don Pasquale Giordano – Commento al Vangelo del 5 Febbraio 2023

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Il Vangelo, bontà da gustare e bellezza da contemplare

Dal libro del profeta Isaìa (Is 58,7-10)

La tua luce sorgerà come l’aurora.

Così dice il Signore:

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«Non consiste forse [il digiuno che voglio]

nel dividere il pane con l’affamato,

nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto,

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nel vestire uno che vedi nudo,

senza trascurare i tuoi parenti?

Allora la tua luce sorgerà come l’aurora,

la tua ferita si rimarginerà presto.

Davanti a te camminerà la tua giustizia,

la gloria del Signore ti seguirà.

Allora invocherai e il Signore ti risponderà,

implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”.

Se toglierai di mezzo a te l’oppressione,

il puntare il dito e il parlare empio,

se aprirai il tuo cuore all’affamato,

se sazierai l’afflitto di cuore,

allora brillerà fra le tenebre la tua luce,

la tua tenebra sarà come il meriggio».

La voce dei profeti si fa sentire per togliere il velo dell’ipocrisia dalle opere di chi crede di riuscire ad ingannare Dio con una pratica religiosa in contraddizione con la condotta vita. All’inizio del libro degli oracoli di Isaia, quando ancora era in piedi il tempio di Salomone in cui si offrivano sacrifici col sangue di animali, il profeta dà voce al disgusto di Dio che non tollera la commistione tra crimine e culto. Nella seconda parte del libro profetico, ambientato nel tempo dell’esilio e post esilio quando i sacrifici del tempio erano stati sostituiti da pratiche quali il digiuno, la preghiera e l’elemosina (cf. Mt 6), si stigmatizza l’atteggiamento ipocrita di quelle persone falsamente religiose che ostentano la loro pietà con forme di devozione esteriore che non si trasformano in veri legami di fraternità. Sono senza alcun valore quelle pratiche, come il digiuno, che non nascano dalla compassione e non portino alla comunione fraterna. L’ipocrisia è come la nebbia che avvolge tutto rendendo anonimo e incolore ogni cosa. Da qui l’invito a recuperare un rapporto personale con Dio perché il culto sia significativo e realizzi in chi lo pratica con spirito umile la Sua volontà. Dio, che accende nel nostro cuore la luce della fede e lo fa ardere col fuoco della carità, vuole renderci segno luminoso di consolazione per tutti, in particolare per coloro che sono nelle tenebre della disperazione e della tristezza.   

Salmo responsoriale (Sal 111)

Il giusto risplende come luce.

Spunta nelle tenebre, luce per gli uomini retti:

misericordioso, pietoso e giusto.

Felice l’uomo pietoso che dà in prestito,

amministra i suoi beni con giustizia.

Egli non vacillerà in eterno:

eterno sarà il ricordo del giusto.

Cattive notizie non avrà da temere,

saldo è il suo cuore, confida nel Signore. 

Sicuro è il suo cuore, non teme,

egli dona largamente ai poveri,

la sua giustizia rimane per sempre,

la sua fronte s’innalza nella gloria.

Il Salmo 111 appartiene a quei componimenti di carattere sapienziale nel quale viene delineato il profilo dell’uomo giusto che, in quanto tale, è beato, persona riuscita. Chi confida nel Signore radica la sua vita in Dio. Assimila da Lui la vita e, con essa, la misericordia, la pietà e la giustizia. Il credente sa bene quanto sia difficile rimanere fedeli a Dio perché non mancano le resistenze che ostacolano gli sforzi a tradurre la parola di Dio in vita. Il Salmista esorta ad aggrapparsi ancora di più al Signore nelle prove in modo da essere di incoraggiamento anche ai fratelli che si trovano nelle stesse difficoltà. La condivisione dei beni materiali, ma anche della Parola e dei beni spirituali, è la condizione perché ogni comunità trovi nella rete della fraternità la forza di resistere alle prove e superarle rinsaldando in Dio i legami personali.  

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (1Cor 2,1-5)

Vi ho annunciato il mistero di Cristo crocifisso.

Io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. 

Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.

