Risorgere è passare dall’essere abitanti di un sepolcro all’essere abitati dallo Spirito di Dio
Il racconto, che si svolge in un arco di una settimana, è scandito da tre momenti: nel primo giorno giunge la notizia della malattia di Lazzaro, nel terzo Gesù annuncia la sua morte, nel settimo avviene la risurrezione.
«Signore, colui che tu ami è malato». Le sorelle di Lazzaro, conoscendo l’amore di Gesù per il loro fratello, lo informano della sua malattia. Esse, come diranno successivamente, si aspettavano che Gesù partisse subito per raggiungerli perché credevano che la presenza di Gesù avrebbe invertito il senso di marcia del malato verso l’esito letale. È la stessa preghiera che il funzionario del re aveva rivolto a Gesù a Cana di Galilea: «Scendi a casa prima che mio figlio muoia!». Come a quel papà disperato Gesù annuncia che il figlio vive, così rivela che l’epilogo della malattia non sarà la morte ma la gloria di Dio. Con un fraseggio enigmatico si allude alla morte del Figlio di Dio attraverso la quale Egli verrà glorificato. Nell’Antico Testamento Dio mostra la sua gloria, tremenda e affascinante, quando fa uscire il popolo d’Israele dall’Egitto facendolo passare all’asciutto attraverso il mar Rosso e quando dal monte Sinai parla a Mosè per consegnargli i dieci comandamenti e stabilire l’alleanza con il popolo eletto. La profezia di Ezechiele annuncia che Dio sta per rivelare la sua gloria quando farà uscire Israele dai sepolcri della terra di esilio, ma non per farli entrare di nuovo nella terra promessa, ma per far entrare lo Spirito nei loro cuori. La vita infatti non dipende dall’essere in un luogo ma dall’essere luogo in cui Dio abita.
Gesù, dopo due giorni di silenzio, cogliendo di sorpresa i suoi discepoli, li invita ad andare con lui in Giudea. Da parte loro c’è una levata di scudi perché il viaggio è pericoloso. E poi, perché rischiare se l’amico Lazzaro si è addormentato e quindi è sulla via della guarigione? A maggior ragione, quando chiaramente viene rivelato che Lazzaro è morto, sorge il dubbio sulla opportunità del viaggio, tanto che Tommaso sbotta: «Andiamo anche noi a morire con lui».
Gesù ricorre all’immagine del giorno e della notte per indicare che c’è un tempo nel quale camminare senza il pericolo d’inciampare perché c’è la luce del sole e un tempo nel quale questa luce non c’è e se uno s’arrischia a camminare nel buio, cade. Gesù sa bene il rischio che corre ma è consapevole anche del fatto che lo guida l’amore a Lazzaro. Chi ama rischia, ma non inciampa. Invece inciampa chi cammina senza la luce della speranza. Senza di essa nel buio del lutto si cade più facilmente e con difficoltà ci si rialza per andare avanti.
Andare incontro alla morte, questa sembra essere la proposta di Gesù, ma in realtà il Signore ci invita a seguirlo sulla via che porta alla vita e di percorrerla guidati dalla sua parola di speranza: «io vado a svegliarlo». Dopo l’immagine del cammino di giorno e di quello nella notte, Gesù impiega quella del sonno per indicare la morte. È fraintesa perché i discepoli pensano al riposo, preludio della guarigione, mentre Gesù vuole alludere alla morte di Lazzaro, ma anche alla sua risurrezione. Gesù va da Lazzaro perché, tramontata la luce di questo mondo, lui possa fargli aprire gli occhi per contemplare la luce eterna. Come il riposo del sonno è il tempo del passaggio dalla veglia al risveglio, così Gesù guida il passaggio dal vigilare in questa vita all’essere svegli come i figli della luce. Ora che Lazzaro è morto non può camminare e attende Gesù, come le sentinelle nella notte attendono l’aurora che segna l’inizio di un nuovo giorno. Sappiamo che la nostra vita terrena ha i giorni contati come le ore del giorno, ma abbiamo fede anche che, come la notte ha le ore contate, così la morte non è l’ultima parola della vita dell’uomo. La paura ci fa cadere nella tentazione di credere che il buio calato sulla nostra vita sia interminabile e definitivo; solo la speranza illumina l’attesa della venuta del Signore che viene a salvarci.
