Trinità misericordiosa – SANTISSIMA TRINITA’ (ANNO A) – Lectio divina
Dal libro dell’Èsodo (Es 34,4-6.8-9)
Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso.
In quei giorni, Mosè si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano.
Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà».
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Mosè si curvò in fretta fino a terra e si prostrò. Disse: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervìce, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità».
In Esodo 32 si racconta il peccato d’idolatria compiuto da Israele che si era fatto un vitello d’oro, contravvenendo al primo comandamento che prescrive il divieto di farsi idoli. Mosè, avvertito da Dio scende all’accampamento e rendendosi conto del peccato commesso, rompe le tavole della legge ad indicare la rottura del patto di alleanza appena sancito con la scrittura del Decalogo. Mosè, dopo aver punito il popolo esigendo la distruzione dell’idolo si ma mediatore e intercessore per implorare il perdono e ristabilire l’alleanza con Dio.
Per questo sale di nuovo sul monte portando due nuove tavole sulle quali Dio avrebbe scritto nuovamente il patto di alleanza. Prima che sia Mosè a pregare è Dio stesso che si presenta quale Signore dai tratti materni che non dimentica i suoi figli perché li ama. Il perdono non è una concessione rilasciata previo pagamento di una sanzione, ma è il dono di chi ama con cuore libero. L’amore di Dio è sorgivo e sempre rigenerante, precede e accompagna il cammino di conversione dell’uomo.
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Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (2Cor 13,11-13)
La grazia di Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo.
Fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi.
Salutatevi a vicenda con il bacio santo. Tutti i santi vi salutano.
La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi.
Nel saluto finale della lettera paolina risuona quello che i cristiani di Corinto si scambiavano dandosi il segno di pace durante l’eucaristia, momento di comunione fraterna e con Dio. L’assemblea liturgica celebra la Pasqua di Cristo che diventa la forma di vita che i credenti sono chiamati a realizzare quotidianamente e in ogni ambito della loro esistenza. Perciò l’eucaristia, fonte e culmine della vita cristiana, non può essere ridotta a rito formale o convenzionale, ma in essa confluiscono le storie di ciascuno e da essa fluisce la grazia di Dio affinché i carismi ricevuti possano tradursi in operazioni e ministeri a vantaggio della comunione ecclesiale.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 3,16-18)
Dio ha mandato il Figlio suo perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo:
«Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».
Lectio divina
Contesto
L’evangelista Giovanni in 3, 1-21 presenta il dialogo tra Gesù e Nicodemo, uno dei capi dei Giudei che si svolge in tre battute (vv 2-3. 4-8. 9-21).
Il fariseo pone innanzitutto la questione dell’identità di Gesù e la sua funzione. Il quarto evangelista ha descritto nel capitolo precedente il primo segno alle nozze di Cana e il gesto provocatorio con cui aveva cacciato i mercanti dal tempio. Il punto di vista del lettore è assunto da Nicodemo il quale, dalla conoscenza di questi segni nei quali riconosce l’intervento divino, deduce che quel Rabbì è inviato da Dio come maestro. La replica di Gesù eleva il tono della discussione introducendo il regno di Dio che non è visibile se non in conseguenza del nascere «dall’alto». Vedere il regno di Dio significa fare l’esperienza di entrare in contatto con Lui.
Nicodemo non comprende a pieno la condizione per «vedere il regno di Dio». Il discorso di Gesù gli appare paradossale perché lo recepisce partendo dalla lettera. L’equivoco è presentato in maniera ironica. Nascere dall’alto non è sinonimo di nascere di nuovo. Gesù replica che la condizione necessaria per entrare nel regno di Dio è nascere da acqua e Spirito. Spiega che la nascita dal grembo materno, secondo la carne, fa vedere la nostra dimensione carnale o corporale. Nell’atto generativo secondo la carne si riceve un corpo mortale perché destinato ad essere consumato dalla corruzione della morte (come dimostra il cadavere di Lazzaro). Al dato della natura, che non viene contraddetto da Gesù, si aggiunge quello dello Spirito, il quale ha pure la capacità di generare. Ciò che è generato dallo Spirito è anch’egli Spirito. L’immagine del vento spiega meglio il senso delle affermazioni di Gesù. Come del vento avverti la presenza, perché la voce si può ascoltarla nel suo soffio anche se sfugge alla comprensione la sua origine e la sua meta, così anche chi è nato dallo Spirito. Queste parole acquistano significato alla luce della risurrezione di Gesù. Egli è il primogenito dei rinati dallo Spirito che gli dona un corpo glorioso perché spirituale. I racconti delle manifestazioni di Gesù dopo la risurrezione mostrano che soffiando egli dona agli postoli lo Spirito Santo, per essere perdonati ed essere portatori di perdono. «Dovete nascere dall’alto» più che un imperativo morale è un comando che dice il fine dell’azione santificante di Dio. «Dovete» esprime non una condizione realizzata dall’uomo ma rivela la volontà di Dio che mette in atto il suo progetto.
