Vita nuova che profuma di speranza
V DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)
Dal libro di Giobbe Gb 7,1-4.6-7
Notti di affanno mi sono state assegnate.
Giobbe parlò e disse:
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«L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra
e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario?
Come lo schiavo sospira l’ombra
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e come il mercenario aspetta il suo salario,
così a me sono toccati mesi d’illusione
e notti di affanno mi sono state assegnate.
Se mi corico dico: “Quando mi alzerò?”.
La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba.
I miei giorni scorrono più veloci d’una spola,
svaniscono senza un filo di speranza.
Ricòrdati che un soffio è la mia vita:
il mio occhio non rivedrà più il bene».
La preghiera delle lacrime
La storia di Giobbe è ambientata nell’antico Medio Oriente. Il protagonista è un uomo pio, prima ricco e felice, poi improvvisamente colpito dalla sventura: perde i figli, i beni, la salute;
Dopo l’antefatto il libro presenta un dibattito fra Giobbe e quattro amici, giunti da Edom e dall’Oriente, paesi ritenuti la patria della saggezza.
Giobbe si confronta sul tema del dolore e demolisce, una dopo l’altra, tutte le spiegazioni della teologia tradizionale.
La lettura di oggi contiene la sua celebre riflessione sulla condizione dell’uomo sulla terra: la vita non è altro che dolore, l’uomo è uno schiavo sottoposto a immani sacrifici da cui non ricava alcun vantaggio; è un bracciante che fatica dall’alba al tramonto in un campo non suo, sopporta l’arsura del sole nell’angosciante attesa che giunga, agognata, la sera (vv. 2-3). Giobbe si ritiene persino più sventurato dello schiavo, più infelice del bracciante. Questi gli paiono dei privilegiati: durante le ore notturne riposano dalle loro fatiche, mentre lui neppure nel sonno trova sollievo. Sconvolto dal dolore si agita e si rivolta nel letto, fino all’alba (v. 4). La speranza di un cambiamento della sua condizione è una chimera, una vana illusione. Gli anni trascorrono veloci, passano come un soffio e a lui non resta che concludere sconsolato: “I miei occhi non vedranno mai più il bene!” (vv. 6-8).
Giobbe non è un rassegnato, non soffre in silenzio, sfoga il suo dolore davanti al Signore e gli chiede conto delle sventure che è costretto a sopportare. Il suo grido quasi ci spaventa, pare una ribellione, una bestemmia. Invece è preghiera.
La lingua ebraica conosce tredici termini per indicare la preghiera; tre di loro esprimono forme progressive di supplica a Dio. Al primo gradino, il più basso, troviamo la preghiera espressa con parole; è la più semplice e la più comune, sgorga dal cuore dell’uomo e raggiunge il cuore di Dio. Un gradino più su c’è il grido che costituisce un’invocazione ancora più efficace. Al terzo livello c’è la più irresistibile delle richieste di aiuto al Signore: il pianto. Insegnavano i rabbini: “Non c’è porta che le lacrime non riescano ad aprire” e il salmista pregava: “Ascolta la mia preghiera, porgi l’orecchio al mio grido, non essere sordo alle mie lacrime” (Sal 39,13).
Di fronte al male non viene chiesta la rassegnazione, l’uomo può e deve gridare allo scandalo, ha il diritto di dire a Dio che non capisce per quale ragione l’ha creato amante della vita e della gioia e poi l’ha collocato in un mondo di dolore e di morte. La preghiera di Giobbe è fatta di grida e di lacrime. Chi piange e grida il proprio dolore, anche se non se ne rende conto, sta invocando Dio, sta chiedendogli luce e forza.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi 1Cor 9,16-19.22-23
Guai a me se non annuncio il Vangelo.
Fratelli, annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!
Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo.
Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.
Il servizio della predicazione del vangelo
Scrivendo ai Corinti, Paolo richiama ai cristiani il dovere di assistere gli apostoli: “Coloro che annunziano il vangelo devono vivere del vangelo” (1 Cor 9,14), come anche Gesù ha insegnato: “L’operaio ha diritto al suo nutrimento” (Mt 10,10).
A causa della debolezza umana possono subentrare abusi. Qualcuno può servirsi di questo diritto per arricchire, acquisire privilegi, condurre una vita agiata. Esiste anche pericolo che i responsabili delle comunità si comportino da “funzionari del sacro” e svolgano il loro ministero non con la passione, la generosità e il disinteresse di chi è davvero innamorato del vangelo, ma come impiegati che lavorano in vista dello stipendio. Quando si registrano simili comportamenti, anche i predicatori più eloquenti e preparati, perdono di credibilità; per questo Gesù raccomanda, anzi, ingiunge ai discepoli: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).