L’evangelizzazione è una catena di trasmissione della gioia di Dio. S. Paolo, quando parla della sua missione, indica nello Spirito Santo il vero soggetto della predicazione, fatta con parole e opere di una persona, quale era lui, nella quale, dall’incontro con Cristo crocifisso e risorto, era avvenuto un cambiamento radicale. Man mano che approfondiva la sua fede l’orgogliosa sicurezza di sé e la gelosia si trasformavano in umiltà e passione evangelica. La conversione interiore andava di pari passo con quella esteriore. I sentimenti di Cristo che egli assimilava determinavano anche i suoi obiettivi di vita. Non gli interessava difendere la Legge, ma far conoscere Cristo e far gustare a tutti la sua misericordia. Dunque, s. Paolo testimonia con le parole e con le opere ciò che Dio ha fatto in lui, e fa comprendere cosa significhi per un discepolo di Cristo essere sale della terra e luce del mondo. Quella di Paolo non è una sapienza mondana né la sua potenza gli è conferita da un’autorità umana. La sapienza e la potenza che egli possiede vengono da Dio. La possiede perché ha accettato, come Gesù, di essere considerato agli occhi degli altri uno stolto e un debole. Egli si rallegra fino al vanto del fatto di subire ingiurie e persecuzioni perché in tal modo si conforma alla croce di Cristo in cui risiede la sapienza e la potenza di Dio. Infatti, solo l’amore divino, che giunge a pienezza nell’evento della Croce, da senso al vivere ed è capace di salvare, ovvero di dare una vita senza morte.

+ Dal Vangelo secondo Matteo Mt 5,13-16

Voi siete la luce del mondo.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 

«Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente.

Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».

Il discorso, iniziato con le otto beatitudini in terza persona plurale, culmina con la nona in seconda persona plurale rivolgendosi direttamente ai discepoli che si erano accostati a lui per ascoltarlo (vv. 11-12). L’ultima beatitudine è riassuntiva di tutte le altre e ha un valore esplicativo. La beatitudine è la gioia e l’esultanza di colui che soffre per Gesù. La giustizia, di cui si parlava precedentemente, non è un ideale ma è una persona, Gesù Cristo. I verbi gioire ed esultare indicano la reazione di chi riconosce l’intervento salvifico di Dio nella propria vita. La salvezza è la ricompensa, ovvero il dono finale conseguito da chi persevera nel bene. Più che applicare alla lettera le norme della Legge, la beatitudine pervade il cuore di chi offre a Dio per amore il proprio corpo ferito dalle umiliazioni della vita. Beato l’uomo che fa abitare Gesù Cristo in sé. Lui è la parola di Dio che si fa carne in quella di quegli uomini e quelle donne che diventano suoi discepoli nel momento in cui si uniscono alla sua passione, morte e risurrezione.

Il discorso continua alla seconda persona delineando l’identità dei discepoli mediante due metafore, quelle del sale e della luce. L’espressione «sale della terra» vorrebbe indicare che, inquanto Israeliti, nei discepoli c’è la “Sapienza d’Israele”. La seconda metafora, «luce del cosmo», amplia i confini della loro funzione le cui opere devono raggiungere il mondo intero. Il presente accomuna la beatitudine e l’identità dei discepoli: essi oggi sono beati, sono sale e luce. Nella continuazione del discorso, che è senza soluzione di continuità, il passaggio dalla terza alla seconda persona vuole sottolineare il fatto che la vocazione universale alla felicità, che ha origine in Dio, trova la sua traduzione pratica nella vita fatta di relazioni. Ciò che determina l’identità del discepolo è il nesso tra la vocazione e la missione, tra il dono ricevuto e quello che si trasmette. Gesù sta comunicando ai suoi discepoli quello che lui stesso ha ricevuto dal Padre. Il Suo amore lo rende beato e, di conseguenza, capace di essere sale della terra e luce del mondo. 

Il sale ha tante funzioni legate alle sue proprietà, ma in questo caso l’attenzione è posta sul sapore. La domanda è introdotta da una ipotetica nella quale c’è un verbo che letteralmente significa impazzire, ovvero perdere il senno, o essere insipido, cioè non avere sapore. La vera pazzia, sembra dire Gesù sta nel perdere il sapore di Dio. Come in natura il sale non può perdere il sapore così Dio non ritira mai la sua benevolenza verso gli uomini. Ma se essa viene rifiutata, si perde. La conseguenza è la perdizione dell’uomo stesso. Essa non è condanna di Dio ma è punizione che l’uomo infligge a sé stesso allontanandosi da Dio (Sal 73,27 «perisce chi si allontana da Te»). L’amore di Dio, e la gioia che comunica, è più reale delle cose di questo mondo il cui possesso può garantire solo un piacere effimero e passeggero. La sapienza di Dio determina l’uomo nelle sue scelte di vita e lo orienta a fare di essa un dono. Quando però, soprattutto nel contesto di sofferenza, s’insinuano altre logiche che prendono il posto della Parola di Dio, allora il rischio di perdere il senso della vita si fa più concreto. Essa ci appare inutile fino al punto di gettarla via e calpestarla. 