La terza battuta inizia come la domanda di Nicodemo che nasce dall’aver recepito le parole di Gesù come l’annuncio di un evento: «come può accadere questo?». Questa volta è il Maestro a fare ironia su Nicodemo che, pur essendo un sapiente d’Israele, non riesce a comprendere il senso sapienziale delle parole e dei gesti di Gesù. Egli pure è il Sapiente che testimonia per esperienza diretta. In altri termini, è il Risorto che parla ai suoi discepoli e a chi è in ricerca della verità. La sapienza di Gesù non consiste nel rivelare segreti arcani ma di introdurre nel regno di Dio, ovvero nella relazione personale con il Padre. Il progetto di Dio è quello di farci figli suoi come lo è il Figlio unigenito. Colui che compie i segni non è solo un maestro autorevole ma è l’uomo Gesù disceso dal cielo, inviato da Dio. La Scrittura lo aveva annunciato e Gesù fa un esempio. Come Dio aveva salvato dalla morte certa coloro che alzavano gli occhi verso il serpente di bronzo innalzato da Mosé, così chi crede nell’uomo Gesù innalzato sulla croce riceve lo Spirito Santo e con esso la vita eterna. I segni compiuti da Gesù non sono solo la dimostrazione che «Dio è con lui» ma che Dio è sceso in mezzo al mondo. Dio è in mezzo al suo popolo come Salvatore. L’innalzamento del serpente sul palo è profezia dell’innalzamento di Gesù sulla croce. Come dalla visione del serpente di bronzo veniva la guarigione, così chiunque volge lo sguardo a colui che hanno trafitto riceve la vita eterna, il dono dello Spirito.
Il Figlio dell’uomo, disceso dal cielo e innalzato (sulla croce), è il Figlio unigenito di Dio. Questo è il cuore della nostra pericope si colloca nella seconda parte della terza rivelazione di Gesù che dialoga con Nicodemo. Il discorso di Gesù trova nella rivelazione dell’amore di Dio il suo culmine.
Il brano evangelico è composto di tre versetti:
v.16: progetto salvifico di Dio che nasce dal cuore di Padre
v.17: opera salvifica del Figlio
v.18: salvezza di chi crede/perdizione di chi non crede
Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Il Figlio dell’uomo disceso dal cielo richiama l’immagine del Messia presentata dal profeta Daniele (Dn 7, 13-14). Non a caso questo oracolo viene citato da Gesù nel Sinedrio quale conferma alla domanda posta dal Sommo Sacerdote circa la sua identità messianica (Mc 14, 61-62). Giovanni, conoscitore della letteratura apocalittica, prende in prestito l’immagine del Figlio dell’uomo per coniugarla con quella della Sapienza personificata di cui si parla soprattutto nella letteratura sapienziale (Pr 30,4). In altri termini, l’immagine del Figlio dell’uomo viene privata di ogni connotazione politica per essere rivestita dell’autorità che è propria della Parola creatrice di Dio. Essa detiene il vero potere: l’amore generativo. Dio è Padre perché genera. Nell’amore dello Spirito Santo il Padre genera eternamente il Figlio che continuamente e per sempre riceve la vita da Lui. Gesù rivela che questo amore non è riservato al Figlio unigenito, ma attraverso di lui giunge al mondo, inteso come tutta la creazione di cui l’uomo è il vertice. Dio da sempre e per sempre ha amato il mondo. Il suo amore per la creazione è originario, gratuito e fedele.