Per ovviare a questi rischi, Paolo afferma che, in certe situazioni, è meglio rinunciare al diritto di essere mantenuti dalla comunità. Tale decisione deve essere presa quando possono insorgere sospetti che la predicazione della parola di Dio sia dettata da secondi fini. È ciò che egli e Barnaba hanno fatto: sono vissuti lavorando con le loro mani, hanno continuato a svolgere la loro professione, senza mai essere di peso ad alcuno.
Coloro che, come Paolo, sono disposti a servire, in modo completamente gratuito, la loro comunità, quale ricompensa si devono aspettare? Null’altro che la gioia che nasce dalla coscienza di aver dedicato la propria vita ai fratelli, in pura perdita, senza sperare di ricevere qualcosa in cambio (v. 18).
Paolo non ha predicato il vangelo per ricavarne un guadagno, ma per assecondare un incontenibile impulso interiore. Convinto della grandezza e della sublimità del dono ricevuto, non poteva trattenerlo per sé, sentiva il bisogno di comunicarlo a tutti.
+ Dal Vangelo secondo Marco Mc 1,29-39
Guarì molti che erano affetti da varie malattie.
In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.
Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.
Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!».
E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.
LECTIO
Nella sinagoga di Cafarnao l’insegnamento di Gesù già riconosciuto come autorevole viene apprezzato nella sua novità. La parola di Gesù è Vangelo, è una bella novità, sia perché segna una discontinuità rispetto alla parola degli scribi, che rappresentano la trazione dei padri, sia perché è il compimento della promessa di Dio. La profezia di Gesù inaugura il tempo nuovo nel quale Dio si fa prossimo in senso fisico.
Le prime battute del vangelo di Marco consentono al lettore di fare un percorso che dalla sinagoga di Cafarnao arriva a quelle dei villaggi vicini dove Gesù predica e scaccia i demoni. Questo cammino passa attraverso la casa e un «luogo deserto», dove Gesù entra in contatto con gli infermi e con Dio.
La casa indica le relazioni familiari. La casa di Simone e Andrea accoglie Gesù e l’altra coppia di fratelli. Si tratta di una casa visitata dalla sofferenza. La donna, costretta a letto da uno stato febbricitante, è l’emblema di quella casa segnata dalla malattia. Parlare della donna inferma significa presentare tutta la famiglia stigmatizzata dalla sofferenza.
L’atteggiamento di Gesù è descritto attraverso tre verbi: «accostarsi», «far alzare» e «prendere per mano». Gesù si avvicina e cerca il contatto con la donna con la volontà di farla alzare. Il verbo «alzare» è lo stesso della risurrezione. Avviene un cambiamento di stato, dall’essere stesi a terra all’essere in piedi. La risurrezione, l’alzarsi è segno della conversione, del cambiamento del modo di essere, di vivere e di credere. L’uomo posseduto dallo spirito impuro attraverso le sue parole autodenuncia la sua fede incredula. La donna si lascia prendere per mano e si mette in piedi, lasciando cadere, come fosse un’armatura, la febbre o quel «fuoco» che la debilitava. L’azione di Gesù non cambia solo la postura, ma lo stato di vita caratterizzato dal servizio. Il verbo servire ritornerà nel racconto di Marco acquistando il suo significato nuovo quando Gesù, parlando agli apostoli afferma di essere venuto non per essere servito ma per servire e dare la vita in riscatto per tutti (Mc 10, 45).
La predicazione dell’avvento del Regno di Dio avviene con parole e gesti. Gesù viene per prendersi cura dell’uomo liberandolo dal male e dargli speranza. L’atto sanante di Gesù è la rivelazione di un processo di guarigione che si attua attraverso un modo di vivere caratterizzato dal servizio. Attraverso il servizio si guariscono le relazioni che da bloccate diventano armoniose perché attraverso di esse ci si dona reciprocamente amore. Il servizio non è un bene strumentale, ma è il modo con il quale ci riconosciamo come persone e non come utili utensili.
La scena successiva passa dall’interno della casa, dove si era ristabilita una relazione familiare più sana basata sul servizio, alla soglia dalla quale la visione si apre verso la folla di malati e indemoniati che si era radunata sulla porta. L’azione di Gesù è meglio specificata nell’atto di guarire i malati e scacciare i demoni ai quali impediva di pronunciare il suo nome.
