don Pasquale Giordano – Commento al Vangelo del 3 Luglio 2020

Il credente, come l’Amore non amato, brilla nella notte

SAN TOMMASO

Il primo annuncio pasquale fatto dagli apostoli a uno di loro è stato un fallimento. L’assenza di Tommaso aveva reso ancora più povera la comunità dei Dodici dopo la defezione di Giuda. Gesù comunque era apparso risorto al gruppo che era rimasto riunito nel cenacolo, mancante, ma ancora esistente. Il timore per i Giudei li aveva indotti a chiudersi in quella sala al piano superiore in cui qualche giorno prima durante la cena Gesù con un gesto simbolico e un lungo discorso aveva preparato i suoi discepoli alla Pasqua. Quella della crocifissione per gli uomini del tempo che vivevano sotto il dominio romano non doveva essere una scena inedita. Era il supplizio riservato agli schiavi, era la condanna a morte più umiliante. Anche se sappiamo che la morte è eredità di ogni uomo, essa ci coglie sempre impreparati. Quando poi ci tocca da vicino e avviene anche tragicamente la morte non è facile da elaborare. Scattano meccanismi di fuga perché sentirsi falliti genera una serie di sensi di colpa. 

L’apparizione di Gesù ai discepoli diventa motivo di gioia perché la visione del Risorto quasi li risveglia da un incubo. Essi gioiscono, sì, ma sono come storditi in quanto ancora non si è compiuto in loro quel cambiamento interiore che fa passare dall’incredulità alla fede, quella che genera la vera beatitudine. «Abbiamo visto il Signore» è certamente un annuncio gioioso, ma questa gioia non è contagiosa fintanto che essa non nasce dall’incontro insieme con il Signore e non genera opere di carità attraverso le quali Cristo ci tocca col suo corpo e il suo corpo può essere visto e toccato.

Il fatto che le porte del cenacolo sono chiuse anche otto giorni dopo la risurrezione rivela che la comunità è ancora chiusa in se stessa e la fede nel Risorto non è ancora matura. Si tratta di una fede autocentrata o sull’io del singolo o sul noi di un gruppo che sa più di setta (la porta chiusa separa nettamente dal mondo esterno) che di comunità aperta, luminosa, missionaria.

Gesù chiama incredulità una fede vissuta e praticata come soddisfazione di un bisogno o realizzazione di un dovere. «Mio Signore e mio Dio» è certamente una professione di fede altissima, potremmo dire che si tratta del vertice della professione di fede, tuttavia essa non è il vertice della fede. La fede, che nasce dal primo annuncio e matura nella Chiesa che si riunisce attorno al Risorto, nella professione fatta davanti alla comunità trova un punto fondamentale, ma non quello finale. Il fine della fede è la beatitudine. Si tratta di una realtà ultra terrena? Assolutamente no! Infatti Gesù non parla al futuro, ma il tempo dei verbi lega il vedere e il credere alla storia. Tommaso ha creduto quando è stato illuminato alla vista del Risorto, tuttavia l’approdo del cammino di fede è la beatitudine che si raggiunge quando si crede pur non vedendo, cioè quando, immersi nelle tenebre del male subìto, si vive il martirio inteso come offerta di sé a Dio. 

Il buio che acceca non è necessariamente quello della sofferenza causata dai nemici esterni. Anche nella comunità in cui viviamo e operiamo ci sono momenti nei quali l’incomprensione, la rivalità, il pregiudizio, la competizione, l’ambizione, fanno calare una cappa di solitudine e tensione. Gesù sembra dire che quando nella chiesa o nella famiglia o in qualsiasi contesto relazionale ci troviamo, vengono meno le emozioni gradevoli che alimentano il nostro impegno, siamo veramente beati se crediamo diventando noi stessi luce di fedeltà, perdono, mitezza, fraternità.

Beato il credente che nella notte della storia si consuma e combatte per brillare come luce che vince le tenebre. La beatitudine del credente è l’amore stesso di Dio, Amore non amato.

Auguro a tutti una serena giornata e vi benedico di cuore!


Commento a cura di don Pasquale Giordano
FonteMater Ecclesiae Bernalda
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