Il sale agisce per impedire la processo corruttivo dei cibi, soprattutto il pesce. Magdala era un centro della salatura del pesce. A questo si aggiunge anche la sua proprietà terapeutica che agisce in particolare per le malattie della pelle. La funzione del sale determina anche il suo valore perché la sua presenza conferisce valore. Ha maggior valore ciò che si conserva nel tempo o che è capace di resistere al tempo. Ecco perché la paga si faceva con il sale e perciò da qui nasce la parola salario. Mangiare insieme il pane e il sale significa entrare in una relazione d’intimità familiare. In At 1,4 l’evangelista Luca usa il verbo, che letteralmente significa «condividere il sale», per indicare che Gesù risorto era a mensa con i suoi discepoli. 

Dunque, essere sale della terra significa per i discepoli di Cristo assimilare la sua sapienza per poter essere con il proprio stile di vita portatori della gioia di Dio che conferisce valore all’esistenza. La parola di Dio ha potere terapeutico perché, da una parte, agisce per contrastare la forza corruttiva del peccato e, dall’altra, sana le ferite causate da esso. Esse sale della terra vuole dire orientare tutto verso la comunione con Dio e tra di noi. 

La metafora della luce è accompagnata da due paragoni, la citta posta sul monte e la lucerna accesa. La città sul monte può alludere a Safed, collocata su uno sperone roccioso a nord est del massiccio dell’Alta Galilea, le cui case bianche brillano riflettendo i raggi del sole, oppure a Gerusalemme. Tuttavia, a prescindere dalla identificazione con una specifica città, quello che si vuole sottolineare è il fatto che è impossibile rimanere nascosti al mondo. La fede ci espone al mondo. Non si tratta di fare proselitismo o di ostentare la propria fede oppure di tacerla per paura di ritorsioni. La visibilità, sebbene possa essere problematica, non è un problema se si esercitano strategie difensive utilizzando ciò che la montagna offre in termini di sicurezza. L’essere sula montagna è un punto di forza, così come la comunità credente poggia la sua fiducia in Dio. La metafora della lampada ritorna sul tema della visibilità intesa come servizio offerto perché quelli che sono dentro la casa affinché riescano a vedere e riconosce la gloria di Dio per glorificarlo con la propria vita. L’accensione della lampada è il battesimo con il quale il credente viene “illuminato” da Cristo, ovvero riceve la sua luce. Lo Spirito Santo è la luce che Cristo risorto comunica ai discepoli. La fede, la luce dello Spirito, se coperta dal moggio si spegne, come il sale perde il sapore. Non basta neanche tenerla accesa (come ricorda la parabola delle vergini) ma bisogna porla in un luogo alto perché tutti possano vedere. Senza la luce non si vede, senza la parola di Dio non si vive. Porre in alto la lucerna non significa ergersi sugli altri ma innalzare il segno luminoso che indica a tutti coloro che guardano la strada da seguire. Nella sua missione il discepolo non innalza sé stesso, che è una semplice lampada, ma magnifica in sé stesso Dio che è Luce e sorgente di luce. 

Meditatio

Voi siete… la Parola di Gesù rivela l’identità più profonda di coloro soffrono per il fatto di essere suoi discepoli. Le prove a cui essi sono sottoposti pongono un serio quesito d’identità. Questo capita in ogni situazione di difficoltà. Le domande di senso emergono in particolari contesti nei quali ci si scontra con la realtà, o con l’aspetto più duro di essa, e si prende consapevolezza dei propri limiti. Gesù imposta il discorso, che inizia con le beatitudini, facendo riecheggiare la voce dei discepoli che lamentano il fatto di essere una minoranza, spesso oggetto di ingiustizia e prevaricazione. Non è un caso che Gesù usi l’immagine familiare del sale e della luce per indicare l’identità dei cristiani i quali sono nel mondo la ripresentazione di Dio la cui caratteristica principale è quella di essere mite e umile di cuore. Un granello di sale e una luce piccola e delicata, come quella di una lucerna, indicano perfettamente l’identità di Gesù Cristo e del cristiano. Non siamo chiamati ad essere miniere di sale o astri celesti, ma semplicemente piccoli come piccolo si è fatto Dio per amarci ed essere solidale con noi. 