Il Figlio è il dono di Dio Padre perché per mezzo di lui tutto esiste (Gv 1, 1,3). L’atto creativo di Dio è mediato dal processo riproduttivo la cui capacità è inscritta nel mondo (Gn 1, 11.22.28). Ogni forma di vita terrestre, una volta nata, è destinata a perire. Solo l’uomo, in tutta la creazione, ha consapevolezza della morte e davanti a tale prospettiva, che implica la perdita della vita, egli spera di prolungarla in un oltre tomba. Il libro della Sapienza parla dell’amore di Dio per ogni cosa creata che esiste proprio perché amata (Sap 1, 13-15). La vita, dunque, racconta l’amore di Dio. Tutto ciò però sembra contraddetto dalla morte. Se la vita ha un termine, anche l’amore di Dio finisce? La fede nel Dio della vita e dell’amore entra in crisi davanti alla morte. Anche davanti alla morte di Gesù la fede dei suoi discepoli entrò in una crisi profonda, così come quando viene a mancare un punto di riferimento importante nella propria vita.
Il figlio unigenito richiama alla mente Isacco. Egli è il figlio amato che il padre Abramo è pronto a sacrificare per amore a Dio (Gn 22). Dunque, il figlio unigenito dato da Dio al mondo per amore è il Crocifisso. Il verbo «dare» assume il significato di offrire in sacrificio. L’offerta del proprio figlio indica il dono totale di sé all’amato. L’amore di Dio per il mondo giunge fino al sacrificio di sé stesso e al dono della propria vita, la vita eterna.
L’uomo ha davanti a sé la vita e la morte, afferma Dio nel Deuteronomio (Dt 30, 15-20). Egli è posto davanti alla scelta di credere o non credere. L’acqua del Mar Rosso, menzionata nell’epopea dell’esodo, sta ad indicare la morte, il limite della vita terrena. Israele nella Pasqua ha sperimentato come quel limite può essere soglia da attraversare o abisso degli inferi in cui sprofondare. Israele ha creduto nella parola di Dio che parlava attraverso Mosè e perciò è passato all’asciutto. Il Figlio unigenito è la personificazione della Parola di Dio che guida il mondo non verso la sua fine ma per raggiungere il vero fine: vivere.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Il Figlio è nel mondo segno rivelatore del Dio fedele e giusto. Sulla croce Gesù viene innalzato per essere giudice. Nella storia d’Israele si narra di personaggi scelti e inviati al popolo come giudici per riscattarlo dalla tirannia dei Filistei. La condizione di schiavitù in cui cadevano gli Israeliti era la conseguenza del peccato con il quale dimenticavano Dio, che li aveva liberati dall’Egitto e condotti nella terra promessa, per seguire i falsi dei. Il peccato è già una forma di condanna perché è la scelta stolta di condurre uno stile di vita difforme dalla volontà di Dio finalizzata al bene dell’uomo. Gli insegnamenti di Dio sono paragonati alla via che conduce alla vita. Abbandonare la via di Dio per seguirne altre significa perdersi e morire (cf. Gdc 2, 11-19).
Il Figlio, dunque, è inviato da Dio come Giudice d’Israele, non per condannare ma per salvare, non per dare la morte ma la vita, la sua vita. Gesù nell’esercizio della sua missione d’amore fino alla fine (Gv 13,1) compie le parole del profeta Ezechiele che da voce alla volontà di Dio: «Non voglio la morte del peccatore, che si converta e viva» (cf. Ez 33).
Il Figlio riceve dal Padre la missione di salvare il mondo. I Giudici di Israele organizzavano un esercito di persone comuni, non soldati professionisti, che obbedienti alla parola della loro guida avevano la forza di sbaragliare l’avversario. Il piccolo Davide con la fionda e pochi ciottoli uccide il gigante Golia (1Sam 17). Quando Pilato chiede a Gesù se lui fosse il re dei Giudei, si sente rispondere che il suo regno non è di questo mondo perché il suo modo di guidarlo è dettato dal potere dell’amore e non dall’amore al potere (cf. Gv 19,36). La forza di Gesù non sta nell’esercito di angeli combattenti e sterminatori, ma risiede nell’amore del Padre e nella Parola che Lui gli ha dato per metterla in pratica.
