola che educa a relazioni di amore poggiate sulla narrazione. La formazione spirituale si configurerà quale esperienza di ascolto di Dio che non giudica ma narra sé stesso, mostra il suo cuore di Padre e condivide la sua volontà di fare casa con noi. La Parola fa udire la sua voce nella storia dell’umanità che rivela, come la nube luminosa, la presenza di Dio nelle sue piaghe. La parola della Croce ci tocca e ci invita a rialzarci, a risollevare il capo e a guardare in faccia la realtà per affrontarla con speranza, guidati da Gesù. Il silenzio ordinato da Gesù non è reticenza, ma la condizione per cui dare il primato all’ascolto della narrazione di Dio e dei fratelli. Pietro, che voleva fare subito tre tende, interpretando la sua missione in termini operativi, viene educato innanzitutto all’ascolto, umile e docile. Nelle narrazioni degli uomini, che si riuniscono perché convocati dallo Spirito, riecheggia la voce di Gesù che indica tra le vie tortuose del mondo la strada che conduce alla salvezza.
Li condusse sul monte in disparte
Mi predispongo ad incontrare il Signore che mi parla con il silenzio che crea lo spazio nel cuore alla sua accoglienza?
Fu trasfigurato… fece vedere… la Voce disse
Il volto e le abitudini (vesti) rivelano i pensieri del cuore. Il volto cupo e abbattuto, come quello di Caino (cf. Gen 4, 5b-7), mostrano la sua rabbia e l’invidia. Le vesti del lutto indicano la tristezza. La postura del corpo ricurvo è indice della paura. Come la Parola di Dio cambia la vita?
Conversavano
Nella preghiera e nel dialogo con gli altri mi lascio educare dalla narrazione e mi educo ad usare un linguaggio narrante oppure mi lascio coinvolgere nel giudizio e il mio modo di comunicare diventa moraleggiante?
Se vuoi faccio
Nella relazione con Dio e con i fratelli mi metto in atteggiamento di pellegrino per uscire da me stesso per andare incontro all’altro? Antepongo o sovrappongo la mia parola e la mia volontà a quella degli altri?
Ordinò di fare silenzio sulla visione fino…
Quanto tempo dedico alla meditazione della Parola che parla della mia vita e alla mia vita? La contemplazione cambia il mio punto di osservazione per guardare alla mia vita e a quella dei miei fratelli per riconoscere l’opera di Dio in me e in essi?
Commento a cura di don Pasquale Giordano
Vicario episcopale per l’evangelizzazione e la catechesi e direttore del Centro di Spiritualità biblica a Matera
Fonte – il blog di don Pasquale “Tu hai Parole di vita eterna“