La terza scena avviene nel sesto giorno quando Lazzaro è nel sepolcro già da quattro giorni. Gesù arriva quando sembra che non c’è più nulla da fare perché il processo corruttivo della morte si è avviato inesorabilmente. L’evangelista accenna ai luoghi: il sepolcro dove giace Lazzaro, la casa dove Marta e Maria sono consolate dai conoscenti, Betania che dista da Gerusalemme pochi chilometri. Il cammino terreno di Gesù sta per giungere nella Città Santa nella quale celebrerà la sua Pasqua. Ma prima che tutto si compia deve passare da Betania che significa «la casa della sofferenza». La sofferenza e la morte di Gesù attraversano in pieno quella degli uomini. Una casa in lutto è come un sepolcro dal quale uscire. Marta e Maria incarnano due modi diversi con cui si reagisce alla morte. Sapere della presenza di Gesù, che si ferma fuori del villaggio, induce Marta ad uscire da casa per andargli incontro. La fede la spinge a lasciare il proprio «sepolcro» per incontrare Gesù al quale gli rivolge un rimprovero: «Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!», ma subito dopo aggiunge: «Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, Dio te la concederà». Marta non nasconde di essere delusa da Gesù e di aver messo in dubbio l’autenticità del suo amore per il fratello; dubbio che è ripreso da coloro che, pur vedendo piangere Gesù per la commozione, si domandano: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?». Davanti alla morte, soprattutto quando molto si è pregato perché non accadesse, inevitabilmente sorge l’interrogativo sulla reale bontà di Dio. Questa è anche la nostra fede che è poggiata più su ciò che si sa piuttosto su ciò che si crede, più su verità astratte e precetti che su esperienze concrete di vita. Marta ripete due volte «io so» e poi, sollecitata da Gesù, afferma «io credo». Ma è ancora una fede fragile fatta di parole a cui ancora non corrisponde una fiducia piena. Infatti, quando Gesù chiede di togliere la pietra dal sepolcro, Marta obbietterà che il cadavere è ormai in decomposizione. Dopo Marta, anche Maria, che era rimasta a casa a piangere, sollecitata dalla sorella portavoce della chiamata del Maestro, va incontro a Gesù. Maria esprime il dolore del fatto che Gesù non era presente al momento opportuno per salvare Lazzaro dalla morte. Non sa fare altro che piangere coinvolgendo tutti, persino Gesù che scoppia in pianto nel momento in cui lo conducono al sepolcro. Le lacrime di Gesù rivelano la profonda partecipazione al dolore degli uomini. Gesù, che aveva consolato Marta annunciando che lui era «la risurrezione e la vita», davanti al dolore dell’uomo scoppia in pianto. L’amore di Gesù per Marta e Maria è tale che si esprime da una parte nell’annunciare il vangelo della vita, e dall’altro nel farsi totalmente solidale con chi è nel dolore. Le lacrime di Gesù raccontano la profondità del suo amore verso l’uomo. Dio non solo conosce il nostro dolore ma ne diviene pienamente partecipe.
Gesù invita a credere, cioè a uscire dalle solitudini alle quali ci condanniamo nel momento in cui rimaniamo legati al sepolcro in cui custodiamo rassegnazione, rabbia, risentimento, rimpianto, dubbio, nostalgia e sensi di colpa.
Lazzaro è ciascuno di noi che sperimenta quello che il suo nome significa: Dio aiuta. Sì, Gesù viene non per farci mettere una pietra sopra le cose che ci accadono, ma per farcela togliere. La parola di Gesù non è come quella dei conoscenti che cercano di consolare rimandando la speranza ad un remoto futuro, alla resurrezione dell’ultimo giorno. Gesù parla oggi dall’alto della croce sulla quale «Egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (Eb 5,7). Piangendo con gli uomini Gesù chiede al Padre di salvarlo, e di salvarci, dalla morte.
Mentre molti suggeriscono di elaborare il lutto dimenticando e mettendo una pietra sopra, Gesù ci chiede invece di toglierla per credere e fare memoria della bontà di Dio. Essa si è manifestata in tutta la sua gloria quando ha donato suo Figlio e lo ha risuscitato aprendo anche per noi il varco attraverso la morte per la vita eterna. Gesù si rivolge a noi, come a Lazzaro, chiamandoci fuori. Ci credevamo morti e imprigionati nel dolore e invece Gesù, chiamandoci per nome, ci tira fuori dalla schiavitù della paura e ci fa rendere conto che siamo vivi perché la vita divina è in noi, anche se siamo avvolti ancora dalle bende della nostra debolezza e dal velo che, posto sul viso, c’impedisce di vedere bene e mostrarci definitivamente. Dalla croce Gesù ci ha donato il suo Spirito, lo stesso Spirito che lo ha liberato dai vincoli della morte e lo ha lasciando andare. Abbiamo bisogno che qualcuno ci aiuti a liberarci da ciò che ci impedisce di vivere a pieno la vita cristiana e di andare liberamente dietro Gesù sulla via dell’amore che è la vita eterna. Gesù affida alla Chiesa la consegna di essere mediatrice di liberazione perché possiamo passare dal dominio del peccato, che incute paura e provoca la morte, alla Signoria dello Spirito che ci rende liberi.
Auguro a tutti una serena domenica e vi benedico di cuore!