Gesù, entrando nella casa e accostandosi agli infermi, rende visibile la prossimità di Dio e, ponendosi sulla porta, va verso la moltitudine degli uomini schiavi del peccato e resi invalidi dalle malattie per prendersi cura di loro. Guarire e scacciare sono due modi di essere di Gesù, compassionevole nel curare i sofferenti, inflessibile nel combattere il peccato, in particolare l’ipocrisia, ovvero la fede incredula. Gesù mette a tacere i demoni perché il fine della sua azione terapeutica non è dimostrare chi sia e quanto valga, ma andare oltre e condurre oltre. Gesù è venuto non per sanare, ma per salvare. La guarigione può essere intesa come un tornare allo stato precedente la malattia, ma in realtà è un evento che vuole mettere in moto un processo di novità.
La cura che Dio ha nei nostri confronti non mira a immunizzarci dalla sofferenza e a toglierci la croce, ma a vivere l’infermità come esperienza di compassione nel quale incontrarci come fratelli e condividerla nella fede.
Le parole di Giobbe esprimono il dolore di chi vive la malattia come una condanna per chissà quali colpe. La solitudine nel dolore conduce allo scoraggiamento e alla disperazione. Reclusi o autoreclusi nel proprio dolore ci si sente esclusi dall’amore di Dio che è avvertito sempre più estraneo alla propria vita.
La scena successiva descrive la preghiera notturna di Gesù in un luogo deserto. Il verbo all’imperfetto usato per la preghiera indica un atteggiamento, cioè un modo stabile di essere, come lo è il servizio operato dalla suocera di Pietro. Il servizio è effetto del contatto fisico con Gesù. Il servizio che Gesù compie, guarendo è scacciando i demoni, non nasce dalla sua buona volontà, ma dal contatto fisico con Dio, continuazione del dialogo iniziato nel deserto e al battesimo. Nel deserto Gesù era in mezzo alle bestie e gli angeli lo servivano. La relazione con gli uomini dipende da quella con Dio. Il servizio indica una relazione armoniosa basata sul dono. La preghiera è servizio perché stabilisce una relazione con l’altro fondata sul libero dono di sé. La preghiera è l’ambito nel quale si struttura il modo di essere per l’altro.
Simone, troppo preso dalle aspettative della gente ed eccessivamente preoccupato di salvaguardare la fama di Gesù non lo segue, ma si fa guida e portavoce di coloro che lo inseguono come fosse una preda da afferrare. «Tutti ti cercano» esprime un desiderio che accomuna coloro che hanno visto i miracoli e vogliono che continui nell’opera iniziata. L’interesse per Gesù non è motivato dal desiderio di ascoltare la sua parola ma di vedere i miracoli. Qui, come avverrà anche più avanti, Simone e quelli che sono con lui, vorrebbero influenzare i movimenti di Gesù affinché incontri sempre meglio il favore della gente.
La solitudine vissuta nella preghiera inizia a diventare solitudine anche nella missione. La strada che Gesù vuole percorrere gli è indicata dal Dio. La sua missione prima che essere la risposta ai desideri di chi lo incontra, crede di aver capito chi sia e che gli ritorna utile, è un cammino i cui ritmi sono dettati da Dio. Attraverso la preghiera Gesù si fa discepolo del Padre e come tale si lascia guidare dalla sua volontà e non dai bisogni contingenti degli uomini. La volontà di Dio ha una prospettiva molto più ampia di quella umana condizionata dal peccato. Gesù non è il mezzo per risolvere i problemi, ma è la via che conduce verso l’oltre di Dio.
La risposta di Gesù a Simone e agli altri discepoli è un invito a lasciare Cafarnao, la loro sinagoga e la loro casa, per andare oltre nei villaggi vicini, affinché la parola di Dio possa essere predicata anche lì. La logica di Gesù non è quella di chi cura il suo orticello, ma del seminatore che esce a seminare ovunque, senza calcoli o previsioni.
Da Cafarnao inizia il viaggio missionario di Gesù per la Galilea sostando nelle sinagoghe per insegnare e scacciare i demoni.
MEDITATIO
Vita nuova che profuma di speranza
Nella casa di Simone Gesù passa dal conoscere la suocera nella sua malattia a condividerla accostandosi e prendendole la mano. Gesù si unisce all’uomo malato, fa sua la sofferenza dell’infermo e lo guarisce dandogli la speranza di vita. La speranza germoglia nel servizio.