Gesù salva il mondo perché lo ama e dona sé stesso perché chiunque crede e riconosce il suo amore possa riceverlo e convertirsi per essere salvato.
Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
La condanna si subisce. Lo stesso accade con la morte, entrata nel mondo non per volontà di Dio ma per invidia del diavolo; ne fa esperienza chi gli appartiene (Sap 2, 23-24). Dio, che non ha risparmiato suo Figlio ma lo ha dato per tutti noi (Rm 8,32), e Gesù, che non si è sottratto all’ora della passione, non hanno eliminato la morte fisica ma l’hanno spogliata del suo potere di danneggiare l’uomo nello stesso modo con cui egli ha peccato. La morte uccide come il peccato che si chiama mortale proprio per questo motivo. Quando Giovanni parla di carne intende l’uomo mortale. Nel prologo dice solennemente che la “Sapienza” (Logos/Verbum) è diventata carne, ovvero il Figlio di Dio, generato dallo Spirito è diventato Figlio dell’uomo generato dalla carne (cf. Gv 1,14). Il Crocifisso è il Figlio dell’uomo che secondo la carne subisce la condanna a morte ma che in obbedienza alla volontà del Padre si offre come vittima innocente per riscattare chi è sotto il dominio della morte. Il Risorto dai morti viene rigenerato nello Spirito. È il Figlio di Dio che dona lo Spirito nel quale rinascere dall’alto. Nel prologo l’evangelista Giovanni spiega che credere in Gesù, il Figlio di Dio, significa accogliere la sua parola, aderire alla sua proposta di vita, unirsi a lui nell’offerta della propria vita. In tal modo, a quanti credono in Gesù è «dato il potere di diventare figli di Dio… generati da Dio» (Gv 1, 12-13).
Credere in Gesù vuol dire attraversare con lui la soglia della morte e rinascere dall’alto come nuova creatura in cui abita lo Spirito di Dio. L’acqua del battesimo attua la Pasqua insieme a Cristo, crocifisso e risorto, ovvero il passaggio per «venire alla luce». Con il segno sacramentale inizia un pellegrinaggio fatto di continui passaggi guidati dallo Spirito Santo fino a giungere alla soglia della casa del Padre per abitarla in eterno.
Nei vv. 19-21 l’evangelista chiarisce che il credente è colui che ama i fratelli, ricerca la luce della verità, percorre la via del bene. Al contrario, il non credente, anche se è battezzato con l’acqua, è colui che fa il male perché, convinto di sapere già tutto, è refrattario agli insegnamenti della Sapienza. È attaccato a ciò che possiede, avido di guadagno, pensa ai suoi interessi, è invidioso dei successi dei fratelli e indifferente nei confronti delle sofferenze altrui. Il non credente agisce nella ipocrisia nascondendo dietro la rigidità nei confronti dei peccatori l’inconfessabile attaccamento ai propri vizi. Il credente, invece, non teme di portare alla luce e confessare il proprio peccato perché più forte della vergogna è la speranza del perdono di Dio. Il non credente non confessa il suo peccato perché teme la condanna del giudice piuttosto che confidare nella misericordia di Dio che ama il mondo e lo salva attraverso suo Figlio Gesù.
Meditatio
Il nome di Dio è Amore che si fa storia
Nella liturgia di questa domenica, in cui celebriamo la solennità della SS.ma Trinità, come Mosè, saliamo sulla vetta del monte seguendo Gesù che dall’alto della croce ci rivela il volto e il nome di Dio: Amore.