Certamente rimane deluso chi si aspetta di vedere segni portentosi o di accedere a segreti arcani. Dio si presenta a noi in Gesù crocifisso che il mondo reputa debole, inutile e pazzo. Eppure è Lui, il Salvatore, il sale della terra e la luce del mondo. Quale utilità ha questo Dio? Quale salvezza è venuto a portarci, quale sapienza è venuto a rivelarci, quale potenza è venuto a comunicarci? Dalla croce Gesù non ci ha tirati fuori dal mondo in cui viviamo per collocarci al di sopra degli altri, non ci ha dato una parola che convince gli altri a fare quello che vogliamo, non ci ha dato una forza per piegare la volontà altrui alla nostra. Gesù Cristo è sale della terra e luce del mondo perché sceglie la via dell’umiltà per venirci a salvare.

Sale e luce sono due realtà diverse e complementari. Il sale per svolgere la sua funzione di dare sapore deve immischiarsi e nascondersi fino a sparire; la luce, al contrario, deve essere posta in alto perché il suo raggio di azione si ampli il più possibile. Per servire l’uomo Gesù si è coinvolto fino a confondersi con gli uomini, soprattutto con i poveri e i peccatori. Ne è prova il fatto di essere stato accusato di essere «un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori». Stare dalla parte dei piccoli, condividendo con essi i drammi delle ingiustizie perpetrate da chi specula sulla loro condizione di povertà materiale e culturale, costa un prezzo molto alto che arriva fino a perdere la propria vita. Chi incarna il vangelo, così come è, sa di andare incontro a grandi delusioni e sofferenze. Quando la paura prende il sopravvento il discepolo perde il sapore della beatitudine, ciò che dà senso alle sue opere di carità e giustizia. La gioia e l’amore di Dio cedono il posto alle preoccupazioni sulla salvezza di sé, della propria reputazione o delle posizioni sociali raggiunte. La paura di perdere quella vita, costruita con le proprie mani, rende il cristiano non più servo di Dio ma schiavo dell’io.

Un discorso simile vale per la luce. Il Vangelo spinge a uscire allo scoperto per non rinchiudersi in più comodi circoli ecclesiali che degenerano in sette piuttosto che diventare comunità familiari. La passione di Gesù, fino alla morte di croce, dice l’inevitabile rischio di chi si espone per il Vangelo. Se lo si fa con gli stessi sentimenti di Cristo, bisogna mettere in conto che gli iniziali sguardi di ammirazione si trasformano in gelosie e invidie e agli applausi seguono attacchi che mirano a screditare e a infangare la reputazione alimentando il giudizio e coagulando il fronte del disprezzo, che a volte giunge all’uccisione “mediatica” o addirittura fisica della persona. I discepoli sono messi in guardia dal confondere la professione della fede con la sua ostentazione, riducendo la pratica religiosa a manifestazioni che la spettacolarizzano privandola in tal modo del suo significato più autentico e della efficacia salvifica che le è propria. 

Dunque, il discepolo di Cristo nella notte del dubbio e del dolore, quando vacillano le fondamenta della vita e le certezze della fede, ci si sente demotivati, soli e deboli, apra il cuore e alzi lo sguardo per ascoltare e contemplare la sapienza del Crocifisso. In Lui il povero e l’afflitto trova consolazione per difendersi dalla paura e la vittima dell’ingiustizia riceve la forza per perseverare nel bene fatto con discrezione e gratuità, con umiltà e mitezza, così da contrastare lo spirito mondano della ipocrisia e della violenza omicida. 

Leggi la preghiera del giorno.

Commento a cura di don Pasquale Giordano
Vicario episcopale per l’evangelizzazione e la catechesi e direttore del Centro di Spiritualità biblica a Matera

Fonte – il blog di don Pasquale “Tu hai Parole di vita eterna