San Paolo, guarito dalla misericordia di Dio, offre la sua testimonianza di missionario del vangelo. La predicazione del vangelo non è una sua iniziativa né una forma di autorealizzazione, ma è una necessità che nasce dal cuore toccato dalla grazia di Dio.
Predicare il vangelo significa per Paolo imitare Gesù. Lui è il Vangelo di Dio.
Nelle parole di Giobbe è espressa una profonda delusione della vita. È lo sfogo di un uomo sofferente che, facendo un bilancio della sua vita, la valuta fallimentare. La fatica del lavoro quotidiano e la fedeltà alle proprie responsabilità sono ricompensate da un ingiusto dolore. Il discorso di Giobbe è un atto di accusa verso Dio, una critica alla sua giustizia, almeno a quella presentata dai teologi che indicano nella sofferenza la condanna per la colpa. Ciò che angustia Giobbe non è solo l’infermità fisica, ma la disperazione alimentata da una fede che coincide con la giustizia retributiva.
Se una speranza c’è è quella di trovare la via per la guarigione per ristabilirsi in salute. Ma il tempo fugge e la speranza svanisce giorno dopo giorno.
L’ingresso di Gesù nella casa di Simone e Andrea e i suoi gesti silenziosi compiuti nei confronti della donna anziana, bloccata a letto dalla febbre, sono la rivelazione di un Dio che si coinvolge pienamente nelle vicende umane e lo fa con delicatezza e tenerezza. La parola autorevole cede il posto a semplici gesti di umanità. Il conoscere l’infermità della donna lo induce ad avvicinarsi a lei per farla alzare. Il verbo alzare è lo stesso della risurrezione. Come per Gesù, anche per la suocera di Simone, non si tratta di rimettersi in piedi o ristabilirsi nello stato precedente ma avviene una novità nel modo di essere e di vivere. Il contatto con Gesù da una parte è partecipazione sua alla nostra condizione mortale, dall’altra è la via attraverso la quale noi partecipiamo alla sua risurrezione, ovvero al suo modo di vivere nel corpo come servo per amore. La sofferenza vissuta nel corpo non è più la dimostrazione di quanto sia inutile lavorare e faticare perché poi tutto finisce e non c’è vera ricompensa, ma è l’occasione nella quale Dio si fa vicino per risollevarci e darci una vera speranza di vita. Gesù, il vangelo di Dio, ci comunica la sua speranza, ovvero la forza di rialzarci per essere creature nuove che vivono le fatiche e le sofferenze di ogni giorno come servizio d’amore ai fratelli. Il dolore vissuto senza la fede, rifiutando la compagnia di Dio, diventa disperazione che ci isola dagli altri. Al contrario, la fede ci permette di vivere il dramma della fragilità del nostro corpo come la soglia aperta per accogliere tutti i fratelli e condividere con loro, seguendo Gesù, il cammino della croce che culmina con la risurrezione.
Gesù insegna che la preghiera, fatta nel cuore della notte, è la condizione essenziale per progredire nel cammino della vita verso il compimento della vera speranza. La preghiera è contatto con Dio personale e comunitario nel quale si sperimenta la potenza terapeutica del Vangelo. Chi incontra Gesù e con fiducia lo segue nel cammino di fede si lascia toccare sempre più intimamente nel cuore. L’orizzonte della vita si allarga ad abbracciare tutti i fratelli e le sorelle con cui formare una sola famiglia.
Prendendo consapevolezza dei nostri limiti ci rendiamo conto che non basta prenderci cura del nostro corpo fisico, ma che abbiamo bisogno di andare oltre e curare anche la dimensione spirituale. Il motivo per cui intraprendere e perseverare in un itinerario di fede e di guarigione dello spirito non potrà più essere semplicemente la salvezza della propria anima, ma il bisogno di un contatto più intimo con Dio e il desiderio di seminare la speranza ovunque e in chiunque. Gesù ci offre un modello di vita, vita di servizio da cui promana il profumo della speranza.
Santo del Giorno | Preghiera del giorno | La preghiera di don Pasquale
Commento a cura di don Pasquale Giordano
Vicario episcopale per l’evangelizzazione e la catechesi e direttore del Centro di Spiritualità biblica a Matera
Fonte – il blog di don Pasquale “Tu hai Parole di vita eterna“