Ogni religione crede in un dio superiore alla realtà terrena nel quale sono proiettate le speranze, soprattutto quelle che non sono umanamente realizzabili. In questa prospettiva Dio sarebbe quello che l’uomo vorrebbe essere, ma che non è o che non gli riesce di essere. L’ottica usuale per l’uomo è quella che va dal basso della propria povertà all’alto delle sue speranze. Il Salmo 121, che è il canto intonato dai pellegrini che salivano a Gerusalemme, esprime la preghiera dell’orante afflitto da qualche sofferenza che invoca l’aiuto del Signore per essere risollevato dalla sua miseria: «Alzo gli occhi verso il cielo, da dove mi verrà l’aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore che ha fatto cielo e terra». Le parole del re Ezechia, che nella malattia invoca il Signore, interpretano la fatica di perseverare nella preghiera, ma anche la speranza di ottenere la risposta che salva: «Io ho gridato fino al mattino. Come un leone, così egli stritola tutte le mie ossa. Come una rondine io pigolo, gemo come una colomba. Sono stanchi i miei occhi di guardare in alto. Signore, io sono oppresso; proteggimi. Che dirò? … Signore, in te spera il mio cuore; si ravvivi il mio spirito. Guariscimi e rendimi la vita. Ecco, la mia infermità si è cambiata in salute! Tu hai preservato la mia vita dalla fossa della distruzione, perché ti sei gettato dietro le spalle tutti i miei peccati. Poiché non gli inferi ti lodano, né la morte ti canta inni; quanti scendono nella fossa non sperano nella tua fedeltà. Il vivente, il vivente ti rende grazie come io oggi faccio. Il padre farà conoscere ai figli la tua fedeltà. Il Signore si è degnato di aiutarmi; per questo canteremo sulle cetre tutti i giorni della nostra vita, canteremo nel tempio del Signore» (Is 38, 13-20). Nella sofferenza avvertiamo la difficoltà a tenere gli occhi rivolti verso il cielo, ad attendere con perseveranza l’aiuto di Dio. Il pericolo di cadere negl’inferi della disperazione e della diffidenza nei confronti di Dio e degli altri è sempre dietro l’angolo. Quando preghiamo alziamo le braccia al cielo e, nel caso diventino pesanti, emettiamo un alto grido, o se anche la voce si spegne, non ci rimane altro che elevare il cuore a Dio.
Salire sul monte significa pregare lasciandoci andare nelle braccia del Padre che, secondo la bella immagine del profeta Osea 11, ci solleva alla sua guancia. Man mano che camminiamo nella fede impariamo che la preghiera ci educa non solamente a chiedere ma anche a contemplare. La contemplazione è l’elevazione dell’anima verso Dio, come il trasporto affettivo che spinge un innamorato a desiderare, cercare e unirsi alla sua amata. In questo pellegrinaggio del cuore avviene un graduale cambio di prospettiva passando dal piano della nostra miseria a quello più alto della misericordia di Dio, da quello della nostra giustizia a quello della fedeltà del Signore.
Mosè sale sul monte portando le tavole della legge per ricordare al Signore l’impegno preso con il suo popolo. Così noi quando preghiamo siamo portati a rivendicare i nostri meriti o quando chiediamo un favore a qualcuno gli rammendiamo, quasi a volerglielo rinfacciare, quanto abbiamo fatto per lui. A volte la rabbia, come quella che ha preso anche Giobbe, simbolo di ogni persona afflitta da una sofferenza innocente, potrebbe indurci a rivolgerci a Dio chiamandolo in giudizio, come lo stesso sentimento porta normalmente ad accusare chi ci ha deluso con un comportamento scorretto, chiedendo conto della sua condotta.
Che sia la gioia o la tristezza, oppure la rabbia per un’ingiustizia subita è necessario cercare l’incontro perché il cuore ci dice che Dio non è un’idea da capire ma una persona importante e significativa da incontrare. In qualsiasi situazione ci troviamo la voce dello Spirito Santo ci parla esortandoci a cercare il volto di Dio. Contemplare significa rispondere alla chiamata di Dio a risalire dalle nostre bassezze, a lasciare il nostro punto di vista così terra-terra, ascoltare il nome suo che narra l’amore che egli nutre per ciascuno di noi.
La cima del monte Sinai diventa il luogo dell’incontro tra Mosè che, dalla valle dove si è accampato il popolo d’Israele, sale alla vetta e Dio che scende dal cielo per fermarsi presso di lui. Dio passa davanti a Mosè proclamando il suo nome. Il Signore non solo risponde alle aspettative di Mosè, ma supera le speranze dell’uomo. Infatti, non è semplicemente un dio da scegliere o servire, ma da desiderare, conoscere e amare. Dio ha messo nel cuore di ciascuno la nostalgia di lui, come un figlio sente dentro di sé il richiamo alla sua origine e della sua sorgente.
Quando siamo in difficoltà pensiamo a chi potrebbe aiutarci e come potrebbe farlo, così ci rivolgiamo a Dio supplicando il suo ausilio e sperando nel suo intervento che salva dal pericolo. Si chiede per ottenere aiuto, si prega per ricevere la grazia, si supplica per avere risposte. Mosè sul monte non riceve risposte ma gli viene rivelato un segreto, il nome di Dio. Il segreto di Dio è racchiuso nel suo nome. Non si tratta di un segreto che ci permette di essere quello che vorremmo, ma che ci fa diventare quello che già siamo per grazia di Dio. I desideri della carne ci fanno sognare un uomo che può tutto, che soddisfa ogni suo bisogno, che si gode la vita tra confort e piaceri. Dio ci svela che il segreto della felicità sta nell’amore, quello che si dona senza chiedere nulla in contraccambio, che perdona senza conservare rancore, che spera di condividere con gli altri la gioia della comunione con Dio. Dio rimane sempre misterioso e nascosto se la relazione con Lui è finalizzata a ricevere qualcosa. Egli infatti viene in nostro aiuto non semplicemente facendo qualcosa, ma rivelandosi, cioè donando tutto se stesso nel Figlio suo unigenito.
Nei riti l’uomo sale verso l’altare, simbolo del luogo alto in cui Dio “abita” e, offrendo i sacrifici, vorrebbe far giungere in cielo la propria preghiera affinché volga il suo sguardo e benedica colui che lo invoca. Nell’ottica terrena la benevolenza divina è la risposta alla preghiera dell’uomo. Gesù ci rivela la prospettiva diversa di Dio, quella contenuta nel nome pronunciato davanti a Mosè. Gesù nel vangelo ci parla di un’altra vetta, quella sulla quale è posto l’altare della Croce che è anche lo zenit dell’amore di Dio, amore fedele ed eterno, misericordioso e giusto. Gesù, crocifisso e innalzato sulla croce, rivela il volto e il nome di Dio che scende verso l’uomo per rimanere e familiarizzare con lui.
Dio passa davanti a Mosè perché è lui che prende l’iniziativa, ci ama per primo, e lo fa spinto dall’amore gratuito che lo lega indissolubilmente all’uomo. Egli ci precede nell’amore e lo dona in maniera sovrabbondante rispetto alla misura della nostra giustizia.
Mosè, contemplando il nome di Dio, gli chiede di rimanere sempre in mezzo al suo popolo e di camminare con lui; Gesù, nostro fratello, è l’Emmanuele il Dio-con-noi sempre vicino, che rimane al nostro fianco anche quando sbagliamo strada, ci corregge per riportaci sulla retta via e ci perdona aiutandoci a risollevarci dalle nostre cadute.
L’amore con il quale Dio ci ama non è un’utopia, né un bel sogno che rimane progetto muto, ma è realtà perché si fa storia. È una storia, e non una favola, perché essa prende forma nell’evento concreto della morte e risurrezione di Gesù. La storia della salvezza, nella quale Dio rivela il suo nome, è una storia di amore perché il suo amore si è fatto storia con gli uomini.
Questa storia d’amore continua ad essere scritta sulle pagine, anche quelle ingiallite degli anziani o stropicciate di chi avverte la fatica del vivere, oppure su quelle strappate e lacerate di chi è ferito dalla delusione e dalla rabbia. Dio continua a scrivere con noi la storia, come un maestro che mette la sua mano su quella del bambino per insegnargli a tradurre in lettere le parole pronunciate con la bocca. La mano sapiente e paziente di Dio è lo Spirito Santo! Lasciamoci guidare da lui perché possiamo essere quella lettera d’amore che Dio indirizza al mondo intero a partire dal piccolo universo che ciascuno abita.
Commento a cura di don Pasquale Giordano
Vicario episcopale per l’evangelizzazione e la catechesi e direttore del Centro di Spiritualità biblica a Matera
Fonte – il blog di don Pasquale “Tu hai Parole di vita eterna“